Recessione, la dittatura del Prodotto interno lordo
Troppo rigido. Asettico. E limitato. L'indicatore è inadatto per valutare l'economia moderna. Ma ogni Paese ne è schiavo.
CRISI
Non si vive di solo Prodotto interno lordo. E a dirlo, prima del premier Matteo Renzi, è stato il premio Nobel Joseph Stiglitz.
Per non parlare di Robert Kennedy (altro politico iscritto d’ufficio al pantheon del presidente del Consiglio) che incentrò la campagna elettorale del 1968 - poi finita come tutti sappiamo - sull’idea che non si potevano legare le politiche di sviluppo a un misuratore asettico come il Pil. Meglio integrarlo, disse Bobby, con indicatori statistici non puramente economici come «la gioia dei bambini nel gioco», «la bellezza della poesia» o «la salda tenuta dei matrimoni».
L'INDICE DELLA FELICITÀ. Nacque così «l’indice della felicità», rimasto fino al 2009 monopolio di velleitari dibattiti o verbosi studi realizzati da economisti compassionevoli o sociologi spregiudicati. Poi in quell’anno l'ex presidente francese Nicolas Sarkozy nominò una commissione ad hoc, presieduta dallo stesso Stiglitz, alla quale parteciparono Amartya Sen, Jean Paul Fitoussi (in Italia diede un contributo l’ex ministro del Lavoro e presidente dell'Istat Enrico Giovannini), per chiuderla con le attuali regole contabili.
MODIFICHE SULLA CARTA. Stiglitz e le altre teste d’uovo riunite a Parigi inventarono «l’indice di benessere della popolazione», secondo il quale la ricchezza di un Paese andava letta sotto l’ottica delle relazioni familiari e sociali, del tempo speso nelle opere di volontariato, della lotta per la difesa dell’ambiente, dei livelli di sicurezza e salute. Tutto è, però, rimasto sulla carta.
SCHIAVI DEL FISCAL COMPACT. Due anni dopo l’Europa si dotò, infatti, del Fiscal compact. Un nuovo parametro di stabilità e sviluppo, che regola i livelli di crescita in base all’indebitamento: cioè la capacità di indebitare le generazioni future e mortificare le loro speranze. Anche se dal lato opposto e in maniera rigida e ragionieristica, sempre di felicità si tratta.
Per non parlare di Robert Kennedy (altro politico iscritto d’ufficio al pantheon del presidente del Consiglio) che incentrò la campagna elettorale del 1968 - poi finita come tutti sappiamo - sull’idea che non si potevano legare le politiche di sviluppo a un misuratore asettico come il Pil. Meglio integrarlo, disse Bobby, con indicatori statistici non puramente economici come «la gioia dei bambini nel gioco», «la bellezza della poesia» o «la salda tenuta dei matrimoni».
L'INDICE DELLA FELICITÀ. Nacque così «l’indice della felicità», rimasto fino al 2009 monopolio di velleitari dibattiti o verbosi studi realizzati da economisti compassionevoli o sociologi spregiudicati. Poi in quell’anno l'ex presidente francese Nicolas Sarkozy nominò una commissione ad hoc, presieduta dallo stesso Stiglitz, alla quale parteciparono Amartya Sen, Jean Paul Fitoussi (in Italia diede un contributo l’ex ministro del Lavoro e presidente dell'Istat Enrico Giovannini), per chiuderla con le attuali regole contabili.
MODIFICHE SULLA CARTA. Stiglitz e le altre teste d’uovo riunite a Parigi inventarono «l’indice di benessere della popolazione», secondo il quale la ricchezza di un Paese andava letta sotto l’ottica delle relazioni familiari e sociali, del tempo speso nelle opere di volontariato, della lotta per la difesa dell’ambiente, dei livelli di sicurezza e salute. Tutto è, però, rimasto sulla carta.
SCHIAVI DEL FISCAL COMPACT. Due anni dopo l’Europa si dotò, infatti, del Fiscal compact. Un nuovo parametro di stabilità e sviluppo, che regola i livelli di crescita in base all’indebitamento: cioè la capacità di indebitare le generazioni future e mortificare le loro speranze. Anche se dal lato opposto e in maniera rigida e ragionieristica, sempre di felicità si tratta.
- L'andamento del Pil italiano dal 2008 al 2013 (©Ansa-Centimetri).
Indice limitativo per la moderna economia
A ben guardare la definizione di Pil è abbastanza limitativa per l’economia moderna.
Sui manuali di macroeconomia si legge che si tratta del «valore totale dei beni e servizi prodotti in un Paese da parte di operatori economici residenti e non residenti nel corso di un anno, e destinati al consumo dell'acquirente finale, agli investimenti privati e pubblici e alle esportazioni nette (esportazioni totali meno importazioni totali)».
NIENTE CAPITALE UMANO.Nell’indicatore non rientrano né la produzione né consumi dei beni intermedi (l’Italia ha scarse materie prime, ma è all’avanguardia per i semilavorati) così come non c’è spazio per il capitale umano. Che è il principale bene che - purtroppo - in questa fase stiamo esportando.
LA CROCIATA DEL WSJ. Contro la dittatura del Pil si è anche schierato il Wall Street Journal. Il quotidiano della city finanziaria americana è partito da una semplice considerazione: nonostante nei mesi scorsi la crescita americana recitava un -2,9%, «né la borsa americana né gli analisti si sono spaventati»: «Anzi l’unica vittima è stata proprio l’affidabilità del Pil come indicatore dello stato di salute di un’economia».
Per non parlare dell’avvio dell’Obamacare, che ha fatto spendere meno agli americani «per avere un’assistenza medica dello stesso livello».
L'INCLUSIONE DELLA DROGA. Sull’altro lato dell’Atlantico, la city di Londra, stessa linea, ma critiche diverse.
Il Financial Times s'è, infatti, si è scagliato contro «le revisioni alla contabilità nazionale che introducono nel calcolo della ricchezza anche le attività illecite e sommerse. Il giornale ha poi concluso: «Siamo proprio sicuri che l’inclusione della droga nel Pil sia un indicatore fedele del benessere nazionale?».
VALUTARE IL SOMMERSO. Mai come per le ultime valutazioni offerte dall’Istat (il -0,2% nel secondo trimestre), è difficile dare torto all’istituto di statistica. Infatti in quei due decimali in meno di Pil c’è la difficoltà di un Paese, che contemporaneamente vede il calo dell’export (l’attività estera) e quello dei consumi (la domanda interna).
Chissà come andranno le cose tra qualche mese, quando l'Eurostat permetterà ai suoi satelliti locali di inserire nel computo del Pil anche una piccola parte di attività illegali. E con 160 miliardi di evasione fiscale c’è di che sperare.
Sui manuali di macroeconomia si legge che si tratta del «valore totale dei beni e servizi prodotti in un Paese da parte di operatori economici residenti e non residenti nel corso di un anno, e destinati al consumo dell'acquirente finale, agli investimenti privati e pubblici e alle esportazioni nette (esportazioni totali meno importazioni totali)».
NIENTE CAPITALE UMANO.Nell’indicatore non rientrano né la produzione né consumi dei beni intermedi (l’Italia ha scarse materie prime, ma è all’avanguardia per i semilavorati) così come non c’è spazio per il capitale umano. Che è il principale bene che - purtroppo - in questa fase stiamo esportando.
LA CROCIATA DEL WSJ. Contro la dittatura del Pil si è anche schierato il Wall Street Journal. Il quotidiano della city finanziaria americana è partito da una semplice considerazione: nonostante nei mesi scorsi la crescita americana recitava un -2,9%, «né la borsa americana né gli analisti si sono spaventati»: «Anzi l’unica vittima è stata proprio l’affidabilità del Pil come indicatore dello stato di salute di un’economia».
Per non parlare dell’avvio dell’Obamacare, che ha fatto spendere meno agli americani «per avere un’assistenza medica dello stesso livello».
L'INCLUSIONE DELLA DROGA. Sull’altro lato dell’Atlantico, la city di Londra, stessa linea, ma critiche diverse.
Il Financial Times s'è, infatti, si è scagliato contro «le revisioni alla contabilità nazionale che introducono nel calcolo della ricchezza anche le attività illecite e sommerse. Il giornale ha poi concluso: «Siamo proprio sicuri che l’inclusione della droga nel Pil sia un indicatore fedele del benessere nazionale?».
VALUTARE IL SOMMERSO. Mai come per le ultime valutazioni offerte dall’Istat (il -0,2% nel secondo trimestre), è difficile dare torto all’istituto di statistica. Infatti in quei due decimali in meno di Pil c’è la difficoltà di un Paese, che contemporaneamente vede il calo dell’export (l’attività estera) e quello dei consumi (la domanda interna).
Chissà come andranno le cose tra qualche mese, quando l'Eurostat permetterà ai suoi satelliti locali di inserire nel computo del Pil anche una piccola parte di attività illegali. E con 160 miliardi di evasione fiscale c’è di che sperare.
Giovedì, 07 Agosto 2014
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