venerdì 8 agosto 2014

Comunque la pensiate leggete questo articolo.

Sei scenari sul destino dell’Italia (e di Renzi)

Troika, uscita dall’euro, ripresa magica, manovre correttive: proviamo a fare finta che...
L'Italia vista dalla Iss (Credits: Nasa)

L'Italia vista dalla Iss (Credits: Nasa)

  
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EURO / RENZI / RECESSIONE / RIPRESA / MANOVRA / ELEZIONI /SPREAD / BCE / DRAGHI / MERKEL / DEFAULT
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L’entrata in recessione tecnica dell’altro ieri, con il secondo trimestre consecutivo di calo del Pil, è stato un duro colpo per chi, Renzi in primis, sperava in un 2014 di ripresa. Per piangere sul latte versato, tuttavia, abbiamo già avuto un paio di giorni. Ora tocca capire che ne sarà di noi da domani. Un po’ per gioco, un po’ no, abbiamo provato a immaginare sei scenari, dall’arrivo della famigerata Troika, all’uscita dall’euro sino al terribile default. Per ognuno abbiamo provato a ricostruire una premessa, a definire una probabilità, a enumerarne vantaggi e svantaggi. Già che c’eravamo, gli abbiamo pure abbinato un film. Che la situazione è grave, ma seria, in Italia, non lo è mai. Tantomeno d’estate. 
cinderella
Succede se...
Dal prossimo trimestre la crescita del Pil italiano torna in territorio positivo, trainata dagli investimenti stranieri nelle imprese italiane, dalla fine della crisi russo-ucraina, dalla ripartenza della domanda mondiale, dai primi tangibili effetti degli 80 euro di Renzi sulla domanda interna. Nel frattempo, il governo decide di scommettere su questo scenario e sceglie di non fare alcuna manovra correttiva a ottobre, per non rischiare di deprimere la propensione a investire delle imprese e la propensione al consumo delle famiglie. Al contrario, riesce a trovare le coperture almeno per rendere strutturale il taglio del cuneo fiscale ai lavoratori dipendenti, con tagli mirati e coraggiosi alla spesa pubblica, che riesce a far passare in Parlamento, insieme alle riforme istituzionali.
Accadrà? 
Molto probabilmente no, purtroppo. Se anche gli investimenti stranieri continueranno a crescere, la domanda mondiale appare ancora troppo influenzata dalla crisi russo-ucraina e dalle ritorsioni di Putin, che potrebbero coinvolgere anche un partner commerciale importante per l’Italia come la Germania. Allo stesso modo, è dura che la domanda interna si riprenda, considerata anche la sciagurata stagione turistica che stiamo vivendo, causa maltempo. In questo scenario, è altrettanto difficile che Renzi, seppur con tutta la buona volontà e l’ottimismo che accompagna lui e i suoi, riesca a non cedere alla necessità di una manovra correttiva, o a una patrimoniale. Ed è altrettanto difficile che un governo che si intimidisce di fronte a «quota 96» riesca a sforbiciare la spesa pubblica quanto serve per evitare una manovra correttiva e trovare le coperture per gli 80 euro.
GIUSEPPE CACACE/AFP/Getty Images

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Vantaggi
È lo scenario che ci auguriamo un po’ tutti, questo. Uscire dalla crisi con politiche fiscali espansive, con una spesa pubblica sotto controllo, con una pubblica amministrazione più semplice ed efficiente, con un sistema imprenditoriale in grado di attrarre risorse e finanziamenti dall’estero. Talmente bello che sembra un sogno a occhi aperti.  A meno che il calo del Pil di questo trimestre e la paura di scenari alternativi non diano un’accelerata decisa a tutto quanto il processo di riforme.
Svantaggi
Se questo scenario si realizzasse, svantaggi ce ne sarebbero pochi. Rischioso, semmai, è scommettere su una «ripresa magica» che in buona parte non dipende da noi. Possiamo raccontarcela quanto vogliamo, ma a giugno l’export è calato del 4,3% rispetto al mese precedente non per colpa di Renzi, né per colpa delle imprese, il cui indice di produzione è in crescita, fra l’altro, ma perché il contesto internazionale non aiuta, se anche la Germania ha registrato a giugno un calo degli ordinativi del 3,2%, a fronte di previsioni di crescita dello 0,9 per cento. Ricordiamocelo: ogni calo del Pil sballa i conti e richiede un avanzo primario sempre più alto per restare dentro il vincolo del 3 per cento. Se a tutto questo aggiungiamo pareggio di bilancio e fiscal compact, si capisce facilmente come questa scommessa, se la perdiamo, potrebbe costarci molto cara, tra qualche mese.
fast and furious
Succede se...
Le difficoltà sui mercati internazionali della Germania e un calo del Pil tedesco nel secondo trimestre – nonché quelle di altri Paesi dell’eurozona - inducono la Merkel e i falchi di Bruxelles a ritornare sui loro passi e a concedere a loro stessi, oltre che all’Italia, quella flessibilità che Renzi e Padoan vanno chiedendo ormai da aprile. Questo, le difficoltà congiunturali e la paura per una spirale deflattiva che, complici le difficoltà a esportare, diventa un rischio anche per Paesi come la Germania, convincono Draghi e la Bce a immettere liquidità nel sistema economico di eurolandia. Nel frattempo, la crescente insostenibilità dei debiti pubblici di sempre più Paesi, rimettono al centro dell’agenda della politica continentale gli Eurobond e, più in generale, l’idea che parte dei titoli di debito europei abbiano una comune garanzia. L’Italia, in questo modo, ha le risorse per far partire un piano infrastrutturale ambizioso – qualcuno sui giornali lo chiamerà new deal -  per ridar fiato, dal versante pubblico a quegli investimenti che, fino al 2008, erano pari al 21% del Pil e oggi sono pari al 16 per cento.
Accadrà? 
Probabilmente no. Certo, la Germania non se la passa bene, ma non a un punto tale da concedere all’Italia quel che gli ha sempre negato fino alla morte (letteralmente), ossia gli Eurobond. Lo stesso vale per la flessibilità. Come dice giustamente l’economista-blogger Mario Seminerio, «si potrebbe invocare flessibilità erga omnes (e Renzi e Padoan si preparano a farlo), ma ci verrà risposto che siamo comunque quelli messi peggio», e che quindi noi la flessibilità la dovremmo pagare di più. Nessuna conversione sulla via di Damasco all’orizzonte, quindi. Sull’immissione della liquidità da parte della Bce, invece, qualcosa potrebbe accadere a breve: la Banca centrale, lo scorso giugno, ha infatti annunciato iTargeted Long-Term Refinancing Operation, per gli amici, Tltro. Sono un programma di prestiti a basso tasso d’interesse che consentirebbe alle banche commerciali europee di usufruire di prestiti fino a 400 miliardi di euro. La prima delle due tranche di erogazione dovrebbe essere a settembre, la seconda a dicembre. I politici europei sperano che l’immissione di nuova liquidità possa rappresentare uno sprone a prestare denaro alle famiglie e alle imprese, stimolando consumi e magari pure qualche investimento.

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Vantaggi
Anche dentro questo scenario, l’economia italiana trarrebbe dei vantaggi competitivi non irrilevanti: potrebbe permettersi di fare nuova spesa pubblica per stimolare gli investimenti, di pagare – in tutto o in parte – i debiti della pubblica amministrazione alle imprese e la liquidità immessa sul mercato potrebbe pure far crescere un po’ i prezzi. 
Svantaggi
Con il sei politico, nessuno ha mai fatto i compiti a casa e la paura della Germania, ampiamente giustificata, è che con gli eurobond e la flessibilità, l’Italia perda ogni incentivo a tagliare la spesa pubblica o a riformare la pubblica amministrazione e il mercato del lavoro. Al netto delle paure dei tedeschi – che di per se non sarebbe nemmeno rubricabili alla voce “svantaggi” – rimane il fatto che un recupero di efficienza, sostenibilità e di sana gestione del settore pubblico farebbe bene anche al nostro sistema economico, al netto di tutte le rendite di posizione che tutto questo andrebbe a erodere. 
house of cards
Succede se...
Renzi cede e a ottobre fa una manovra correttiva di 20 miliardi circa. Tagli alla spesa pubblica, dismissioni, giochini con la Cassa depositi e presiti, principalmente, stando attento a non colpire troppo il ceto medio e cercando in tutti i modi di blindare i celeberrimi 80 euro di taglio del cuneo fiscale. Poi, una volta licenziata la legge elettorale, si va alle elezioni con una legge elettorale che offre garanzia di governabilità al vincitore (relativo) e una sola Camera legiferante. Ammettiamo vinca, che non possiamo concederci troppe subordinate: legittimato dal consenso popolare e con un Parlamento a sua immagine, il governo può fare le riforme e i tagli che vuole, senza troppi problemi.
Accadrà?
È probabile. Perlomeno, molti commentatori politici credono sia questo il motivo per cui Renzi sta forzando la mano sulla riforma elettorale e su quella istituzionale. Il 2015, non dimentichiamolo, sarà l’anno in cui dovremo raggiungere il pareggio di bilancio e il 2016 è l’anno in cui inizieranno i controlli sul fiscal compact. Due annetti tosti, insomma, in cui è meglio non ci siano elezioni nei paraggi. Poi – o nel frattempo, magari – anche tutto il resto del menù renziano, quello dei "mille giorni": investimenti in infrastrutture, crediti alle imprese, formazione digitale, cultura, flexecurity e tutto il resto. Sperando che nel frattempo qualcosa succeda, dalla crescita del Pil, a un cambio di rotta nelle politiche comunitarie.
Vantaggi
La legittimazione elettorale potrebbe scrollare di dosso a Renzi il timore di dover tirare a campare per non tirare le cuoia. Forte del voto popolare di un Parlamento snellito e “amico” potrebbe portare avanti la riduzione dello stock di debito pubblico, la revisione della spesa pubblica, la riforma della Pa e quella del mercato del lavoro senza lo stilicidio di emendamenti e veti incrociati cui è oggi obbligato dalle larghe intese. 
(ALBERTO PIZZOLI / AFP)

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Svantaggi 
Per Renzi, il rischio di essere sconfitto alle urne. Per il resto del mondo, il rischio di subire lo strapotere renziano senza alcun contrappeso. Per l’Italia, più in generale, il rischio che l’agenda del governo si schiacci troppo sulle politiche di austerità che ci chiede l’Europa: del resto, la nostra priorità è – o dovrebbe essere – la crescita del Pil.
mr wolf
Succede se...
Nessuna manovra in autunno, nessuna crescita a coprire il disavanzo, procedure d’infrazione dell’Ue, spread che sale, nessuno compra più i nostri titoli di debito ed eccoci a un passo dal default, ossia dall’impossibilità di ripagare i prestiti precedentemente contratti. A quel punto, Renzi – o chi per lui, ammesso e non concesso che sopravviva politicamente a una simile eventualità – chiede aiuto all’esterno. Ecco quindi che arrivano loro, i Mr. Wolf degli Stati con le pezze sul retro dei pantaloni, o, se preferite, Le Iene: Jean Claude Juncker, Presidente della Commissione Europea; Olli Rehn (o chi per lui), Commissario Europeo per gli affari economici e monetari; Mario Draghi, Presidente della Bce e Christine Lagarde, Direttore operativo del Fondo monetario internazionale. Di fatto si tratta di un’autorità esterna che impone alcune scelte di politica economica – generalmente di stampo neoliberista, sovente piuttosto radicali – in cambio dell’accesso a prestiti o acquisto di bond o apertura di linee di credito. Se in Argentina la cosa si è risolta (si fa per dire) con un prestito del Fondo monetario e in Grecia con il ricorso al cosiddetto “fondo salva Stati”, in Italia lo strumento adottato è quello del Meccanismo europeo di stabilità, per gli amici Mef, un fondo da 500 miliardi di Euro da poco istituito.
Un graffito ad Atene (Louisa Gouliamaki / Afp)

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Accadrà?
Non è detto non accada. Se la crescita continua a latitare, il rapporto deficit/Pil va fuori controllo. E se questo accade, anche la fiducia degli investitori potrebbe venir meno. A quel punto, non vorremmo essere nei panni di Matteo Renzi, che sul ritorno della politica che decide e sulla fine della tecnocrazia ha fondato tutta la sua poetica. Magari ha ragione ancora Mario Seminerio, quando dice che potrebbe spacciare un aiuto della troika come «una forma di assistenza sovranazionale al contempo light e cogente» che gli permetta di restare in sella e dire che «ci hanno accordato la flessibilità che chiedevamo». A questo aggiungete l’intervento di Mario Draghi di ieri - il bastone dopo la carota dei prestiti alle banche - secondo cui «per i Paesi dell'Eurozona è arrivato il momento di cedere sovranità all'Europa per quanto riguarda le riforme strutturali». La Troika sarà pure lontana, ma ha già impostato il percorso per Roma, sul suo navigatore satellitare.
Vantaggi
La tesi della Troika è che l’austerità funzioni se la disoccupazione di massa tende a ridurre di parecchio i salari, in modo da poter dare slancio alle esportazioni e rendere più competitiva l’economia. Negli ultimi anni, in Grecia, si è vista giusto la disoccupazione, ma nell’ultimo periodo qualche segnale di ripresa è arrivato. Ad esempio, nel 2013, per la prima volta dopo 66 anni, la Grecia ha fatto registrare il primo surplus delle partite correnti pari a 1,244 miliardi di euro (lo 0,7% del Pil) contro un disavanzo di 4,615 miliardi dell'anno precedente e di 20,6 miliardi del 2011. I critici affermano che tali risultati, piccoli o grandi che siano, sono ancora figli della massiccia immissione di denaro comunitario e non certo di un’economia guarita. E anche che nel 2014 la Grecia diventasse meta d’investimenti stranieri, ci vorranno anni prima che la disoccupazione ritorni a livelli accettabili. I difensori delle politiche di austerità affermano che i vantaggi si vedranno nel medio-lungo periodo. Forse noi saremo tutti morti e non li vedremo, ma i nostri figli o i nostri nipoti no. Buon per loro.
Svantaggi
Dicevamo, il prezzo da pagare alla Troika è piuttosto salato. Dal 2010 a oggi, la ricchezza della Grecia è diminuita del 25% circa, uno dei crolli peggio di sempre. Inoltre la disoccupazione è cresciuta fino al 27%, quella giovanile al 58% e i salari sono calati di circa 20 punti percentuali. A questo si aggiungano tagli drastici alla spesa pubblica, licenziamenti di massa dei dipendenti statali e prelievi forzosi dei conti correnti. Il tutto senza che si vedano, ad oggi, risultati che giustifichino tale sforzo. Il rischio vero è che tutto questo produca solo frustrazione e rabbia, portando alla ribalta – e magari al governo – partiti poco raccomandabili come Alba Dorata. Magari, però, ha ragione Scalfari: forse la Troika è diventata un’allegra combriccola di amici che viene a portare credito alle imprese e a combattere la deflazione.
brave
Succede se...
Ci sono molti modi in cui potremmo decidere di uscire dall’Euro. Una vittoria del Movimento cinque stelle alle elezioni, ad esempio, se mai dovessero esserci a breve. È un’eventualità, questa, che presumibilmente si compirebbe di fronte a un aggravarsi della congiuntura economica e all’incapacità del governo di porvi rimedio, magari di fronte alla prospettiva di un prossimo default, in alternativa all’ipotesi di un intervento della famigerata troika.
Accadrà?
È molto difficile. Se le cose si mettessero male, è difficile che l’attuale maggioranza si sfaldi per tornare alle urne. Allo stesso modo, per quanto molti italiani agognino il ritorno all’amata e rimpianta Liretta, va anche ricordato che l’elettore medio italiano è storicamente poco propenso ai salti nel vuoto e alle scommesse temerarie.
Vantaggi 
Il partito No Euro è un fiume silenzioso e carsico che comincia a far proseliti anche fra gli insospettabili. Come l’economista Luigi Zingales, ad esempio, che certo non si può dire avverso alla moneta unica, ma che al Foglio, qualche mese fa, ha dichiarato che «o l’Eurozona si autoriforma nei prossimi 18-24 mesi oppure i costi di rimanere cominceranno a eccedere i benefici e l’uscita diventerà il male minore». In altre parole, secondo Zingales, stiamo pagando costi peggiori - o quasi - rispetto a quelli che pagheremmo se tornassimo alla Lira. Tra i benefici dell’uscita dall’euro, sempre per l’economista italiano di sede a Chicago ci sarebbe il sollievo temporaneo della svalutazione monetaria e del rilancio di alcune aziende esportatrici, mentre «non implicherebbe automaticamente il default» del Paese, perché il debito pubblico e di molte imprese potrebbe essere rinominato in Lire. 
Claudio Borghi

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Svantaggi
Non si contano, in questi anni, gli economisti e i commentatori che, con ragioni più o meno buone, si sono erti a difensori di una moneta unica che, obiettivamente, di benefici non ne ha prodotti granché. Tra tutte queste analisi, abbiamo scelto quella di Davide Colombo, apparsa sul Sole 24 Ore lo scorso 5 febbraio: In primo luogo, dice Colombo, la diffusione delle filiere globali riducono i vantaggi competitivi di una svalutazione: «Ora si produce importando anche i semi-lavorati che servono a produrre i beni finali da esportare e in questo nuovo contesto (…) la svalutazione del cambio renderebbe queste importazioni assai più costose annullando l’eventuale guadagno di competitività». In secondo luogo, i sistemi bancari in crisi renderebbero difficile ottenere nuovo credito. Senza contare, aggiunge Colombo, che un'uscita dalla moneta unica determinerebbe la crescita dello spread e porterebbe a un’impennata dei prezzi. Il dibattito è aperto, insomma.
fight club
Succede se...
Prima di tutto: il default è la condizione in cui un Paese non è in grado o si rifiuta di pagare - in tutto o in parte - il proprio debito. Intendiamoci: non è un fatto improvviso, ma il culmine di un periodo di difficoltà, ancora maggiore di quello che abbiamo vissuto nell’estate e nell’autunno del 2011, quando lo spread ha toccato il suo massimo storico a quota 574 punti base. Cosa deve accadere? Che succeda di nuovo e che Renzi (o chi per lui) rifiuti ogni aiuto e getti la spugna.
Accadrà?
Quasi sicuramente no. Per quanto abbia raggiunto livelli siderali, il nostro debito pubblico è ancora sostenibile. Lo dimostrano diversi indicatori, dal livello degli investimenti in Italia di questi ultimi mesi, a uno spread che è attorno a quota 160, sino al conto corrente della bilancia dei pagamenti in attivo. L’afflusso di capitali dall’estero è di fatto il miglior antidoto al default. Certo, 2mila miliardi di valore nominale e 100 miliardi di interessi all’anno (su 800 miliardi complessivi di entrate) fanno impressione. Così come fa impressione il fatto che tali interessi siano frutto di un debito ulteriore che serve a pagarli, come un cane che si morde la coda, mentre la spesa pubblica scende. Un nodo difficile da sciogliere, insomma. Il quasi dipende soprattutto da questo.

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Vantaggi
C’è un grafico interessante che ha pubblicato l’Economist. Generalmente, i costi del default si pagano negli anni immediatamente precedenti allo stesso, in cui viene bruciata parecchia ricchezza per correggere un disequilibrio strutturale di fatto incorreggibile. Dopo il default, generalmente, c’è una forte ripresa del Pil, tant’è che alcuni commentatori si spingono a direche è preciso interesse di un’economia andare in default, se lo squilibrio e l’agonia persistono.
economist default
Svantaggi
Come detto, i costi di un default si pagano prima dello stesso e sono molto salati, come il caso argentino dimostra. In diversi casi la perdita di competitività del periodo antecedente al default, al netto dei più fisiologici rimbalzi statistici, rende piuttosto effimera la successiva crescita. E non scongiura – è ancora l’Argentina a dimostrarlo – il rischio di un successivo default. 
argentina, crisi

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