Articolo Tre
In cerca della visibilità necessaria a sopravvivere politicamente, Matteo Salvini ha radunato a Milano una folla di leghisti al grido di “chi non salta clandestino è! ”.
Non è certo saltellando che si affrontano le questioni e neanche solleticando i peggiori istinti che si fa politica. Incitare alla guerra tra poveri non ha mai portato nulla di buono.
Ma non si può pretendere che tutti quelli che si dedicano alla politica siano degli statisti.
Non dimenticarti, però, caro Salvini, che tutti siamo stati immigrati e che tutti abbiamo sofferto al nostro arrivo. Anche chi ha portato il tuo stesso cognome.
Pensa che, dal 1892 al 1956, i Salvini che sono approdati nel porto di Ellis Island in cerca di fortuna sono stati ben 228, come risulta da questo utile sito. E solo negli USA.
Non è dato sapere che fine abbiano fatto, quale sorte abbiano avuto. E, neanche, come stiano i loro discendenti ormai americani a tutti gli effetti. Ma forse non saltellerebbero dalla gioia alla notizia delle tue iniziative.
Spesso dimentichiamo quello che diamo per scontato. Allora, anche a rischio di non dire nulla di originale, è opportuno ribadire alcune verità, piuttosto che passare oltre credendo che la pensiamo tutti allo stesso modo. La memoria collettiva esiste solo se qualcuno si prende la briga di tenerla viva. Altrimenti diventa una smemoratezza generale.
È uno strano Paese il nostro. È stato sufficiente lo spazio di poche generazioni per dimenticare quando gli emigranti eravamo noi. Quando i Salvini erano gli immigrati. Erano i nostri nonni ad abbandonare la propria terra, la famiglia e a dover affrontare la diffidenza e l’ostilità di una terra straniera, nella speranza di un futuro migliore. Forse tra loro, caro Salvini, c’erano anche i tuoi avi.
Ormai sembra solo un mondo lontano, che non ci appartiene più. Navi stipate di persone e di speranze, strofinacci che avvolgono un po’ di cibo per affrontare il viaggio, un vestito addosso ed un altro, quello “buono”, ripiegato nella valigia di cartone per cercare di fare buona impressione.
All’arrivo nessuno ad accoglierli, anzi. Identificazione, visita medica, quarantena e poi la speranza e il desiderio di rifarsi una vita.
Retorica? Ad ascoltare i racconti di chi quei giorni li ha vissuti o a rivedere qualche foto di quegli anni, non credo proprio.
Come ci ha ricordato il presidente Napolitano nel 2009 (inaugurando Museo nazionale dell’emigrazione italiana nel Complesso monumentale del Vittoriano, a Roma), «oggi che noi accogliamo gli immigrati, non dovremmo mai dimenticare di essere stati un Paese di emigrazione».
Purtroppo, però, di quell’esperienza e di quel mondo non c’è più traccia, neanche nel nostro linguaggio, nelle parole che usiamo: “l’emergenza degli immigrati” si è trasformata in “emergenza immigrati”.
In sostanza, l’emergenza viene associata al fenomeno dell’immigrazione dal lato sbagliato, come a dire «non sono io ad essere razzista, è lui che è di un’altra razza!». Non sono gli immigrati a vivere nell’emergenza, a dover fuggire da realtà e vite che per la maggior parte di noi, per fortuna, sono inimmaginabili. L’emergenza è diventata la nostra. Ci lamentiamo degli immigrati che invadono il nostro Paese, che ci rubano il lavoro, che ci rubano la ricchezza, che ci rubano la serenità del benessere che ci siamo conquistati.
Il Novecento, il secolo della nostra emigrazione, con trenta milioni di Italiani che hanno lasciato l’Italia chiedendo ospitalità all’estero, ormai ce lo siamo lasciato alle spalle e con esso anche quel senso di solidarietà e di speranza che nutrivano gli italiani che ci hanno preceduto.
Pochi anni dopo quell’ondata di immigrazione che invase gli U.S.A., J.F. Kennedy così scriveva: «le leggi sull’immigrazione dovrebbero essere generose, dovrebbero essere eque, dovrebbero essere flessibili. Con leggi siffatte potremo guardare al mondo, e al nostro passato, con le mani pulite e la coscienza tranquilla».
Ecco, caro Salvini, per un politico avere la possibilità di guardare al mondo e al passato con le mani pulite e la coscienza tranquilla è un buon metro di giudizio.
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