Emozione e rabbia
Si dice che dovremmo ridurre l’umanità a statistica e limitarci alla contabilità delle vittime. Invece l’emozione è fortissima, come la rabbia
Si dice che noi giornalisti dovremmo farci il callo, imparare ad essere di ghiaccio di fronte alle condizioni degli sbarcati nella dolce terra d’Italia e ai cadaveri trascinati in fondo al mare, che dovremmo bendare le emozioni davanti al nostro Cuore di Tenebra, far finta che non esistano nomi delle loro terre, lingue, storie personali. Ridurre, insomma, l’umanità a statistica e limitarci alla contabilità delle vittime. Invece l’emozione è fortissima, come la rabbia. È dolorosa sulle piaghe di una terribile quotidiana sequenza di naufragi che sono veri e propri omicidi impuniti compiuti da negrieri e schiavisti della modernità.
Chi deve intervenire – Onu, Nato, Europa – da tempo se ne lava le mani. E altri 200 annegati nella bara del Mediterraneo, la “strada” più mortale del mondo, allungano la lista a 21.439 bambini, donne e uomini sepolti in mare in 25 anni. Tanti anni fa, al tramonto, mi trovai davanti ad un cargo battente bandiera coreana nel porto di Marina di Carrara.
Nemmeno il crepuscolo oscuro riusciva a nascondere un container maleodorante. E nemmeno lo stomaco reggeva la scena del cadavere disidratato di un ragazzino nudo, rimasto intrappolato dentro la bara di metallo. Mi colpì un particolare: le unghie consumate a sangue. Per quanti giorni le ha torturate provando ad aprire a mani nude il portellone? Si chiamava Khaled, lo aspettava suo fratello operaio in una fonderia di Sassuolo. Ci incontrammo, mi raccontò che per quella tragica via di fuga aveva pagato a marinai corrotti mille dollari, e tra le poche cose che riuscì a recuperare c’era un piccolo registratore portatile con dentro un nastro musicale ma con brevi registrazioni di frasi sempre più sconnesse e richieste disperate durante la lunga agonia nel buio dell’acciaio. Pensavo fosse finita lì. Invece era solo l’inizio. Bisogna ancora imparare a capire nel 2015 cosa si prova a morire in 71 sigillati dentro un Tir, spinti verso il panico e i territori dell’angoscia.
Chi deve intervenire – Onu, Nato, Europa – da tempo se ne lava le mani. E altri 200 annegati nella bara del Mediterraneo, la “strada” più mortale del mondo, allungano la lista a 21.439 bambini, donne e uomini sepolti in mare in 25 anni. Tanti anni fa, al tramonto, mi trovai davanti ad un cargo battente bandiera coreana nel porto di Marina di Carrara.
Nemmeno il crepuscolo oscuro riusciva a nascondere un container maleodorante. E nemmeno lo stomaco reggeva la scena del cadavere disidratato di un ragazzino nudo, rimasto intrappolato dentro la bara di metallo. Mi colpì un particolare: le unghie consumate a sangue. Per quanti giorni le ha torturate provando ad aprire a mani nude il portellone? Si chiamava Khaled, lo aspettava suo fratello operaio in una fonderia di Sassuolo. Ci incontrammo, mi raccontò che per quella tragica via di fuga aveva pagato a marinai corrotti mille dollari, e tra le poche cose che riuscì a recuperare c’era un piccolo registratore portatile con dentro un nastro musicale ma con brevi registrazioni di frasi sempre più sconnesse e richieste disperate durante la lunga agonia nel buio dell’acciaio. Pensavo fosse finita lì. Invece era solo l’inizio. Bisogna ancora imparare a capire nel 2015 cosa si prova a morire in 71 sigillati dentro un Tir, spinti verso il panico e i territori dell’angoscia.
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