"L'Italia è il Paese che più ha da perdere in questa crisi economica, perché di fatto è quello sottoposto alla più forte pressione fiscale sulle persone che comprime i consumi, in cui le aziende hanno i maggiori vincoli in termini sia di flessibilità che di costi del lavoro, e anche lo Stato che soffre di più della carenza di produttività e di competitività. Per tutti questi motivi è il Paese che più disperatamente ha bisogno di una politica di investimenti, di aiuti e di solidarietà europea. Proprio quello che manca". Mentre parliamo al telefono con Jean-Paul Fitoussi, uno dei più prestigiosi economisti europei, nel pomeriggio di mercoledì 3 dicembre, scorrono sui terminali i video degli ennesimi scontri di piazza causati dalla contestazione alla politica del governo e in particolare al Jobs Act che sta vivendo gli ultimi passaggi di approvazione parlamentare. Fitoussi conosce molto bene l'Italia, dove insegna economia internazionale alla Luiss, incarico che affianca da qualche anno alla sua "storica" cattedra in quel crogiuolo di pensiero economico liberal che è la parigina SciencesPo. Anche lui sta vedendo le immagini: "Intendiamoci bene, io sono contro la violenza comunque motivata. Però provvedimenti come questo Jobs Act, parliamoci con altrettanta chiarezza, sembrano fatti apposta per esasperare gli animi".

Perché, professore, in fondo il Jobs act non va in direzione di quella flessibilità sul lavoro che lei stesso elencava fra le misure urgenti per il rilancio economico dell'Italia?
"Macché. Per come è congegnato, inevitabilmente, con il pretesto della flessibilità che pare voglia dire solamente libertà di licenziare e di pagare meno gli operai, non farà altro che rendere più tesi, meno stabili e soprattutto peggio pagati i rapporti di lavoro. Cambiano del tutto i rapporti di forza all'interno delle imprese, e non certo a favore dei lavoratori. Con un tasso di disoccupazione così alto, quindi con questa superofferta di lavoro, l'effetto depressivo sui salari è sicuro. Insomma, le proteste sono ampiamente spiegabili. Se questo significa fare le riforme strutturali, è meglio non farle. Purtroppo il tutto si inserisce in un aspetto particolarmente inquietante della crisi, e cioè che per i singoli cittadini italiani le esperienze negative sono molto peggiori di quelle dei cittadini degli altri Paesi".

Ma perché? Anche qui quale diabolica complessità si inserisce ad aggravare il peso sui cittadini italiani?
"C'è anche un fattore psicologico, connesso con il fatto che in Italia c'è una ampia consapevolezza delle variabili in gioco. E' come se non ci sia nessuna fiducia nel futuro, nel riscatto, nel ritorno alla crescita. In buona parte questo è perfettamente spiegabile con il ridottissimo potere d'acquisto degli italiani per i motivi strutturali che dicevo all'inizio. E' un paradosso, perché in Italia la ricchezza non manca, mi riferisco a quella patrimoniale: la maggior parte degli italiani possiede la propria casa, per esempio. C'è più ricchezza accumulata e nascosta, come dire inespressa, che in Germania. Ma meno reddito. Sta di fatto che la sofferenza sociale in Italia non ha uguali in Europa, neanche in Grecia dove pure sotto le "cure" della Troika la sanità pubblica, tanto per fare un esempio, è crollata tanto da provocare un incremento del 45% della mortalità infantile rispetto all'inizio della crisi".

Ecco, professore, siamo arrivati al punto centrale: l'Europa. Tutti dicono che c'è bisogno di investimenti infrastrutturali per rilanciare la domanda aggregata, quindi in ultima analisi per ripristinare gradualmente una crescita dell'occupazione e infine anche dei salari. Ora è arrivato il piano Juncker: servirà a qualcosa?
"Piano Juncker? Quale piano? Si parlava di 300 miliardi di euro, poi è uscito fuori che l'Unione Europea non ne metterà più di 20, traendoli per lo più in massima parte dai fondi strutturali che già esistevano, e fidandosi per arrivare alla somma promessa sue due variabili imponderabili: la "leva" che dovrebbe attrarre chissà come investimenti privati da affiancare ai soldi pubblici in una misura del tutto irrealistica, addirittura uno a quindici, e i contributi aggiuntivi che dovrebbe garantire la Banca Europea degli Investimenti. Solo che la Bei è molto renitente nel buttarsi nell'iniziativa perché teme che movimentando troppo denaro, insomma rivolgendosi al mercato oltre misura, perda la tripla A di cui gode sui propri titoli obbligazionari, quindi debba alzare i tassi e infine incontrare problemi di collocamento. No, guardi, questo piano è del tutto fumoso e totalmente insufficiente. Doveva rappresentare il cambio di rotta dell'Europa e invece non rappresenta un bel niente".

Il cambio di rotta, dice, da una politica di austerity ad una espansionistica come tanti economisti e tanti Paesi, tranne la Germania, chiedono?
"Esattamente. Ormai è un dovere per l'Europa acconsentire a un volume di investimenti più ampio e aprire la strada all'alleggerimento fiscale. Sono misure ormai indifferibili. Bisogna rivedere i trattati a partire dal Fiscal compact, correggere i vincoli del 3% o simili che sono del tutto assurdi. L'austerity provoca solo l'aggravarsi della recessione. E' tempo che i governi italiano, francese, spagnolo e tutti gli altri di buon senso, si ribellino con decisione all'imposizione tedesca del rigore. Che può andar bene in momenti buoni per l'economia, non quando si sta attraversando la crisi più grave da un secolo a questa parte. Altrimenti il disagio crescerà continuamente, e con esso le forze politiche antieuropee, finché l'intera costruzione continentale finirà col crollare"