domenica 30 novembre 2014

Riceviamo e pubblichiamo.

«Produrre, per tornare proprietari di noi stessi»

Per Stefano Micelli il ritorno alla manifattura è l’unica alternativa alla marginalità e al declino
JERRY LAMPEN/AFP/Getty Images

JERRY LAMPEN/AFP/Getty Images

     
Se c’è una persona che, nel bene e nel male, è identificato con l’emergere del fenomeno dei maker, dei fab lab, delle stampanti 3d e, più in generale, della nuova manifattura digitale, quello è Stefano Micelli. Merito del saggio best-seller “Futuro Artigiano”, che perlomeno in Italia, è stato il primo testo ad aver posto la questione e colto le tracce di una nuova rivoluzione artigiana che metta al centro l’intreccio tra saperi manuali e saperi informatici.
Non si è fermato a quello, Micelli. La scorsa primavera è stato promotore, insieme a Google, Unioncamere e Fondazione Symbola, del progetto “Eccellenze in digitale”, che prevede il finanziamento di 104 borse di studio per giovani laureati e laureandi per aiutare le piccole e medie imprese ad andare in rete. E, proprio in questi giorni, in qualità di Direttore della Fondazione Nord Est, sta lanciando un progetto per dotare di un fab lab una serie di istituti professionali di Veneto, Trentino  Alto Adige e Friuli Venezia Giulia: «L’idea di fondo – spiega – è quella di mettere a disposizione delle scuole dei laboratori con tecnologie legate al mondo del digital manufacturing  come le frese a controllo numerico, le macchine per il taglio laser,  e diversi tipi di stampanti 3d. Un kit base, cui di volta in volta le scuole aggiungeranno una serie di macchine legate alla tipologia dei loro corsi. Ad esempio, le Canossiane di Trento useranno maggiormente le macchine di taglio laser per lavorare i tessuti, mentre altre scuole che sono più interessate al tema della robotica investiranno più su Arduino».
Perché è così importante investire su questo tipo di tecnologia? Una scuola professionale dovrebbe insegnare un mestiere. L’artigiano digitale ancora non lo è, fino a prova contraria…
La scuola italiana ha deciso che l’attività di laboratorio è qualcosa di marginale. Noi semplicemente vogliamo ribaltare questa decisione e rilanciare la cultura del fare. Con due aggiunte che mi sembrano importanti.
Quali?
La prima: i fab lab sono per definizione aperti alle famiglie e alla cittadinanza. Oggi le scuole sono mondi sconosciuti alle imprese e a chi non ha figli. Noi, coi fab lab, vogliamo portare la cittadinanza dentro le scuole.
La seconda?
Il finanziamento di queste infrastrutture non passerà attraverso le solite elargizioni regionali e nazionali. Noi non vogliamo che studenti, insegnanti e presidi dichiarino alla società cosa faranno di quel fab lab. Potranno usarli per rilanciare il design dell’arredo, per innovare i vigneti con Arduino, per fare quel che vogliono. Vogliamo che la scuola prenda un impegno con la società che la circonda, che si assuma delle responsabilità. E che, sulla base di quegli impegni, chieda al territorio delle risorse in crowdfunding.
Davvero questi fab lab possono cambiare faccia a economie territoriali in cui chiudono imprese su imprese?
Ne sono convinto.  Alla base di questo progetto c’è un’idea di didattica, certo, ma i fab lab non sono solamente luoghi di istruzione. Queste nuove tecnologie, con un approccio fai da te, dal basso, mettono in moto meccanismi d’innovazione molto più importanti di quel che si crede.
Come può un sedicenne generare questi meccanismi?
Si può benissimo innovare a sedici anni, tanto più se si è nel mezzo del marasma della cultura digitale. Se non lo comprendiamo è per un problema di mentalità. Molti di noi sono convinti che l’innovazione si sviluppi al culmine di un percorso complicatissimo. L’innovazione è un processo casuale, invece, che ha bisogno di occasioni per manifestarsi.
Negli ultimi anni in molti si sono convinti che fondare una start up fosse quell’occasione, ma nessuna di loro, qui in Italia, è riuscita a farsi davvero strada, a diventare impresa. Oggi ci si riprova coi maker, i fab lab e la manifattura digitale: la fine sarà la stessa?
Dipende. C’è una differenza sostanziale tra la cultura delle startup digitale e a questa nuova onda declinata al mestiere e al saper fare. Le startup digitali avevano il mito di crescere in fretta, di andare in borsa, di costruirsi una scala importante, senza particolari competenze. Più che imprenditori, erano scommettitori. Per vincere bisognava essere premiati dai mercati finanziari. Su questo fronte, i presupposti sono molto diversi. Nei maker non c’è necessariamente un tema di crescita finanziaria.
Se non fare i soldi, cos’è che spinge i maker, allora?
Tutta la cultura maker ha più a cuore il tema dell’individual agency, del tornare a essere proprietari di se stessi, del proprio destino, delle proprie relazioni, dell’organizzarsi da se. L’individuo in questo schema non è l’individuo dello schema liberista. Do it yourself non vuol dire lassez faire. E maker non è sinonimo di self made man. L’individuo, in questo paradigma, cresce nella relazione con l’altro. È tutto molto comunitario. Non è un caso che Chris Anderson metta tutto questo nella scena punk di Washington degli anni ’80, fanzine, autoproduzione, dove le band gestiscono relazioni via lettera coi loro fan.
Non ho ancora capito, sinceramente, se questa voglia di tornare ad autoprodurre ciò che consumiamo sia un ritorno al passato o un salto nel futuro…
L’idea di “futuro artigiano” contiene entrambi gli ingredienti: il pre-moderno e il post-moderno. Esistono istanze antiche che erano rimaste nella cultura underground, dalla voglia di espressione dal basso, al bottom up che si aggrega contro l’idea di una modernità che, attraverso le corporation, organizza, finanziarizza e schematizza tutto. Un pezzo, oggi, di questo movimento incrocia queste istanze, fondendole con uno scenario tecnologico formidabile. Sul tema antico-moderno ci ho pensato a lungo, perché in Italia siamo spesso vittime del fardello del passato.
Per l’appunto, l’Italia. I nostri imprenditori in fondo, erano maker ante-litteram. Come pensiamo che questo tipo di cultura del fare possa essere il nostro domani, se non riesce nemmeno a essere il nostro oggi?
Noi abbiamo già un indie-capitalism che si è fatto impresa, è vero. Affinché ciò avvenga anche domani, devono cambiare un po’ di cose, perché sono cambiati i tempi.  
Cos’è che deve cambiare?
L’approccio alle tecnologie informatiche, prima di tutto, ma non solo. Dobbiamo aprire i  i luoghi al mondo. L’ideologia degli artigiani no global a km zero l’abbiamo coltivata per anni. Oggi, invece, gli artigiani devono accettare la contaminazione con altre civiltà, devono far loro sensibilità diverse. C’è questo produttore di panettoni, in Veneto, che si chiama Loison e che ha un network di oltre 200 chef con cui studia modi nuovi per usare il panettone. L’ultima volta che l’ho visto mi ha presentato una polvere di panettone e zafferano con cui condisce il risotto.
E poi?
E poi c’è il tema del racconto. Il passato era un mondo di segreti: nascondevo le mie idee, parlavo con i prodotti. Oggi è tutto trasparente, perché devo spiegare perché quel che faccio è interessante. Filippo Berto, imprenditore dell’arredo brianzolo, ha aperto un canale su YouTube in cui racconta la sua azienda e come si fa un divano. In quei video ci sono persone vere, le facce di chi lavora, i processi produttivi.
La rinascita dell’autoproduzione è solo un fatto economico, o c’è di più? Realtà come Podemos in Spagna o, almeno in parte, il Movimento Cinque Stelle in Italia possono essere letti come il tentativo di autoprodurre  - e non più soltanto consumare – l’offerta politica?
Che questo paradigma possa essere in grado di riorganizzare tutto, dalla società al volontariato alla politica, mi pare ovvio. Io mi occupo delle trasformazioni economiche e di quelle posso parlare con cognizione di causa. Tuttavia, credo che in una società come quella attuale, fondata sulla conoscenza, sia impensabile che l’idea di economia sia scissa dall’idea di società.
Che idea di società emerge, oggi?
Oggi in America, ci sono economisti come Tyler Cowen, l’autore di Average is over, che affermano che nei prossimi anni il mondo conoscerà un processo ancora più marcato di polarizzazione della ricchezza: il 10% della popolazione ne deterrà una cospicua maggior parte. Molti, fra gli altri, vivranno in grande indigenza. Ovviamente tutto questo ha delle implicazioni sociali e politiche: la scomparsa della classe media, prima di tutto.
Il ritorno della manifattura, o l’emergere della manifattura digitale, possono concorrere a mutare lo scenario?
Se vogliamo evitare questo destino, dobbiamo disarticolare questa visione. E per farlo, dobbiamo promuovere un nostro modello di sviluppo alternativo. Sostenere un’economia del fare è un ottima via per ricostruire una classe media in grado di ottenere redditi stabili nel tempo all’interno di un meccanismo che ci rende riconoscibili da un punto di vista economico e culturale. La politica dei redditi non passa più dallo stato, del resto, ma dalla capacità di trovare uno spazio nella divisione globale del lavoro. Se ci riusciremo, insomma, troveremo un posto nella divisione del lavoro globale e daremo risposte interessanti anche da un punto di vista politico e sociale. Perché questo modello offre stabilità nel lavoro, offre partecipazione alla vita delle imprese, offre la possibilità di tenere insieme le persone in un modo diverso.
Anche in Italia?
Per forza. Per noi italiani questo modello di società è molto pertinente. Siamo manifatturieri, noi. Non possiamo essere molto altro.

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