lunedì 1 dicembre 2014

Comunque la pensiate vi raccomandiamo questa intervista.

Giuseppe Berta: Landini e Squinzi, basta fare politica

Il sindacato è smarrito. Confindustria assente. Entrambi incapaci di tutelare lavoratori e imprese. «Se non si ripensano, moriranno». Giuseppe Berta a L43.

01 Dicembre 2014
Le grandi imprese che scappano da Confindustria (Fiat), dall'Ance (Salini), dall' Ania (Unipol), corpaccioni ritenuti inutili dagli industriali per orientarsi e competere sul mercato globale.
I sindacati sospinti in una ridotta in cui solo lo scontro, spesso ideologico, con la politica, sembra garantire loro ancora una qualche rilevanza.
Nel secolo delle macchine intelligenti e dell'organizzazione flessibile del lavoro, le associazioni di rappresentanza appaiono ormai obsolete, incapaci di interpretare il presente e di tutelare gli interessi dei dipendenti e delle imprese.
BERTA: «CONFINDUSTRIA HA INSEGUITO TEMI POLITICI». «Confindustria in questi anni è stata complessivamente assente, ha inseguito i temi politici, ha sempre battuto le mani ai governi, cercando di conciliare interessi troppo diversi, ha perso di vista il mutamento del sistema delle imprese. E intanto abbiamo perso il 35-40% di capacità produttiva», dice a Lettera43.it Giuseppe Berta, storico dell'industria e autore di un libro sul futuro dell'industria italiana e dei suoi corpi intermedi, Produzione intelligente (Einaudi).
IL FUTURO? SERVIZI INTELLIGENTI E MINIMO GARANTITO. Il sindacato, dal canto suo, «ha smarrito l'eredità di Trentin, la sua cultura». Landini fa il movimentista. La Cgil è ancora alle prese con lo sciopero generale, e nessuno sembra capace di reinventarsi, muovendo nella direzione indicata dall'Europa: servizi sofisiticati, salario minimo garantito, più spazio alla contrattazione di secondo livello, che diventa di fatto di primo.
Perché la scomparsa dei corpi intermedi, dice Berta, non è un ineluttabile destino. A condizione però che Confindustria e sindacato «cambino profondamente, tornando alle loro radici».

  • Lo storico Giuseppe Berta. © ImagoEconomica

DOMANDA. Professore, quando è iniziato quello che lei definisce l'“autunno della rappresentanza”?
RISPOSTA. Oggi è diventata di moda la parola disintermediazione, ma per chi studia questi fenomeni è un concetto che ha già una lunga storia alle spalle. Ormai le imprese e i lavoratori cercano un rapporto diretto saltando la mediazione delle rappresentanze, che infatti vengono spesso considerate pletoriche. Anche dal nostro presidente del Consiglio.
D. Con il quale però Squinzi, un autorevole esponente del “pletoricismo”, sembra andare d'amore e d'accordo.
R. Adesso la Confindustria si è schierata con Renzi ma non dimentichiamo che ci sono state delle tensioni molto forti tra Squinzi e il premier in estate, quando quest'ultimo aveva detto che per parlare con gli imprenditori non necessitava della mediazione confindustriale.
D. Ha ragione il premier a considerare chiusa la stagione dei corpi intermedi?
R. Renzi vede indubbiamente la crisi della rappresentanza, che però dipende da una pluralità di fattori. Un tempo i lavoratori di fabbrica erano una realtà socialmente omogenea, così come le imprese avevano interessi simili. Oggi c'è una spaccatura profonda, quella che a me sembra più significativa, tra le aziende che esportano e quelle che lavorano per il mercato interno. Difficile ricondurre a unità queste cose.
D. Le imprese tecnologicamente avanzate e internazionalizzate hanno ancora bisogno della Confindustria? 
R. Sempre meno, come dimostra il caso di Fiat Chrysler. Temo che la rottura della Fiat con Fiom e Confindustria non sia stata compresa bene nei suoi intendimenti e nella sua profondità.
D. Perché? 
R. Partendo da una nuova organizzazione del lavoro, Fiat ha voluto un contratto che fosse allineato a standard internazionali e che potesse facilmente rispecchiare l'andamento del nuovo ciclo produttivo in tutte le realtà in cui opera, in America, in Polonia, in Brasile, in Italia.
D. Superando di fatto il contratto nazionale di categoria, la grande o vecchia - dipende dai punti di vista - conquista del Novecento sindacale.
R. Mantenere degli elementi di specificità nazionale come quelli codificati nei contratti collettivi di categoria, nell'ottica seguita da Fiat, non ha senso.
D. Per i lavoratori ce l'ha?
R. L'eterogeneità dei lavoratori fa saltare categorie classiche come quelle del contratto nazionale . Oggi ha senso parlare di chimici, tessili, metalmeccanici? Sono distinzioni settoriali obsolete rispetto alla natura dell'industria.
D. Dunque ha ragione Marchionne.
R. A distanza di tempo, Renzi ha fornito un riconoscimento a Marchionne quando è andato a New York e ha detto che in effetti il suo lavoro ha aperto una strada.
D. D'accordo. L'operaio massificato delle linee di montaggio di Mirafiori, come dice lei, «non esiste più». Ma per le Pmi il contratto di categoria è ancora utile?
R. Per le piccole ha ancora un valore avere un riferimento contrattuale universale. Ma in questo caso bisogna farsi una domanda.
D. Prego.
R. È il contratto nazionale di categoria il riferimento vero o non è piuttosto, come ormai nella grande maggioranza dei Paesi dell'Unione europea, il salario minimo garantito? L'Europa, soprattutto dopo la scelta della Germania che lo introdurrà a gennaio, va in questa seconda direzione.
D. Il salario minimo garantito però non cancella la necessità di contratti specifici.
R. Sì ma di quelli prevalentemente di natura aziendale. La cosiddetta contrattazione di secondo livello, che diventa di fatto di primo livello, come è avvenuto nel caso Fiat. Se c'è uno standard minimo salariale poi tutto ciò che va al di là è contrattato direttamente tra lavoratori e datori di lavoro.
D. Come spiega il fatto che le imprese medie e piccole continuino a iscriversi a Confindustria, nonostante la crisi della rappresentanza?
R. Succede perchè abbiamo molte imprese piccole e piccolissime, che devono ricorrere al mercato per ususfruire di servizi e funzioni.
D. Ma è pensabile che i servizi offerti dalle diverse confindustrie presenti sul territorio siano ancora solo le vecchie consulenze sul lavoro e sul fisco?
R. Al di là della Confindustria nazionale, che dovrà inevitabilmente assottigliarsi, un ruolo cruciale lo avranno le unioni territoriali. Bisognerà aggiungere servizi più sofisticati e complessi, come per l'internazionalizzazione. Soprattutto le piccole non hanno da sole le forze per crescere sul mercato estero. L'altro asset è quello delle filiere e delle piattaforme tecnologiche.
D. Questo richiede però un'interazione tra diversi soggetti e competenze.
R. Un modello può essere il Mesap, il polo della meccatronica piemontese. Significa fare azioni di saldatura tra mondo delle imprese, università, laboratori tecnologici.

Il sindacato di movimento: la Fiom diventa collettore della protesta

D. E sul fronte sindacale, quali Cgil immagina nel futuro?
R. È più difficile riorganizzarsi per il sindacato. Vedo due strade possibili almeno per quanto riguarda il mondo della manifattura. Il primo è un modello che si posiziona all'interno dell'impresa e ne sposa le tematiche, un sindacalismo partecipativo di tipo anglosassone o tedesco.
D. L'altra strada?
R. Quella che mi sembra stia scegliendo la Fiom, un sindacato che travalica le frontiere organizzative aziendali e di settore e diventa collettore della protesta. Un soggetto aggregatore non solo, non tanto dei metalmeccanici, ma di tutti quelli che in Italia sentono di pagare il prezzo più alto della crisi.
D. Più un partito che un sindacato.
R. Un sindacato di movimento.
DIl rischio di questa trasformazione qual è?
R. Perdere di vista le singole realtà e specificità. Ma del resto Landini, almeno per quanto riguarda la Fiat, mi sembra che dia per persa la battaglia.
D. La sentenza che riammetteva i suoi in fabbrica è stata salutata come una vittoria contro Marchionne.
R. La presa della Fiom nella Fiat, anche dopo la riammissione stabilita dalla sentenza del 2013, non è più quella di un tempo. La spaccatura poi non è solo con l'impresa ma con Film e Uilm. La Fiom ha perso d'incidenza. E infatti se vede i dati torinesi ma anche nazionali sull'adesione dei lavoratori Fiat Chrysler allo sciopero del 14 sono inferiori al 10%.
D. Landini ha perso con Marchionne e ci riprova con il movimentismo?
R. Mette dentro i precari e i cassaintegrati, tutti quelli che hanno da manifestare un disagio. Contemporanemante però la Fiom sul territorio fa anche accordi come quello di Electrolux o come quello partecipativo nella Ducati di Bologna acquisita dai tedeschi.
D. Contraddizione o lungimiranza?
R. Quegli accordi sono assolutamente dentro le linee del sindacalismo partecipativo di cui parlavamo prima. Sono le due facce della Fiom.
D. Un sindacato di lotta e di governo.
R. Il volto pubblico della Fiom oggi è quello della protesta collettiva, ma dove ha un peso organizzativo forte, nelle fabbriche, non può chiamarsi fuori.

Tornare alla radici: una Costituente per il lavoro e per l'industria

D. Serve una legge sulla rappresentanza industriale?
R. Mah. L'accordo interconfederale del 2013 è stato un fallimento, è inapplicato e inapplicabile secondo me. Può una legge risolvere questo genere di problemi?
D. Può?
R. Oggi il sindacato si rivitalizza solo se riprende ad avere efficacia nella regolazione dei rapporti di lavoro, se questo non avviene il sindacato muore. Oppure crediamo che lo sciopero generale serva a qualcosa? Davvero pensiamo che possa cambiare la politica economica che si fa con i paramentri di Bruxelles?
D. Se non è lo sciopero che cos'è? Come si tutelano i diritti, come si rivendicano migliori condizioni di lavoro?
R. Sindacato e Confindustria per rivitalizzarsi devono tornare alle radici del proprio lavoro: rappresentare concrete situazioni di lavoro per trovare compromessi negoziali che li rendano luoghi produttivi a vantaggio delle imprese e dei lavoratori.
D. Tornando alla contrattazione di secondo livello. Lei dice che è un tema centrale, ma nella discussione sul Jobs act non ce n'è traccia.
R. Perchè purtoppo la cultura sindacale italiana non c'è più. La grande tradizione di Trentin si è persa. In Fiat è stata contestata la riduzione della pausa da 40 a 30 minuti. Messa così però significa poco.
D. Per chi lavora otto ore alla catena di montaggio significa parecchio.
R. Quelle pause erano state concordate così il 5 agosto 1971, sono passati 40 anni, è cambiata l'organizzazione del lavoro. Probabilmente dobbiamo rivedere anche le pause. Non sto dicendo che la soluzione aziendale è quella giusta, ma non possiamo pensare che regole contrattuali fissate in un mondo che non c'è più possano valere in eterno.
D. Sindacati incapaci di interpretare il presente, dice. Anche la Confindustria però non scherza.
R. In questi anni è stata complessivamente assente, ha inseguito i temi politici, ha sempre battuto le mani ai governi, bene Berlusconi, poi abbiamo osannato Monti, e ha avuto poca attenzione al mutamento del sistema delle imprese. Ha tentato di conciliare interessi troppo diversi inseguendo l'agenda della politica, invece che fissarla. Intanto abbiamo perso il 35-40% di capacità produttiva.
D. Quale industria dobbiamo immaginarci per il futuro?
R. Questa riflessione è inesistente, al governo come in Confindustria e nel sindacato. A me sembra che l'Italia del 2014 sia un po' come l'Italia del 46, quando la commissione economica della Costituente si interrogò su quale potesse essere il futuro economico del Paese.
D. Manca però la Costituente.
R. Bisognerebbe fare una operazione analoga e chiedersi: quali sono le carte su cui puntare? Quali i capisaldi irrinunciabili nella nostra architettura economica e quali invece sono i pezzi destinati anche dolorosamente a cadere? Lei ha sentito fare un discorso del genere per la siderurgia, l'automotive? Si dice solo: non possiamo più fare a meno dell'Ilva di Taranto, ok. Ma che tipo di acciaio? Con che tipo di occupazione?
D. Insomma, insistiamo tanto sulle regole del mercato del lavoro, ma non sappiamo questo lavoro cosa dovrà produrre.
R. Non sappiamo su quali pilastri economici poggerà il nostro sistema produttivo domani. Se non abbiamo più campioni nazionali, e le medie imprese sono il nostro caposaldo, allora devono moltiplicarsi di 10, 20, 30 volte. Non possiamo mica pensare di basarci su una pletora di microattività. Bisogna costruire dei gangli. Altrimenti crolla tutto. 

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