Nelle ultime settimane i quattro gatti liberali che abitano questo strano Paese sono stati costretti a ricordare più volte l’ovvio, e cioè che secondo l’articolo 27 della Costituzione Repubblicana l’imputato in un processo penale deve essere considerato innocente sino alla sentenza che ne accerti la definitiva colpevolezza.
Il Parlamento negli ultimi tempi ha accettato passivamente l’aberrante influenza di una certa intellighenzia manettara capace di alimentare la tendenza ad assecondare gli umori di un’opinione pubblica non proprio liberale ritenuta evidentemente pericolosa sotto il profilo elettorale sino al punto da essere più volte assecondata.
La sospensione dalla carica di Presidente, assessore o consigliere regionale per l’ipotesi di condanna non definitiva, introdotta all’interno del decreto legislativo n. 235/2012 (cosiddetta legge Severino) rientra a buon diritto fra le degenerazioni massime di questo fenomeno che risulta contrastato oramai solo da quello che Stefano Rodotà si è permesso il lusso di definire, a torto, “garantismo peloso da Prima Repubblica”.
È un fatto però che la norma del decreto legislativo preveda la sospensione dalla carica a tempo, poiché trascorsi diciotto mesi la sospensione cessa di diritto, a meno che durante questo periodo non sia intervenuto il rigetto dell’eventuale appello, in seguito al quale la sospensione durerà solo altri dodici mesi. La sospensione, infine, cesserà nuovamente e l’imputato potrà riprendere l’esercizio delle funzioni pubbliche di cui è titolare, per mandato elettorale, sino alla sentenza definitiva cui seguirà, in caso di condanna, la decadenza.
Una norma come quella della sospensione è ispirata esclusivamente dal timore reverenziale nei riguardi del populismo manettaro contro il quale solo una classe dirigente all’altezza della situazione riuscirebbe a opporsi
Il meccanismo, dunque, è alquanto bizzarro ed evidenzia le incoerenze e la confusione tra le quali si è dovuto barcamenare il legislatore. Le sentenze di condanna di primo o secondo grado non possono giustificare, in virtù del dettato costituzionale, una compressione radicale dei diritti politici dei cittadini (e di questo il Parlamento sembra essere consapevole), ma l’allarmismo giustizialista diffuso dai media a quanto pare deve essere saziato con la temporanea espulsione del condannato dal consorzio politico.
Il Parlamento ha scommesso sulla capacità del sistema giudiziario di portare a compimento l’appello dell’“eletto condannato” entro un anno e mezzo dalla sentenza di primo grado; diversamente l’incompatibilità fra l’onorabilità ed il decoro richiesti al titolare di una funzione pubblica elettiva ed il disdoro ritenuto esplicito in una sentenza di condanna svanisce miracolosamente per legge ed il condannato torna ad essere ritenuto meritevole di esercitare funzioni pubbliche nell’interesse generale. Se a ciò si aggiunge che “per la durata della sospensione al consigliere regionale spetta un assegno pari all’indennità di carica ridotta di una percentuale fissata con legge regionale”, si comprende come il legislatore abbia tentato di navigare fra spinte giuridicamente inconciliabili approdando ad un esito che sfiora il paradosso. Il condannato non in via definitiva, infatti, viene sospeso dalla carica ma percepisce l’indennità in ogni caso.
Deve dirsi per inciso, poi, che il fatto che la norma preveda il diritto all’esercizio del mandato elettorale trascorso un lasso di tempo dalla sospensione in seguito a sentenza di condanna di primo o di secondo grado autorizza a ritenere che il neo eletto governatore della Campania Vincenzo De Luca debba prima entrare in carica, poi essere sospeso ed eventualmente ritornare successivamente in carica in attesa della sentenza definitiva.
La soluzione è nell’articolo 27 della Costituzione e nel principio secondo il quale l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva
Trovare il bandolo della matassa non è difficile, è inutile, perché una norma come quella della sospensione è ispirata esclusivamente dal timore reverenziale nei riguardi del populismo manettaro contro il quale solo una classe dirigente all’altezza della situazione riuscirebbe a opporsi. La faccenda si complica ulteriormente perché fra i reati per i quali si può finire condannati e sospesi c’è l’abuso d’ufficio, fattispecie tra le più sfuggenti e indefinite nella quale politici ed amministratori possono incappare ad ogni piè sospinto a seconda della “sensibilità/capriccio” dell’organo inquirente.
La soluzione è nell’articolo 27 della Costituzione e nel principio secondo il quale l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Fatta eccezione per chi è sottoposto ad una misura cautelare in ragione della necessità di tutelare primari interessi di rilievo pubblico l’imputato non ancora condannato definitivamente deve potere svolgere senza impedimenti il mandato elettorale.
Sarà pure peloso ma è l’unico garantismo degno di questo nome.
@roccotodero
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