Generazione locuste, Italia in mano agli anziani
Così Renzi ha tradito le speranze dei giovani
Nonostante un primo ministro quarantenne, la gerontocrazia ha trionfato. Nel 2014 non c'è nessun under 50 tra i 100 manager italiani più pagati. E anche l'ex “rottamatore” ha preferito nominare sessantenni e non scommettere sui giovani talenti, facendo felici le lobby
«La vecchiaia non è così male se considerate le alternative», diceva Maurice Chevalier. Mai aforisma, almeno in Italia, fu più azzeccato. Se le diseguaglianze generazionali invece di diminuire aumentano, è anche perché politici di destra e di sinistra non osano mettersi contro i battaglioni delle locuste.
L'attuale parlamento uscito dalle urne nel 2013 è il più giovane della storia d'Italia (ad abbassare la media – intorno ai 37 anni – ci sono soprattutto deputati e senatori grillini all'opposizione, i parlamentari della Lega viaggiano sui 45 anni, quelli del Pd sono sui 49, più maturi i forzisti con 54). Ci si aspettavano, quindi, riforme importanti per ridurre il gap di opportunità tra vecchi e giovani. Ma i costi politici e i prezzi elettorali per redistribuire reddito e ricchezza sarebbero troppo alti. Il calo dei consensi matematico.
Così, a tutti i livelli, i vecchi continuano a comandare indisturbati. A dettare leggi, e ad arricchirsi. Spulciando la lista dei 100 manager più pagati d'Italia nel 2014 , per esempio, non si trova un nome che abbia meno di 50 anni nemmeno con il lanternino. Esclusi due figli d'arte (John Elkann della Fca e Fabio De Longhi) e il 42enne Claudio Berretti riuscito – caso più unico che raro – a diventare un pezzo grosso del fondo di investimento Tamburi, sono tutti assai in là con l'età. Peggio ancora il destino delle giovani donne che sognano un posto da amministratore delegato: nella lista dei cento amministratori e consiglieri d'azienda più ricchi d'Italia ci sono solo tre esponenti del gentil sesso, e solo una ha poco meno di 50 anni, Luisa Deplazes de Andrade della Safilo.
Nessun paese sulla terra si fida così poco dei suoi giovani. Senza scomodare i miliardari under trenta della Silicon Valley e i manager di Wall Street che a quarant'anni sono ai vertici da un pezzo, una ricerca interna di ManagerItalia ha calcolato che il nostro paese, con un'età media dei dirigenti pari a 47 anni e mezzo, «occupa l'ultima posizione nella graduatoria europea. Ciò non deve sorprendere», interviene il presidente Claudio Pasini, «se si considera che da noi i giovani manager, ossia quelli fino a 39 anni d'età, rappresentano solo un quinto del totale». In media, nei paesi Ue, gli under 40 che comandano in azienda sono invece il doppio, arrivando al 40 per cento del totale. Dati, sotto le Alpi, da fantascienza.
Anche la Coldiretti ha analizzato la platea dei dirigenti della pubblica amministrazione e delle imprese, arrivando a conclusioni identiche: la loro età media è la più alta del continente, vicini addirittura ai 60 anni. La Coldiretti si augurava una rapida rottamazione necessaria al rilancio del Paese, ma evitava di ricordare che la stessa associazione degli agricoltori è guidata da lustri da un sessantenne, Vincenzo Gesmundo, che ha ottenuto dalla stessa Coldiretti, nel 2014, una retribuzione da favola da 1,8 milioni di euro.
La generazione delle locuste domina non solo il mondo agricolo. Ma gestisce soldi e potere in ogni settore: l'età media di presidenti e ad delle banche sfiora oggi la soglia dei 70 anni, quasi la metà dei presidenti di Tribunale delle città capoluogo sono ancora più vecchi. «I consiglieri di amministrazione delle banche italiane hanno in media 5 anni in più che nel resto delle banche europee, e guadagnano il doppio dei loro colleghi tedeschi», continuava lo studio Coldiretti.
«In Italia il settore privato, se possibile, fa con i giovani ancora peggio del pubblico», accusa Chiara Saraceno. «Gli imprenditori alla meritocrazia e allo svecchiamento preferiscono da sempre il familismo più estremo o la chiusura dentro élite gerontocratiche. Basti pensare ai dati Istat, che dimostrano come trovare lavoro è più facile per un sessantenne che per un trentenne».
Generazione locuste: gli anziani sono più ricchi
Gli studi degli avvocati sono esempio perfetto dello spread tra i redditi di giovani professionisti e soci più anziani: a parte rari casi, i praticanti possono restare tali per 4-5anni, e guadagnare cifre ridicole rispetto agli incassi degli anziani. Anche i giornali non fanno eccezione: le redazioni sono piene di over cinquanta ben pagati e stragarantiti, mentre i giovani under 40 sono ormai delle mosche bianche. I cronisti precari, invece, vengono pagati anche 10-20 euro a pezzo, e sanno già che la loro pensione sarà scandalosa.
Ci si aspettava, con l'arrivo del giovane sindaco fiorentino a Palazzo Chigi, un'inversione di rotta radicale. Ma finora l'andazzo non è cambiato. Renzi, quando l'anno scorso ha nominato i nuovi vertici delle grandi società partecipate, ha messo da parte il mantra della rottamazione e premiato vecchietti e soliti noti. Come amministratore delegato dell'Eni ha voluto Claudio De Scalzi, 60enne ex fedelissimo di Paolo Scaroni, mentre presidente è stata nominata Emma Marcegaglia, 50enne e capo della Confindustria fino a qualche anno fa. All'Enel il governo dei giovani ha piazzato Francesco Starace, anche lui sessantenne e una vita passata in azienda, e Maria Grieco, 63 anni. A Finmeccanica i top manager sono Gianni De Gennaro, 66 anni, e Mauro Moretti, 61enne ex Trenitalia, mentre alla Rai i vertici sono oggi formati da Anna Maria Tarantola, 70 anni, e Luigi Gubitosi, il più giovane del mazzo scelto, però, da Mario Monti. Unico under 50 è Matteo Del Fante, quarantottenne fiorentino, nuovo ad di Terna.
«Al di là di qualche nome assai discutibile, sulla questione dell'età e del rinnovamento in molti si aspettavano più coraggio», ammette la Saraceno.
Se nella pubblica amministrazione non c'è spazio per i giovani e nelle imprese ancor meno (la Confindustria resta, da Giorgio Squinzi in giù, assai anziana e conservatrice), le università sono un altro paradigma indiscusso del potere delle locuste. A gennaio un'inchiesta di Gian Antonio Stella ha dimostrato che nel 2014, nonostante riforme a gogo e promesse di svecchiamento a ruota libera, su 13.239 professori ordinari italiani nemmeno uno ha meno di 35 anni. E solo 15 docenti (spesso figli di baroni e di potenti) è sotto i 40. I prof sotto la trentina, ricercatori compresi, dal 2008 a oggi si sono quasi estinti, crollando del 97 per cento. «Avanti così, con il turn over che ci lascia prendere un giovane ogni due docenti che vanno in pensione, rischiamo nel 2020 di non avere più giovani che possano concorrere ai programmi europei», denuncia Stefano Paleari presidente della Crui, la conferenza nazionale dei rettori.
Se i baroni continuano ad essere garantiti oltre ogni logica, e a decidere posti e finanziamenti e controllare i concorsi, i nostri giovani cervelli fanno fatica a sopravvivere. Letteralmente. Per Almalaurea i loro stipendi sono i più bassi dell'Occidente, e – anche se riuscissero ad ottenere una cattedra tra qualche lustro – il loro salario massimo potrebbe in media arrivare a 40 mila euro lordi l'anno, la metà esatta di quanto prende oggi un professore a fine carriera.
Anche nel primo anno del regno di Renzi, nulla è stato fatto per modificare il trend, e chi può fugge all'estero alla prima occasione di lavoro. D'altronde lo stesso Renzi, in visita alla Silicon Valley, qualche mese fa ha spiazzato tutti: «Non vi chiedo di tornare a casa ma di andare avanti e cambiare il mondo. Non mi interessa riprendere cervelli in fuga . Ma vorrei rendere l'Italia talmente bella e semplice da avere voi la necessità di tornare a casa». Come dire, scordatevi rivoluzioni del mondo universitario in tempi brevi.
La strada resta in salita. Papa Francesco, ricevendo i ragazzi delle Acli, ha chiesto alle istituzioni e alla società di non tarpare le ali ai giovani. «L'estendersi della precarietà e del lavoro nero fa sperimentare tra le giovani generazioni come la mancanza di lavoro tolga dignità, impedisca la pienezza della vita umana. Serve una risposta sollecita e vigorosa». Ad oggi, non ve ne è traccia. Né di risposte, né di vigore: nonostante il calo microscopico fotografato dall'Istat (i giornali hanno gridato al miracolo, ma i disoccupati giovani in meno sono solo 8 mila) il tasso di disoccupazione giovanile dal 2007 a oggi è raddoppiato, e resta inchiodato al 40,9 per cento, con punte mai viste prima (tra il 60 e l'80 per cento) in Sicilia e Campania. Non è un caso che il Vaticano abbia organizzato elemosine per i giovani italiani: in occasione del Giubileo preti e cardinali devolveranno una parte del loro stipendio a un fondo (ancora da costituire) per sostenere l'occupazione giovanile. Amen.
BAMBOCCIONI PER FORZA
Secondo il demografo Massimo Livi Bacci, ancora prima dell'ultima grande recessione del 2008, «il 50 per cento dei giovani tra i 15 e 30 anni dipendeva dal reddito familiare». Dopo sette anni, la situazione è peggiorata. Se i bamboccioni costretti a vivere con i genitori, sottolinea l'Eurostat, sono aumentati di cinque punti (due under 35 su tre non si muovono dalla loro cameretta, nessuno peggio di noi in Europa dove nonostante la crisi le opportunità per i ragazzi di diventare autonomi sono cresciute) il rapporto “Noi Italia” dell'Istat segnala che i Neet, acronimo inglese che segnala i ragazzi under 30 che non lavorano e non studiano, sono da Bolzano a Caltanissetta circa due milioni e mezzo. «È una generazione bruciata, e i padri hanno enormi responsabilità» conclude la Saraceno.
Già: non accorgendosi delle sperequazioni tra il loro benessere e la povertà che stavano costruendo per le successive generazioni, occupando tutti i posti disponibili e gestendo quasi tutta la ricchezza nazionale, hanno preferito abbandonare i figli al loro (triste) destino. Il loro refrain è sempre lo stesso: «Non toccateci redditi e pensioni, sennò non possiamo aiutare i nostri poveri ragazzi». Di fatto, opponendosi a qualsiasi riforma sistemica che possa mettere a rischio il loro predominio, preferiscono che siano loro a gestire le risorse, piuttosto che sia lo Stato a redistribuirle.
La vittoria della gerontocrazia è assoluta. Le locuste non hanno ceduto un centimetro nemmeno quando si è ipotizzata una staffetta generazionale in fabbrica e in ufficio: ci ha provato Mario Monti, l'ha annunciata in pompa magna Enrico Letta, l'ha riproposta ora Marianna Madia. Il primo programma, regolato dal decreto 807 del 2012 del ministero del welfare, prevedeva il passaggio volontario nella stessa azienda da lavoratori maturi ai giovani. Il fallimento dell'esperimento è stato totale: in due anni si sono contati solo cinque casi di staffetta, in Lombardia e Veneto: nessun anziano ha accettato di rinunciare a parte del reddito per avere più tempo libero e favorire, contemporaneamente, l'ingresso di un ragazzo.
La proposta di Letta, molto simile, è stata accantonata subito. Anche il governo Renzi ha promesso un ricambio, in modo da inserire nel mondo della pubblica amministrazione 85 mila giovani. Annuncio esorbitante, tanto che il numero dei possibili fortunati è sceso rapidamente a 15 mila, dopo i calcoli della Ragioneria dello Stato sui costi troppo alti della misura. Alla fine, lo scorso aprile, il Senato ha approvato una versione ancora più “soft”: i lavoratori prossimi alla pensione, se vogliono, potranno decidere di optare per un part-time, continuando però a pagare contributi full-time. Numeri sul piano Madia non esistono ancora, ma sembra difficile che abbiano aderito in molti. Le locuste non sono, si sa, una specie particolarmente generosa.
Anche il Jobs Act sembra aver peggiorato il gap tra vecchi e giovani. Al di là degli effetti sull'occupazione generale, tutti ancora da verificare, la nuova legge ha di certo precarizzato definitivamente le generazioni degli under. Abbandonati i co.co.co e gli altri contratti superflessibili introdotti dalla legge Biagi (che, sarà bene ricordarlo, è stata inutile dal punto di vista occupazionale e catastrofica sul piano dei diritti), si punta su un contratto a tutele crescenti che, però, non darà mai una sicurezza definitiva. Se i ragazzi saranno sempre licenziabili dal loro datore di lavoro, l'abolizione dell'articolo 18 non riguarda padri e nonni. Alla fine della fiera, i garantiti di un tempo sono ancora più garantiti di prima, i giovani saranno precari a vita e prime vittime sacrificali di qualsiasi crisi aziendale.
Le locuste l'hanno sfangata anche stavolta, e nessuno se ne è dannato più di tanto. Se Confindustria ha applaudito il provvedimento, le forze sociali, a parte mugugni e inutili scioperi, hanno lasciato fare. Quando Silvio Berlusconi propose una legge molto simile a quella varata da Renzi, la Cgil di Sergio Cofferati portò in piazza tre milioni di persone, impedendo il blitz. Stavolta le proteste dei sindacati (e dell'opinione pubblica in generale) sono state assai più blande. Per due motivi: le nuove regole non toccano la pubblica amministrazione e, soprattutto, non interessano la stragrande maggioranza dei loro iscritti. Cioè pensionati e lavoratori dipendenti, che continueranno a essere tutelati come e più di prima.
Se qualche maligno ha polemizzato con i giudici della Corte Costituzionale che hanno difeso (a maggioranza, 5 contro 4) l'aumento delle pensioni che la Fornero aveva bloccato, accusandoli di proteggere i loro interessi privati di futuri pensionati, è un fatto che il sindacato italiano rappresenti solo le generazioni ipergarantite. Uno studio di Tito Boeri, Agar Brugiavini e Lars Calmfors spiegò per esempio che tra gli iscritti di Cgil, Cisl e Uil quasi il 50 per cento non è più un lavoratore. Una percentuale folle: in Francia e Germania scende al 20 per cento.
«La chiusura manifestata dal sindacato di fronte a misure di modifica del regime pensionistico sembra fortemente motivata dalla difesa delle organizzazioni sindacali dei diritti dei loro iscritti anziani», ragiona su Lavoce.info il professore di economia alla Bocconi Vincenzo Galasso. Non solo: confrontando il numero delle attuali iscrizioni della Cgil (oltre 5,6 milioni) con uno studio Argo-Omnibus voluto dallo stesso sindacato, si scopre che gli under 34 sono appena il 10,4 per cento del totale degli iscritti. Sembra difficile che un sindacato fatto di vecchi e gestito da anziani possa combattere per redistribuire ricchezza anche alle generazioni più giovani. Che ormai hanno capito che la partita è persa: quando possono, seguono il consiglio del grande Eduardo. E fuggono via, lontano.
L'attuale parlamento uscito dalle urne nel 2013 è il più giovane della storia d'Italia (ad abbassare la media – intorno ai 37 anni – ci sono soprattutto deputati e senatori grillini all'opposizione, i parlamentari della Lega viaggiano sui 45 anni, quelli del Pd sono sui 49, più maturi i forzisti con 54). Ci si aspettavano, quindi, riforme importanti per ridurre il gap di opportunità tra vecchi e giovani. Ma i costi politici e i prezzi elettorali per redistribuire reddito e ricchezza sarebbero troppo alti. Il calo dei consensi matematico.
Così, a tutti i livelli, i vecchi continuano a comandare indisturbati. A dettare leggi, e ad arricchirsi. Spulciando la lista dei 100 manager più pagati d'Italia nel 2014 , per esempio, non si trova un nome che abbia meno di 50 anni nemmeno con il lanternino. Esclusi due figli d'arte (John Elkann della Fca e Fabio De Longhi) e il 42enne Claudio Berretti riuscito – caso più unico che raro – a diventare un pezzo grosso del fondo di investimento Tamburi, sono tutti assai in là con l'età. Peggio ancora il destino delle giovani donne che sognano un posto da amministratore delegato: nella lista dei cento amministratori e consiglieri d'azienda più ricchi d'Italia ci sono solo tre esponenti del gentil sesso, e solo una ha poco meno di 50 anni, Luisa Deplazes de Andrade della Safilo.
Nessun paese sulla terra si fida così poco dei suoi giovani. Senza scomodare i miliardari under trenta della Silicon Valley e i manager di Wall Street che a quarant'anni sono ai vertici da un pezzo, una ricerca interna di ManagerItalia ha calcolato che il nostro paese, con un'età media dei dirigenti pari a 47 anni e mezzo, «occupa l'ultima posizione nella graduatoria europea. Ciò non deve sorprendere», interviene il presidente Claudio Pasini, «se si considera che da noi i giovani manager, ossia quelli fino a 39 anni d'età, rappresentano solo un quinto del totale». In media, nei paesi Ue, gli under 40 che comandano in azienda sono invece il doppio, arrivando al 40 per cento del totale. Dati, sotto le Alpi, da fantascienza.
Anche la Coldiretti ha analizzato la platea dei dirigenti della pubblica amministrazione e delle imprese, arrivando a conclusioni identiche: la loro età media è la più alta del continente, vicini addirittura ai 60 anni. La Coldiretti si augurava una rapida rottamazione necessaria al rilancio del Paese, ma evitava di ricordare che la stessa associazione degli agricoltori è guidata da lustri da un sessantenne, Vincenzo Gesmundo, che ha ottenuto dalla stessa Coldiretti, nel 2014, una retribuzione da favola da 1,8 milioni di euro.
La generazione delle locuste domina non solo il mondo agricolo. Ma gestisce soldi e potere in ogni settore: l'età media di presidenti e ad delle banche sfiora oggi la soglia dei 70 anni, quasi la metà dei presidenti di Tribunale delle città capoluogo sono ancora più vecchi. «I consiglieri di amministrazione delle banche italiane hanno in media 5 anni in più che nel resto delle banche europee, e guadagnano il doppio dei loro colleghi tedeschi», continuava lo studio Coldiretti.
«In Italia il settore privato, se possibile, fa con i giovani ancora peggio del pubblico», accusa Chiara Saraceno. «Gli imprenditori alla meritocrazia e allo svecchiamento preferiscono da sempre il familismo più estremo o la chiusura dentro élite gerontocratiche. Basti pensare ai dati Istat, che dimostrano come trovare lavoro è più facile per un sessantenne che per un trentenne».
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Generazione locuste: gli anziani sono più ricchi
e i giovani devono spartirsi solo le briciole
I pensionati d'oro hanno visto aumentare il loro reddito, mentre l'Istat segnala che le aziende assumono solo over 55. Nel primo anno dell'era Renzi la classe dei capelli grigi ha mantenuto il suo potere ovunque: dalla pubblica amministrazione ai sindacati, dalle università alle aziende
Gli studi degli avvocati sono esempio perfetto dello spread tra i redditi di giovani professionisti e soci più anziani: a parte rari casi, i praticanti possono restare tali per 4-5anni, e guadagnare cifre ridicole rispetto agli incassi degli anziani. Anche i giornali non fanno eccezione: le redazioni sono piene di over cinquanta ben pagati e stragarantiti, mentre i giovani under 40 sono ormai delle mosche bianche. I cronisti precari, invece, vengono pagati anche 10-20 euro a pezzo, e sanno già che la loro pensione sarà scandalosa.
Ci si aspettava, con l'arrivo del giovane sindaco fiorentino a Palazzo Chigi, un'inversione di rotta radicale. Ma finora l'andazzo non è cambiato. Renzi, quando l'anno scorso ha nominato i nuovi vertici delle grandi società partecipate, ha messo da parte il mantra della rottamazione e premiato vecchietti e soliti noti. Come amministratore delegato dell'Eni ha voluto Claudio De Scalzi, 60enne ex fedelissimo di Paolo Scaroni, mentre presidente è stata nominata Emma Marcegaglia, 50enne e capo della Confindustria fino a qualche anno fa. All'Enel il governo dei giovani ha piazzato Francesco Starace, anche lui sessantenne e una vita passata in azienda, e Maria Grieco, 63 anni. A Finmeccanica i top manager sono Gianni De Gennaro, 66 anni, e Mauro Moretti, 61enne ex Trenitalia, mentre alla Rai i vertici sono oggi formati da Anna Maria Tarantola, 70 anni, e Luigi Gubitosi, il più giovane del mazzo scelto, però, da Mario Monti. Unico under 50 è Matteo Del Fante, quarantottenne fiorentino, nuovo ad di Terna.
«Al di là di qualche nome assai discutibile, sulla questione dell'età e del rinnovamento in molti si aspettavano più coraggio», ammette la Saraceno.
Se nella pubblica amministrazione non c'è spazio per i giovani e nelle imprese ancor meno (la Confindustria resta, da Giorgio Squinzi in giù, assai anziana e conservatrice), le università sono un altro paradigma indiscusso del potere delle locuste. A gennaio un'inchiesta di Gian Antonio Stella ha dimostrato che nel 2014, nonostante riforme a gogo e promesse di svecchiamento a ruota libera, su 13.239 professori ordinari italiani nemmeno uno ha meno di 35 anni. E solo 15 docenti (spesso figli di baroni e di potenti) è sotto i 40. I prof sotto la trentina, ricercatori compresi, dal 2008 a oggi si sono quasi estinti, crollando del 97 per cento. «Avanti così, con il turn over che ci lascia prendere un giovane ogni due docenti che vanno in pensione, rischiamo nel 2020 di non avere più giovani che possano concorrere ai programmi europei», denuncia Stefano Paleari presidente della Crui, la conferenza nazionale dei rettori.
Se i baroni continuano ad essere garantiti oltre ogni logica, e a decidere posti e finanziamenti e controllare i concorsi, i nostri giovani cervelli fanno fatica a sopravvivere. Letteralmente. Per Almalaurea i loro stipendi sono i più bassi dell'Occidente, e – anche se riuscissero ad ottenere una cattedra tra qualche lustro – il loro salario massimo potrebbe in media arrivare a 40 mila euro lordi l'anno, la metà esatta di quanto prende oggi un professore a fine carriera.
Anche nel primo anno del regno di Renzi, nulla è stato fatto per modificare il trend, e chi può fugge all'estero alla prima occasione di lavoro. D'altronde lo stesso Renzi, in visita alla Silicon Valley, qualche mese fa ha spiazzato tutti: «Non vi chiedo di tornare a casa ma di andare avanti e cambiare il mondo. Non mi interessa riprendere cervelli in fuga . Ma vorrei rendere l'Italia talmente bella e semplice da avere voi la necessità di tornare a casa». Come dire, scordatevi rivoluzioni del mondo universitario in tempi brevi.
La strada resta in salita. Papa Francesco, ricevendo i ragazzi delle Acli, ha chiesto alle istituzioni e alla società di non tarpare le ali ai giovani. «L'estendersi della precarietà e del lavoro nero fa sperimentare tra le giovani generazioni come la mancanza di lavoro tolga dignità, impedisca la pienezza della vita umana. Serve una risposta sollecita e vigorosa». Ad oggi, non ve ne è traccia. Né di risposte, né di vigore: nonostante il calo microscopico fotografato dall'Istat (i giornali hanno gridato al miracolo, ma i disoccupati giovani in meno sono solo 8 mila) il tasso di disoccupazione giovanile dal 2007 a oggi è raddoppiato, e resta inchiodato al 40,9 per cento, con punte mai viste prima (tra il 60 e l'80 per cento) in Sicilia e Campania. Non è un caso che il Vaticano abbia organizzato elemosine per i giovani italiani: in occasione del Giubileo preti e cardinali devolveranno una parte del loro stipendio a un fondo (ancora da costituire) per sostenere l'occupazione giovanile. Amen.
BAMBOCCIONI PER FORZA
Secondo il demografo Massimo Livi Bacci, ancora prima dell'ultima grande recessione del 2008, «il 50 per cento dei giovani tra i 15 e 30 anni dipendeva dal reddito familiare». Dopo sette anni, la situazione è peggiorata. Se i bamboccioni costretti a vivere con i genitori, sottolinea l'Eurostat, sono aumentati di cinque punti (due under 35 su tre non si muovono dalla loro cameretta, nessuno peggio di noi in Europa dove nonostante la crisi le opportunità per i ragazzi di diventare autonomi sono cresciute) il rapporto “Noi Italia” dell'Istat segnala che i Neet, acronimo inglese che segnala i ragazzi under 30 che non lavorano e non studiano, sono da Bolzano a Caltanissetta circa due milioni e mezzo. «È una generazione bruciata, e i padri hanno enormi responsabilità» conclude la Saraceno.
Già: non accorgendosi delle sperequazioni tra il loro benessere e la povertà che stavano costruendo per le successive generazioni, occupando tutti i posti disponibili e gestendo quasi tutta la ricchezza nazionale, hanno preferito abbandonare i figli al loro (triste) destino. Il loro refrain è sempre lo stesso: «Non toccateci redditi e pensioni, sennò non possiamo aiutare i nostri poveri ragazzi». Di fatto, opponendosi a qualsiasi riforma sistemica che possa mettere a rischio il loro predominio, preferiscono che siano loro a gestire le risorse, piuttosto che sia lo Stato a redistribuirle.
La vittoria della gerontocrazia è assoluta. Le locuste non hanno ceduto un centimetro nemmeno quando si è ipotizzata una staffetta generazionale in fabbrica e in ufficio: ci ha provato Mario Monti, l'ha annunciata in pompa magna Enrico Letta, l'ha riproposta ora Marianna Madia. Il primo programma, regolato dal decreto 807 del 2012 del ministero del welfare, prevedeva il passaggio volontario nella stessa azienda da lavoratori maturi ai giovani. Il fallimento dell'esperimento è stato totale: in due anni si sono contati solo cinque casi di staffetta, in Lombardia e Veneto: nessun anziano ha accettato di rinunciare a parte del reddito per avere più tempo libero e favorire, contemporaneamente, l'ingresso di un ragazzo.
La proposta di Letta, molto simile, è stata accantonata subito. Anche il governo Renzi ha promesso un ricambio, in modo da inserire nel mondo della pubblica amministrazione 85 mila giovani. Annuncio esorbitante, tanto che il numero dei possibili fortunati è sceso rapidamente a 15 mila, dopo i calcoli della Ragioneria dello Stato sui costi troppo alti della misura. Alla fine, lo scorso aprile, il Senato ha approvato una versione ancora più “soft”: i lavoratori prossimi alla pensione, se vogliono, potranno decidere di optare per un part-time, continuando però a pagare contributi full-time. Numeri sul piano Madia non esistono ancora, ma sembra difficile che abbiano aderito in molti. Le locuste non sono, si sa, una specie particolarmente generosa.
Anche il Jobs Act sembra aver peggiorato il gap tra vecchi e giovani. Al di là degli effetti sull'occupazione generale, tutti ancora da verificare, la nuova legge ha di certo precarizzato definitivamente le generazioni degli under. Abbandonati i co.co.co e gli altri contratti superflessibili introdotti dalla legge Biagi (che, sarà bene ricordarlo, è stata inutile dal punto di vista occupazionale e catastrofica sul piano dei diritti), si punta su un contratto a tutele crescenti che, però, non darà mai una sicurezza definitiva. Se i ragazzi saranno sempre licenziabili dal loro datore di lavoro, l'abolizione dell'articolo 18 non riguarda padri e nonni. Alla fine della fiera, i garantiti di un tempo sono ancora più garantiti di prima, i giovani saranno precari a vita e prime vittime sacrificali di qualsiasi crisi aziendale.
Le locuste l'hanno sfangata anche stavolta, e nessuno se ne è dannato più di tanto. Se Confindustria ha applaudito il provvedimento, le forze sociali, a parte mugugni e inutili scioperi, hanno lasciato fare. Quando Silvio Berlusconi propose una legge molto simile a quella varata da Renzi, la Cgil di Sergio Cofferati portò in piazza tre milioni di persone, impedendo il blitz. Stavolta le proteste dei sindacati (e dell'opinione pubblica in generale) sono state assai più blande. Per due motivi: le nuove regole non toccano la pubblica amministrazione e, soprattutto, non interessano la stragrande maggioranza dei loro iscritti. Cioè pensionati e lavoratori dipendenti, che continueranno a essere tutelati come e più di prima.
Se qualche maligno ha polemizzato con i giudici della Corte Costituzionale che hanno difeso (a maggioranza, 5 contro 4) l'aumento delle pensioni che la Fornero aveva bloccato, accusandoli di proteggere i loro interessi privati di futuri pensionati, è un fatto che il sindacato italiano rappresenti solo le generazioni ipergarantite. Uno studio di Tito Boeri, Agar Brugiavini e Lars Calmfors spiegò per esempio che tra gli iscritti di Cgil, Cisl e Uil quasi il 50 per cento non è più un lavoratore. Una percentuale folle: in Francia e Germania scende al 20 per cento.
«La chiusura manifestata dal sindacato di fronte a misure di modifica del regime pensionistico sembra fortemente motivata dalla difesa delle organizzazioni sindacali dei diritti dei loro iscritti anziani», ragiona su Lavoce.info il professore di economia alla Bocconi Vincenzo Galasso. Non solo: confrontando il numero delle attuali iscrizioni della Cgil (oltre 5,6 milioni) con uno studio Argo-Omnibus voluto dallo stesso sindacato, si scopre che gli under 34 sono appena il 10,4 per cento del totale degli iscritti. Sembra difficile che un sindacato fatto di vecchi e gestito da anziani possa combattere per redistribuire ricchezza anche alle generazioni più giovani. Che ormai hanno capito che la partita è persa: quando possono, seguono il consiglio del grande Eduardo. E fuggono via, lontano.
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