domenica 21 settembre 2014

Io non ho alcun dubbio. Non solo é legittimo ma addirittura é un obbligo morale. Bombardare degli assassini é necessario. Salvare intere popolazioni da un genocidio é un obbligo per tutti.

Isis, il dilemma di papa Francesco: è giusto bombardare i terroristi? (FOTO)

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Il centenario della grande guerra, commemorato “nel pianto” da Bergoglio, scandisce un secolo di battaglia mediatica che i papi hanno combattuto a colpi di frasi celebri, evolvendo gli arsenali dei concetti e della dottrina, dei gesti e della strategia. In crescendo ma non all’unisono.
Ricollegandosi ma distinguendosi fra loro. Attraverso una sequenza di memorabili definizioni, dove le differenze non si riducono solo a sfumature letterarie. Dalla “inutile strage” di Giacomo Dalla Chiesa, diplomatico genovese, pontefice col nome di Benedetto XV e “disfattista” per le cancellerie dell’epoca, fino al verdetto psichiatrico emesso recentemente da Francesco, con diagnosi di “follia” nei confronti della guerra. Sempre, in ogni caso. Parole che non avranno entusiasmato la Casa Bianca e Downing Street, alle prese con la terapia d’urto da praticare al Califfo.
Mosul, cristiani in fuga
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Ap
Se di follia o pazzia si tratta, infatti, a partire dai deliri mesopotamici di al - Baghdadi, urge a maggior ragione una camicia “di forza”: necessità che, non potendo aspettare il Godot dell’Onu e l’utopia del governo mondiale, auspicato dal Pontefice, rimanda nel frattempo all’impegno di chi ci sta, discutendo nel caso se procedere dal basso, in un devastante corpo a corpo infermieristico, o dall’alto, attraverso l’angelo vendicatore dell’aviazione, sovente cieco. A volte omicida colposo.
Equamente, Francesco ha dispensato titoli a breve e lunga scadenza, per la stampa e per la storia. L’immagine di una “terza guerra mondiale a pezzi”, ad esempio, sintetizza magistralmente, per le generazioni che verranno, il Grande Medio Oriente di questo inizio secolo. Un’arena gigantesca di Hunger Games, primitiva e digitale, abitata da bestie feroci e mostri elettronici, come nel best seller futuribile di Suzanne Collins e nella trilogia dell’omonimo blockbuster hollywoodiano. Dove i “distretti” confessionali, sub-confessionali e tribali si affrontano a turno nel gioco al massacro della guerra civile islamica, di cui fanno le spese e l’esodo le minoranze, cristiane e non, da Mossul a Gaza, mentre “strateghi” e “sponsor”, vicini e lontani, assistono, tifano, mettono in palio la “cornucopia” degli aiuti. Umanitari e militari. Segreti e palesi.
E dove si aggira il golem senz’anima della coalizione che Obama e Hollande hanno assemblato a Parigi, definito con estro pittorico da Vittorio Zucconi “un curioso animale con troppe teste, molti cuori, diverse e lunghe code di paglia”. Una “strana alleanza” fra occidentali e arabi, senza persiani e di fatto senza russi, al posto della “santa alleanza” con lo zar ortodosso Vladimir Putin, vagheggiata un anno fa dal Papa e dal suo Segretario di Stato, Pietro Parolin, smarcandosi dall’America, opponendosi strenuamente al bombardamento di Damasco, cercando nuovi equilibri e tendendo la mano agli ayatollah del moderato Rohani.
Oltre agli storici, quale lascito per i posteri, Bergoglio a Redipuglia si è rivolto ai cronisti e alla coscienza dei contemporanei: “Ad essere onesti, la prima pagina dei giornali dovrebbe avere come titolo: "A me che importa?". Ma proprio in quest’ultimo interrogativo, ripetuto con l’insistenza di un refrain, Francesco può toccare con mano i rischi che corrono i pontefici quando dagli amboni del futuro scendono nella sagrestia del presente. Quando dimettono l’habitus di scena del profeta e vestono l’armatura del leader. Quando vanno alla guerra delle parole sperimentandone l’ambivalenza, scontandone l’ambiguità, subendone l’effetto boomerang.
Yazidi in fuga dalla furia del Califfato
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reuters
“A me che importa?”: in versione doubleface, la domanda retorica si attaglia infatti agli appelli di Obama quanto a quelli del Papa, per sollecitare con uguale pathos, in antitesi, l’astensione benevola e l’azione bellica. Lo strike del Pentagono e la contraerea dell’opinione pubblica. La chirurgia dell’aviazione e la clinica della mediazione.
“Noi siamo gli Stati Uniti e non possiamo chiudere gli occhi”, annunciò un anno fa il Comandante in Capo a stelle e strisce, mentre Francesco gli sbarrava il passo sulla via di Damasco e gli evitava, con ogni probabilità, di bissare la miopia e l’errore storico di Bush, spodestando l’oculista Bashar al – Assad e rimandandolo, nel migliore degli esiti, a completare la specializzazione in oftalmologia presso il Western Eye Hospital di Londra. Ma consegnando la Siria all’orrore dell’IS.
“La leadership dell’America”, ribadisce oggi la Casa Bianca, “è l’unica costante di un mondo incerto”. La sola che possiede “la capacità e la volontà di mobilitare il mondo contro i terroristi”. Ma che non fa del multilateralismo un alibi e agisce unilateralmente, se necessario, per colpire i cattivi dal cielo e salvare in extremis un popolo dallo sterminio. Come nel finale del film “L’ultima alba” (Tears of the sun), in una sorprendente assonanza di ruoli e battute tra Hollywood e Washington, tra Bruce Willis e Barack Obama, tra la first lady Michelle e la prima donna Monica Bellucci. “Quando abbiamo aiutato a prevenire il massacro di civili intrappolati su una montagna lontana, uno di loro disse: “Dobbiamo la nostra vita ai nostri amici americani. I nostri figli ricorderanno sempre che c’è stato qualcuno che ha sostenuto la nostra lotta e ha fatto un lungo viaggio per proteggere persone innocenti”. Così chiosò il Presidente, a riprova di quanto nell’immaginario d’oltreoceano i due copioni, geopolitico e cinematografico, si ispirino e rispecchino reciprocamente.
Parole che miravano altresì a intercettare al volo, e in volo, con una replica puntuale e puntigliosa, le obiezioni lanciate da Bergoglio di ritorno da Seul: “Le forze militari degli Stati Uniti da poco hanno incominciato a bombardare dei terroristi in Iraq per prevenire un genocidio”, gli avevano chiesto i giornalisti. “Lei approva questo bombardamento americano?”.
Per un attimo, a quel punto, era sembrato che Francesco autorizzasse il decollo, riprendendo la rotta di Wojtyla e la dottrina della “ingerenza umanitaria”, escogitata dal suo predecessore e dal cardinale Sodano, alla metà degli anni ’90, per giustificare la violazione di sovranità e scongiurare il ripetersi del Ruanda e di Srebrenica, incubi di fine millennio nell’orizzonte breve tra il sogno dell’89 e il brusco risveglio delle Twin Towers: “…gli stati non hanno più il diritto all’indifferenza. Se tutti gli altri mezzi si sono rivelati inefficaci, sembra chiaro che sia loro dovere disarmare l’aggressore”, aveva sentenziato Giovanni Paolo II rivolgendosi al corpo diplomatico. “I principi di sovranità e non-ingerenza, che tuttavia mantengono il loro valore, non dovrebbero costituire un paravento dietro il quale poter torturare e assassinare”.
L’allineamento di traiettorie tra i due pontefici, tuttavia, si è protratto appena il tempo di poche frasi, per poi virare, atterrare e tirare il freno sul distinguo tomistico, auspicabile ma impraticabile, da università gregoriana più che teatro di guerra: “In questi casi, dove c’è un’aggressione ingiusta, posso soltanto dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto. Sottolineo il verbo: fermare. Non dico bombardare, fare la guerra, ma fermarlo. I mezzi con i quali si possono fermare, dovranno essere valutati. Fermare l’aggressore ingiusto è lecito. Ma dobbiamo anche avere memoria! Quante volte, con questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto una vera guerra di conquista! Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto”.
Insomma, mentre Obama esclude l’impiego di soldati sul campo, “No boots on the ground”, Francesco invita tutti a rimettere i piedi a terra, nel senso più pieno e comprensivo, letterale e materiale del termine. A testimoniare che la distanza culturale e caratteriale tra gli inquilini delle due “case bianche”, del Tevere e del Potomac, in questo frangente, non potrebbe essere maggiore, anche nell’uso delle metafore.
Più sottile, invece, ma non meno consistente la differenza con Giovanni Paolo II, se ripensiamo al celebre sfogo del 2003, a braccio e alla vigilia dell’attacco all’Iraq: “Io appartengo a quella generazione che ha vissuto la seconda Guerra Mondiale ed è sopravvissuta. Ho il dovere di dire a tutti i giovani, a quelli più giovani di me, che non hanno avuto quest’esperienza: mai più la guerra! …Dobbiamo fare tutto il possibile! Sappiamo bene che non è possibile la pace ad ogni costo. Ma sappiamo tutti quanto è grande questa responsabilità.”
Il “mai” di Giovanni Paolo II, gridato dalla finestra dell’Angelus, lasciava comunque uno spiraglio aperto, per sua stessa ammissione (“non è possibile la pace ad ogni costo”). Discendeva dal vissuto personale e rimandava a una valutazione prudenziale. Il no di Bergoglio sembra piuttosto, a un tempo, psicologico e teologico. Riflessivo e istintivo. A doppia mandata. Non negoziabile.
Più che in via di principio, Wojtyla, nutrito di letteratura eroica, bellica sebbene non bellicosa, era contrario alla guerra per esperienza, muovendo dalla convinzione, dalla constatazione che le conseguenze di un conflitto, al giorno d’oggi, non sono prevedibili. Che cioè le guerre, per dirla con Sergio Romano, “sono creazioni autonome, provviste di una loro insondabile e imprevedibile logica. Chi inizia una guerra lo fa per eliminare un avversario o un problema, e si accorge ben presto di avere di fronte a sé nuovi avversari e nuovi problemi, più minacciosi e intricati”. Come mostra del resto dopo un quarto di secolo l’odissea irachena dei Bush, padre e figlio, novelli Ulisse e Telemaco, inverando la profezia-presagio dell’avventura “senza ritorno”.
Ma proprio il pragmatismo e la storiografia, nel caso specifico, probabilmente indurrebbero Giovanni Paolo II a propendere, questa volta, per una opzione diversa e interventista, più simile alla Bosnia, per intenderci, che non al Kuwait.
Il Papa polacco conosceva i rischi connessi alle svolte improvvise, impreviste della storia, essendo figlio di quell’umanità che a Yalta fu trascinata via nel risucchio degli eventi e tenuta in ostaggio per cinquant’anni al di là di un muro. Uno scenario che, osservato attraverso le lenti della scienza politica, rivela impensate ma realistiche similitudini con il presente, al netto del diverso contesto geografico e supporto ideologico.
Se a parole Al-Baghdadi non pone limiti spaziali alla Umma, minacciando di spingersi fino a Roma, nei fatti edifica e consolida il “califfato in un solo paese”. Come fecero Lenin e soprattutto Stalin cento anni fa con la dittatura del proletariato. Stabilendo le premesse di una nuova chiesa del silenzio del XXI secolo e rinchiudendo i cristiani, ammesso che non vengano sterminati-estinti tout court, in una prigione statuale capace di far rimpiangere i gulag. Spargendo il contagio e il collante a presa rapida di potenziali entità indipendenti soggette a scimitarra e sharia, dal Maghreb a Mindanao.
Ragione per la quale il vendicatore alato di Obama e Bruce Willis, pur senza indulgere in suggestioni nostalgiche, da remake o sequel teocon, e senza aggiungere note sinfoniche, da colonna sonora, meriterebbe al dunque di essere considerato non già demoniaco, ma semmai democratico. Magari non angelico, ma sicuramente salvifico.

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