Medio Oriente, i fantasmi dei Paesi del Golfo
Lotte di potere e ideologia: così la guerra indiretta tra le potenze regionali ha creato il caos
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Al gioco delle colpe non partecipano solo gli Stati Uniti e l’Occidente, spesso indicati tra i responsabili storici del caos nella regione. In Medio Oriente, a fare i conti con le pericolose conseguenze di scelte passate ci sono anche Arabia Saudita, Qatar e Iran. In generale, i Paesi che si affacciano sul Golfo Persico. Hanno anch’essi i loro fantasmi. E come gli Usa hanno anche loro poca voglia, pochi strumenti e poche chance per risolverli, affrontarli o almeno ammetterli.
Una lettura geopolitica ampia di quanto sta succedendo tra Iraq e Siria, dove spadroneggia la minaccia jihadista dello Stato islamico, non può non prenderne atto.
Sono due le grosse ombre che investono i Paesi del Golfo e il Medio Oriente. Il primo è l’uso politico della frattura religiosa tra musulmani sunniti e sciiti. Il secondo è il fondamentalismo religioso, alimentato ed esportato oltre i confini del proprio Paese perché non desse fastidio all’interno.
L’Iraq si trova proprio a metà frattura dei Paesi a guida sunnita e sciita. Da una parte ci sono Iran e Siria (cui aggiungeremmo anche il Libano, a maggioranza sciita). Dall’altra i Paesi del Golfo, Arabia Saudita e Qatar in primis. «E non è un caso che proprio in Iraq sia scoppiata la crisi», afferma Andrea Plebani docente di Storia delle Civilità e delle Culture Politiche all’Università Cattolica. Siamo sulla linea di faglia del terremoto mediorientale.
Abbiamo tratteggiato una mappa: in verde i Paesi a guida sciita e in rosso quelli a guida sunnita. In giallo l’Iraq. Libano e Bahrein sono Paesi a maggioranza sciita ma a guida sunnita
«La frattura sciita e sunnita è antica quanto l’Islam», spiega Vittorio Emanuele Parsi, professore di Relazioni Internazionali all’Università Cattolica. «Ma ha prodotto scontri aperti solo quando è stata politicizzata». Gli ultimi ad aver acceso il conflitto sono stati Khomeini con la rivoluzione iraniana del 1979 e Saddam Hussein con lo scatenamento della guerra Iran-Iraq nel 1980. «Da quel momento in poi la situazione si è infiammata», dice Parsi. E l’Islam sunnita o sciita è diventato fattore di sostegno dei regimi conservatori (come quello saudita) o di quelli rivoluzionari (come quello iraniano).
Come nasce l’asse sciita
La contrapposizione sunniti-sciiti ha assunto significati più geopolitici che religiosi. È il riflesso, come racconta Plebani, della competizione per l’egemonia in territorio Medio Orientale. «L’Iran è diventato il fulcro dell’asse sciita dopo le due operazioni Usa del 2001 in Afghanistan e del 2003 in Iraq. Hanno eliminato i due principali oppositori all’Iran: i Taliban e il sunnita Saddam Hussein. L’Iran da allora ha dato vita a relazioni strettissime con Libano, Palestina, Siria e Iraq, e «forte del suo peso demografico, economico, culturale e militare» ha creato attorno a sé l’asse sciita, unito più da interessi geopolitici che da legami religiosi.
La contrapposizione sunniti-sciiti ha assunto significati più geopolitici che religiosi. È il riflesso, come racconta Plebani, della competizione per l’egemonia in territorio Medio Orientale. «L’Iran è diventato il fulcro dell’asse sciita dopo le due operazioni Usa del 2001 in Afghanistan e del 2003 in Iraq. Hanno eliminato i due principali oppositori all’Iran: i Taliban e il sunnita Saddam Hussein. L’Iran da allora ha dato vita a relazioni strettissime con Libano, Palestina, Siria e Iraq, e «forte del suo peso demografico, economico, culturale e militare» ha creato attorno a sé l’asse sciita, unito più da interessi geopolitici che da legami religiosi.
La differenza tra sunniti e sciiti in un video
Come si forma l’asse sunnita
Nel vuoto di potere lasciato dal ritiro progressivo degli Stati Uniti nella regione, anche l’Arabia Saudita ha giocato la sua partita. «Riad ha visto nell’Iran una minaccia diretta alla sua influenza in Medio Oriente», spiega Plebani. «E ha reagito con una strategia su più livelli e di lungo periodo».
Nel vuoto di potere lasciato dal ritiro progressivo degli Stati Uniti nella regione, anche l’Arabia Saudita ha giocato la sua partita. «Riad ha visto nell’Iran una minaccia diretta alla sua influenza in Medio Oriente», spiega Plebani. «E ha reagito con una strategia su più livelli e di lungo periodo».
Strumento di potere dei Sauditi è il wahabismo, l’ideologia che ne sostiene il regime (e adottata anche dal Qatar, ricorda Parsi). Il Wahabismo è una interpretazione rigorista dell’Islam usata per garantire un ruolo di primo piano al Paese e difendere la legittimità della casa regnante. «I Sauditi, cioè, si propongono come la casata che difende i veri principi dell’Islam, facendo riferimento alle fonti più pure». Per capire il significato occorre fare un passagio in più. «L’Islam», spiega Plebani, «si fonda su due testi sacri, il Corano e la Sunna, intesa quest’ultima come l’insieme dei fatti e dei detti attribuiti al Profeta Maometto e trasmessi in singoli hadith, racconti. Bene, i Sauditi accettano per veri solo gli hadith più fedeli e certi. Ecco perché diciamo che il Wahabismo è una interpretazione rigorista dell’Islam». Attenendosi strettamente ai testi sacri, l’Arabia Saudita è il Paese che ancora taglia le mani e uccide con lanci di pietre. O, come ricorda Owen Jones in questo articolo del Guardian, mentre Isis decapitava due giornalisti Usa, nello stesso periodo, tra il 4 e il 31 agosto l’Arabia Saudita tagliava la testa a 22 persone. E dal 1985 i decapitati sono circa 2000.
(Varrebbe la pena agganciare subito qui il secondo fantasma, quello del fondamentalismo. Perché proprio questa interpretazione integralista dell’Islam fa da sostrato culturale a episodi di fondamentalismo che nascono nel Paese e che vengono finanziati e mandati oltre confine da privati sauditi. Ma ne parleremo più estesamente in seguito)
Per limitare l’ascesa dell’Iran in Medio Oriente, l’Arabia Saudita è intervenuta in Siria a sostegno dei gruppi di opposizione al regime alawita (corrente dell’Islam sciita) di Bashar al Assad, alleato di Teheran.
Nell’asse sunnita anche il Qatar ha giocato un ruolo di primo piano. Per contendendere all’Arabia Saudita il ruolo di leader dell’asse. Il piccolo Paese del Golfo ha cercato di ritagliarsi il suo spazio in più modi. Forte del suo peso economico per i ricchi giacimenti di gas, è intervenuto nei conflitti regionali, «soprattutto a sostegno dei Fratelli Musulmani in Egitto, in Libia e in Tunisia», ricorda Plebani, «ma ha anche investito nello sport, nel filantropismo e nei media. Sua è l’emittente Al Jazeera». Ma a differenza dei Saud «ha mantenuto un atteggiamento meno intransigente verso l’Iran».
(Un altro attore importante nella regione è la Turchia, ma per questo rimandiamo all’articolo di recente pubblicato da Linkiesta)
La linea di faglia, dicevamo, si manifesta proprio in pieno Iraq, dove la popolazione sunnita (il 42%) fatica a restare coesa con quella sciita (il 51% circa, dati Pew Research), dopo il fallimento del governo “inclusivo” di Nuri al-Maliki. I curdi, che nel Paese costituiscono circa il 12 per cento della popolazione, sono una minoranza etnica, la maggior parte dei quali è di religione musulmana sunnita (dalla scissione del Paese, lo spettro che nessuno - da Occidente a Oriente - vorrebbe divenisse realtà, ne uscirebbero tre realtà: una sunnita, una sciita e una curda).
Su questa linea di faglia prolifera lo Stato islamico, avvantaggiato dal momentaneo vuoto di potere a Baghdad (ancora troppo debole il neo premier Haider al-Abadi) e dal sostegno delle tribù sunnite arrabbiate con l’ex premier sciita al-Maliki (alleato chiave dell’Iran) che le ha escluse dal potere.
Ed eccoci al secondo fantasma. Il fondamentalismo religioso da esportazione. I gruppi che i Paesi del Golfo hanno finanziato vanno da Jabat al Nusra (gruppo qaedista attivo in Siria), alla galassia di sigle jihadiste del conflitto siriano, fino ai salafiti di Tunisia ed Egitto, racconta Vittorio Emanuele Parsi. I salafiti, in particolare, sono per il docente di Relazioni internazionali la «versione da esportazione del Wahabismo saudita». Si tratta di movimenti che impongono una rigida interpretazione dell’Islam e delle sue fonti (Corano e Sunna) nati dallo stesso sostrato culturale in cui si colloca il Wahabismo, la versione purista dell’Islam sunnita propagandato dalla dinastia dei Saud, che lo usa come legittimazione del proprio potere. «I Sauditi si propongono come i custodi dei luoghi santi dell’Islam e della purezza della dottrina», afferma Andrea Plebani. «Finanziare privatamente i movimenti jihadisti e mandarli all’estero è un modo – spiega Parsi – per non averli tra i piedi dentro la Nazione. «Tanto poi le castagne dal fuoco le toglie qualcun altro». Cosa che in effetti sta accadendo, visto che Stato Islamico e altri gruppi combattono tutti oltre i confini delle potenze del Golfo.
Per cogliere appieno il legame tra la politica saudita e lo jihadismo, suggerisce Parsi, si legga il volume Two faces of Islam di Stephen Schwartz. «Racconta come il comportamento dei miliziani dell’Isis, con sgozzamenti e spargimento di terrore, sia identico a quello dei partigiani dei Saud che tra fine 1700 e inizio 1800 tentarono di instaurare una monarchia saudita nella penisola araba, poi fermati dagli Ottomanni.
Two faces of Islam, il libro che racconta il legame tra i Sauditi e i fenomeni jihadisti
La domanda a questo punto non può che essere questa: cosa ci fanno gli Stati Uniti e le Nazioni occidentali in un conflitto frutto di logiche e problematiche irrisolte a livello locale? «L’intervento militare è una questione di emergenza», propone Parsi. «È come abbassare la temperatura corporea a un febbricitante. Il rischio da scongiurare è che l’Iraq crolli come Stato e che la Siria sia fagocitata». Poi, suggerisce il professore, bisognerà evitare di farsi coinvolgere nello scontro settario. «È come navigare nel Mare Artico in Primavera, mentre gli iceberg si rompono e rischiano di urtare la nave. Ma allora cosa facciamo, non navighiamo?»
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