LE DIFFICOLTÀ DI PECHINO E IL MONDO
Cina, fine del grande balzo?
A pesare contraddizioni politiche prima ancora che economiche. Le multinazionali in difficoltà
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Le borse mondiali hanno cominciato a traballare, scosse dal serio rischio che i Brics cadano in pezzi (l’acronimo in inglese suona come mattoni). La fibrillazione delle loro valute sarebbe lo specchio di una crisi di fondo, già annunciata l’anno scorso dalla frenata del Brasile e della Russia, ma soprattutto dal rallentamento dell’India e della Cina. Oggi quelle pulsioni profonde sono emerse in superficie. L’Argentina, che molti anche in Italia avevano indicato come una sorta di esempio per come si esce da un rapporto di cambio fisso, si svaluta la moneta, non si pagano i debiti e si torna a crescere, è arrivata alla resa dei conti. A ottobre ci volevano 6 pesos per un dollaro, adesso siamo a otto, ma la caduta non è destinata a fermarsi. Il paese è a corto di riserve valutarie e ha una inflazione del 25% (o forse più né il Fondo monetario né la Banca mondiale prendono per buone le stime ufficiali), i ricchi scappano e cambiano i loro quattrini in dollari, quattordici anni dopo siamo alla viglia di un altro collasso, anche politico. La lira turca, il rublo, la rupia indiana e il rand sudafricano sono coinvolte nella giostra delle monete.
Ci sono motivi specifici per spiegare le differenti crisi, ma esiste un destino comune, legato a un fattore interno (le riforme) e uno esterno (la Cina). L’Argentina è un paese che non ha fatto le riforme, ha nascosto la polvere sotto il tappeto di casa Kirchner. La Turchia, il Brasile, l’India e il Sud Africa hanno cominciato, ma sono fermi a metà strada (anzi, in India la probabile vittoria del partito nazionalista indù alle prossime elezioni politiche fa temere una vera e propria marcia indietro). Per quasi tutti questi paesi, la Cina è una formidabile locomotiva (ad esempio l’Argentina è diventata dipendente dalla soia venduta in Asia, Pechino è ormai il primo partner del Brasile). Ma l’Era dell’Armonia proclamata e non raggiunta nel decennio di Hu Jintao rischia di lasciare il posto alla Grande Scossa nel decennio di Xi Jinping (sperando che non diventi il Grande Balzo indietro). Le ragioni sono economiche, ma ancor più politiche.
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Secondo l’Economist di questa settimana, le multinazionali stanno perdendo il loro entusiasmo per la Cina e cominciano a sentire i morsi delle contraddizioni: costi crescenti, tensioni sociali, un potere molto meno amichevole, sferzate repressive che si alternano a tirate neonazionaliste, la sensazione che stia covando qualcosa di grosso e incontrollabile. Revlon si è ritirata, così come Yahoo, l’Oréal ha deciso di non vendere più i prodotti Garnier, Hugo Boss s’è spostata in Vietnam, il cognac Rémy Martin ha perso il 30% di vendite, Apple, Starbucks, Glaxo, Ibm, sono sotto tiro. Ciò è anche la conseguenza di una competizione più dura (e per lo più ineguale) con i nuovi colossi interni, lanciati in territori dove prima dominavano gli occidentali: si pensi a Lenovo nei computer o Alibaba nell’e-commerce. Ma in ogni caso, spinge a ridurre la sino-dipendenza, a favore di altre aree che in Asia stanno emergendo in modo potente, si pensi all’Indonesia o all’Indocina.
Alcune tendenze di lungo periodo rendono inquietante la situazione cinese: la forza lavoro invecchia e comincia a ridursi l’immensa riserva di capitale umano; il credito (mal) regolato dallo stato a livello centrale è esploso sul piano locale e nessuno sa bene a quanto ammontino i debiti delle macroregioni nelle quali è diviso «il regno di mezzo»; la crescita che si dirige verso l’interno abbandonando le coste ormai intasate, incontra ostacoli e barriere (dalle infrastrutture al livello di istruzione); la nuova classe media e l’esercito di operai hanno bisogno di assistenza sanitaria e cominciano a pensare alle pensioni; il regime progetta di costruire un welfare state, ma non vuole seguire né il modello privatistico americano né quello statalista europeo, nel frattempo non sa che pesci pigliare, attende e si rende conto che il costo di questa trasformazione sarà altissimo e abbasserà il tasso di sviluppo. Ma se la Cina rallenta troppo, le contraddizioni interne ed esterne possono esplodere e lo stesso dominio del partito può essere messo in discussione.
In un articolo uscito ai primi del mese, George Soros spiega questi dilemmi. «La grande incertezza che sta di fronte al mondo – scrive il finanziere di origine ungherese – non è l’euro, ma la futura direzione della Cina. Il modello responsabile della grande crescita è a corto di carburante. Esso dipendeva dalla repressione dei consumi delle famiglie per favorire le esportazioni, come risultato il settore privato interno si è ristretto del 35% e i risparmi forzati non sono più sufficienti a finanziare l’attuale modello di crescita. Ciò ha condotto a un uso esponenziale di qualsiasi forma di indebitamento finanziario». Consapevole del pericolo, nel 2012 la banca centrale ha cominciato a dare una stretta al debito provocando un brusco rallentamento della produzione. Ciò ha messo in allarme il Partito che nel luglio dello scorso anno ha deciso di allentare di nuovo le briglie. A novembre il terzo plenum del 18esimo Congresso, che ha eletto la nuova guida del prossimo decennio, ha annunciato una serie di riforme che vanno anche nella giusta direzione, ma che richiedono tempo, a condizione che l’economia non si fermi e la bolla non esploda.
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Conclude Soros: «La leadership cinese ha ragione nel dare la precedenza alla crescita perché le riforme strutturali combinate con l’austerità fiscale spingono le economie verso una spirale deflazionistica» (Soros pensa all’Unione europea e la cita espressamente). Ma c’è una contraddizione interna: «Far ripartire le fornaci alimenta anche la crescita esponenziale del debito che non può essere sostenuto per non più di un paio d’anni». Molti hanno letto questa previsione come una fosca predizione, anzi l’annuncio che Soros comincia a vendere titoli cinesi (e il suo fondo fa molto spesso da battistrada). Fatto sta che l’analisi è impeccabile. E rimanda a un saggio scritto vent’anni fa da Paul Krugman sulle «tigri asiatiche».
L’economista, che non aveva ancora vinto il Nobel e non si era trasformato in polemista editoriale, faceva ricorso alle categorie teoriche che stanno dietro ai suoi studi sulla geografia economica (una sorta di revisionismo ricardiano), per dichiarare che il miracolo non era poi tanto miracoloso; in sostanza si spiegava con la teoria dell’accumulazione. Se terra, lavoro e capitale fossero rimasti sempre abbondanti, il boom sarebbe continuato (salvo creare delle tensioni finanziarie che infatti esplosero pochi anni dopo cominciando dalla Thailandia). Però l’inevitabile contrazione delle risorse chiave avrebbe prima o poi costretto a cambiare il modello di sviluppo. In Cina il punto di svolta s’avvicina, ma sorge il dubbio sulla capacità camaleontica del regime: fino a che punto può cambiare in superficie senza rimettere in discussione il dispotismo orientale? Un interrogativo che attraversa anche la classe dirigente cinese e gli scontri di potere interno ne sono una manifestazione. La lotta alla corruzione copre un conflitto politico che non era mai stato tanto esteso dopo il «golpe» di piazza Tiananmen. Lo stesso «principino rosso» Bo Xilai che aveva preso a riesumare la rivoluzione culturale, era l’espressione dello scontento crescente non più solo delle masse popolari, ma della stessa classe media che vede rimesse in discussione di qui alla fine del decennio, le sue magnifiche sorti e progressive.
«Le prossime crisi saranno politiche non finanziarie», sostiene Soros che cita a sostegno della propria tesi la situazione nell’area euro (anzi nell’Unione europea in generale, con le crescenti tendenze centrifughe che prenderanno corpo con le prossime elezioni). E, naturalmente, prende ad esempio la Cina dove la politica è sempre al primo posto anche se molto spesso lo si dimentica. Politica è anche (o dovrebbe essere) la prevenzione di una nuova crisi. Soros sottolinea che «l’altro grande problema irrisolto è la mancanza di un’appropriata governance globale» e, con un finale pessimistico, teme che possa continuare «indefinitamente».
La questione chiama in ballo direttamente quello che resta l’unico grande potere globale (gli altri, Cina compresa, sono tutt’al più continentali), cioè gli Stati Uniti. La debolezza in politica economica e in politica estera della seconda amministrazione Obama ha dell’incredibile. Lo si vede con la Siria o nel continuo mercanteggiamento interno sul debito e sul bilancio pubblico. Lo si percepisce in modo palese nei confronti della Russia e soprattutto della Cina. Le tensioni in Estremo oriente vanno crescendo in modo esponenziale. Pechino ha ammesso che le relazioni con Tokyo sono pessime anche se rifiuta di rispondere colpo su colpo alle provocazioni di Shinzo Abe. «Siamo un paese che assunto un impegno di pace», ha dichiarato al Financial Times il ministro degli esteri Wang Yi. Ma la sensazione che si ha, viaggiando soprattutto nelle regioni più ricche, da Shangai a Canton, è di essere assediati, anzi stretti in una morsa, circondati da nemici: le Filippine, il Vietnam, il Giappone naturalmente, e la Russia. In più c’è l’islamismo radicale che fa proseliti nelle regioni musulmane dell’ovest. E in tutto ciò «il partner speciale» fin dai tempi di Mao e Nixon, non sa che fare. Soros ha ragione. È la politica, dunque, che deve dire l’ultima parola. E per capire come, quando e da dove verrà la prossima crisi, non bisogna guardare al mercato finanziario, ma al mercato politico che s’è fatto anch’esso globale.
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