giovedì 23 maggio 2013

Tutto questo mentre i grillini hanno finalmente saputo da grillo che il loro stipendio è di euro sei mila.


Il baratro e due Italie troppo simili

Giovedì, 23 maggio 2013 - 13:16:00
di Sergio Luciano
L'Italia è sull'orlo del baratro, ha detto il presidente della Confindustria Giorgio Squinzi poco fa, parlando all'assemblea annuale della confederazione degli imprenditori. Eppure lo stesso Squinzi l'11 dicembre del 2012, intervenendo al convegno del Centro studi della Confindustria, aveva detto che “l'Italia non è più sull'orlo del baratro, l'euro non è più in pericolo di vita”. Cos'è cambiato, in questi sei mesi? Cos'è che a metà dicembre andava bene e adesso va male? Il baratro s'è avvicinato lui all'Italia, come la montagna a Maometto? O l'Italia è scivolata in giù, nonostante le elezioni e la nuova, anche se precaria, stabilità politica, con il ritrovato “mini-spread”? La verità, a parte la discutibile oratoria, è che Squinzi è un grande imprenditore che opera in tutto il mondo con impianti realizzati e gestiti localmente, per star vicino ai clienti, soprattutto costruttori edili. E quindi tocca con mano l'incomparabile grado di competitività di tanti, troppi, altri Paesi rispetto al nostro: non solo sul costo del lavoro (questa è la tesi tendenziosa di Marchionne, che non a caso è uscito dalla Confindustria) quanto sulle regole (troppa rigidità), sulla burocrazia (paralizzante), sul costo dell'energia (spropositato), sulla macchina giudiziaria (vergognosamente fallimentare).
E la politica italiana cosa ha saputo esprimere rispetto a questo scenario che è drammatico sul serio? Solo il governo di “larghe intese” Napolitano-Letta, voluto con forza dal Quirinale, d'accordo con la Casa Bianca e con Mario Draghi per evitare guai peggiori, partorito quindi con una natura ufficialmente “emergenziale”, insediato solo per fare rapidissimamente la riforma elettorale necessaria per tornare alle urne e ottenere finalmente un governo politico, che però... anziché marciare a tappe forzate verso queste riforme ha iniziato a fare melina, come attratto dall'idea di restare in carica a lungo. Col solito corredo di scemenze annunciate, come il blocco della (pur insufficiente) riforma della struttura giudiziaria che voleva chiudere tredici “tribunalini” e d'altra parte l'ennesimo tentativo di varare leggi ad personam, in questo caso una legge salva-Dell'Utri. Poi, con l'unica confortante eccezione del ministro Saccomanni, c'è stato un florilegio di promesse economiche concretizzatesi finora solo in un rinvio della rata Imu di giugno (rinvio, non ancora abolizione) e non nella revoca dell'aumento dell'Iva da luglio... Insomma, poco e niente. Ecco, forse, il perché e la inquietante fondatezza di questo ritorno sull'orlo del baratro evocato da Squinzi.
A sua volta, però, la Confindustria – con buona pace del “parterre” governativo che ha ornato stamattina la prima fila dell'auditorium dell'Eur (ma tutti questi ministri non sarebbe meglio che restassero nei loro uffici a lavorare?) si conferma sempre più in crisi di rappresentatività e di credibilità. Rappresentatività, perché dopo il clamoroso fallimento – ideologico-culturale prima e elettorale poi – del tentativo di Luca di Montezemolo, suo ex presidente, di formare un nuovo “partito-non-partito”, tutti hanno compreso che il “fronte degli imprenditori” non è in grado di costruire alcuna vasta operazione di consenso popolare. E credibilità: sia perché, dall'interno della struttura, il “fuoco amico” contro il vertice si fa incessante (ultima bordata ad alzo zero quella di Guido Barilla, secondo il quale “così com'è oggi” la confederazione non funziona); sia perché i fronti pratici che Confindustria dovrebbe o avrebbe dovuto gestire, dal tentativo di riprogettare l'Ice alla necessità di risanare l'Editrice Il Sole 24 Ore, si sono risolti o in un nulla di fatto o - per ora, e auguri – in netti insuccessi. Insomma, come disse De Gasperi, anche Squinzi dovrebbe premettere ai suoi discorsi che ”tutto è contro di me, salvo la personale cortesia” degli uditori, dovuta all'uomo perbene e al grande imprenditore che è, ma non certo al rappresentante della categoria, mai così depressa nell'ideazione e nella capacità di proposta sociale.
Come se fosse, diciamolo, una categoria insanabilmente orfana della Fiat. Di quella Fiat che ha succhiato per decenni alle mammelle del Paese il latte dei favoritismi e spesso degli aiuti di Stato (e ora, legittimamente ingrata, si appresta a lasciarlo); ma che almeno, in cambio e nel frattempo, sapeva individuare una “linea” e dettarla, ponendosi come contraltare muscoloso alla politica. Per esempio, se è vero anzi ovvio che Mani Pulite è nata dall'iniziativa autonoma di un gruppo di pm, è altrettanto vero che probabilmente non avrebbe avuto né le dimensioni che ha avuto né un esito in fondo costruttivo senza l'atteggiamento responsabile che la Fiat assunse, collaborando e confessando di aver contribuito, sia pur minimamente, ad avallare un sistema marcio. Ecco, si ha l'impressione che, senza “una nuova Fiat” com'era quella degli Agnelli e dei Romiti, o comunque una nuova leadership culturale, non sarà questa classe d'imprenditori a poter indurre o accelerare il rinnovamento di questa classe di politici. Le due classi si somigliano troppo: nell'inconsistenza.

1 commento:

Unknown ha detto...

L'Italia affonda e Grillo gioca.

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