Il mito incrinato del commercio equo e solidale
Ricercatori britannici dopo quattro anni di ricerca tra Etiopia e Uganda sono giunti a una conclusione sconvolgente: le condizioni di lavoro nelle piantagioni sostenute dal “fair trade” sono peggiori di quelle nei campi tradizionali
11116 ore fa
Da poco più di 20 anni è il totem di chi si oppone alla globalizzazione e alle sue conseguenze sui più deboli. Il commercio equo e solidale, nato in Olanda nel 1988, è cresciuto e si è imposto con la promessa di garantire ai lavoratori che producono gli alimenti e gli artefatti condizioni dignitose, migliori rispetto a quelle che hanno intorno. Un ideale che si è tradotto nella pratica e ha cambiato le vite di milioni di contadini e consumatori. Ma questo mito, se non rotto, è stato incrinato da una serie di bordate che si sono susseguite negli ultimi anni.
Prima ci sono state inchieste giornalistiche, poi studi universitari più approfonditi. Nel 2013 fece molto discutere un documentario ospitato dalla tv franco-tedesca Arte, dal titolo “Il business del commercio equo e solidale”. Il film-maker Donatien Lemaître visitò piantagioni di caffè e banane tra Messico, Repubblica Dominicana e Kenya. La sua ricerca rivelò problemi come la presenza di lavoratori irregolari haitiani nelle piantagioni di banane della Repubblica Domenicana e lo sfruttamento dei lavoratori più poveri a vantaggio dei proprietari terrieri. La conclusione, ribadita in un’intervista, fu che non ci fossero reali differenze tra il lavoro nelle aziende agricole sostenute dalla fondazione Fairtrade e quelle nei campi convenzionali. Fairtrade rispose con un lungo comunicato in cui disse di “prendere molto sul serio” le accuse, contestò molti dei dati riportati e disse che il contesto era stato omesso, in particolare il problema storico dei lavoratori clandestini haitiani in Repubblica Dominicana. Il mito, però, aveva ricevuto la prima crepa.
Nel 2014 seguì un’altra denuncia, nel libro “The Fair Trade Scandal: Marketing Poverty to Benefit the Rich”, del ricercatore senegalese Ndongo Samba Sylla, della Rosa Luxemburg Foundation. In questo caso la tesi era che i benefici del fair trade andassero soprattutto ai Paesi a medio reddito, come il Messico e quelli del Sudamerica, a detrimento di quelli più poveri.
Il film-maker Donatien Lemaître visitò piantagioni di caffè e banane tra Messico, Repubblica Dominicana e Kenya, trovando lavoratori irregolari e condizioni di sfruttamento
L’eco di queste inchieste fu comunque poca cosa rispetto a quella prodotta da uno studio del “Fair Trade, Employment & Poverty Reduction Research” (Ftepr). Le conclusioni? Sconvolgenti: non solo le condizioni nelle piccole aziende certificate non sarebbero migliori di quelle nelle grandi aziende agricole commerciali, ma sarebbero addirittura peggiori.
La denuncia non giunse dal primo arrivato. Il Ftepr è un gruppo di lavoro che fa capo all’università Soas (School of Oriental and African Studies) di Londra, e gode del supporto economico del governo britannico, attraverso il dipartimento di sviluppo internazionale. A guidare il gruppo è Christopher Cramer, che da tempo denunciava la lontananza tra le promesse sulla carta e la realtà. Il suo studio è durato quattro anni ed è stato condotto tra Etiopia e Uganda.
Nel 2014 le conclusioni di uno studio di quattro anni del Fair Trade, Employment & Poverty Reduction Research furono sconvolgenti: non solo le condizioni non sarebbero migliori di quelle nei campi tradizionali, ma sarebbero addirittura peggiori
A dare conto di questa ricerca è stato soprattutto il quotidiano progressista The Guardian, ma interventi di Cramer sono stati ospitati anche dal conservatore Financial Times. «I risultati della nostra ricerca potrebbero essere inquietanti per i funzionari di Fairtrade e per le persone ordinarie che sperano di fare la differenza rispetto alle brutte condizioni dei contadini poveri nelle nazioni in via di sviluppo attraverso scelte informate sui prodotti che comprano», è l’incipit di un articolo di Cramer ospitato dal Guardian.
Durante gli studi, i ricercatori hanno parlato con i lavoratori, con i gestori delle cooperative, con le persone che si erano trovate abbastanza bene con il Fairtrade e con altre che non ne avevano tratto benefici. «Non è stata una sorpresa enorme per noi - continua Cramer - imparare dai nostri dati che le persone che dipendono per la loro sopravvivenza dall’accesso ai salari del lavoro agricolo manuale, spesso un lavoro stagionale o occasionale, sono molto più poveri degli altri lavoratori nella stessa area. La loro dieta è povera. Hanno meno oggetti - orologi, elettrodomestici, telefoni cellulari. E nelle proprietà nelle quali vivono, le ragazze e le donne sono meno scolarizzate». Né è una sorpresa, racconta, che gli standard di Fairtrade per il tè e il caffè sono sempre stati più preoccupati di garantire reddito ai produttori piuttosto che tutelare i salari dei lavoratori. «Quello che ci ha sorpreso - aggiunge però - è quanto i salari siano tipicamente più bassi e considerando le condizioni complessive peggiori, per i lavoratori nelle aree con le organizzazioni legate a Fairtrade rispetto agli altri nell’area».
Gli standard di Fairtrade per il tè e il caffè sono sempre stati più preoccupati di garantire reddito ai produttori piuttosto che tutelare i salari dei lavoratori
I ricercatori del Ftepr spiegano di aver filtrato i possibili effetti di altri fattori, come le dimensioni delle aziende agricole, più piccole nel caso del commercio equo e solidale. Eppure le differenze sono rimaste nella maggior parte dei casi, soprattutto per quanto riguarda i salari. Ci sono state scoperte sorprendenti, come quella che alcuni servizi per la comunità che sono arrivati con i fondi del Fairtrade (come moderni servizi igienici) non potevano essere usati dai lavoratori poveri, ma solo dai gestori delle aziende agricole. Tra i 1.500 lavoratori intervistati, diversi avevano 14 anni e hanno raccontato di aver cominciato a lavorare a 10 anni o prima.
Seguono le storie raccontate da Cramer: quella di James, che in Uganda vive in condizioni disperatamente povere in una baracca vicino a una fabbrica di tè sostenuta da Fairtrade. Non si può permettere di far curare il padre anziano e malato - ex operaio nella stessa fabbrica - ed è costretto a portarlo a piedi in una clinica pubblica distante 5 chilometri. In un’altra cooperativa sostenuta da Fairtrade - denuncia il Fterp - bambini poveri sono stati mandati via da una scuola supportata da Fairtrade perché non potevano permettersi le rette. I soldi “premium” del programma del commercio equo e solidale, è stata la denuncia, erano stati usati per costruire le case degli insegnanti.
Tra i 1.500 lavoratori intervistati, diversi avevano 14 anni e hanno raccontato di aver cominciato a lavorare a 10 anni o prima
L’atteggiamento di Cramer, come emerso in un’intervista a una rivista chiamata Spiked, non è di critica radicale al “fair trade”, di cui invece auspica un miglior funzionamento. Nel suo studio si avanzano una serie di proposte, come quella di legare il “premium” assicurato dai prezzi più alti prodotti equi e solidali ai salari e non al reddito dei proprietari delle aziende agricole che, secondo il Ftepr, sono relativamente piccole ma spesso non così ridotte.
Allo studio e a Cramer hanno risposto in molti dalla Fairtrade Foundation. Uno dei membri del board della fondazione, Simon Maxwell, ha replicato in particolare su due aspetti. Primo, la maggior parte dei lavoratori che hanno denunciato condizioni di lavoro negative erano occasionali o stagionali, mentre quelli assunti hanno condizioni migliori. Secondo, non è vero che i proprietari terreni siano dei capitalisti in miniatura: nella maggior parte dei casi sono contadini con tecnologie arretrate che non riuscirebbero a reggere una concorrenza degli altri produttori. Il fatto che la metà del “premium” del commercio equo e solidale sia utilizzato per investimenti in macchinari è da vedere quindi in modo positivo.
Il commercio equo e solidale non può essere considerato il solo strumento per combattere la povertà, per assicurare lo sviluppo rurale e la sostenibilità delle fattorie nei villaggi dei Paesi in via di sviluppo
Quello su cui Cramer e Maxwell concordano è che il commercio equo e solidale non può essere considerato il solo strumento per combattere la povertà, per assicurare lo sviluppo rurale e la sostenibilità delle fattorie nei villaggi dei Paesi in via di sviluppo. Le organizzazioni del “fair trade” devono invece costruire una partnership con altre organizzazioni che si occupano di credito rurale, infrastrutture di mercato e anche programmi per i lavoratori occasionali.
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