domenica 11 ottobre 2015

Il coraggio o lo hai o non lo hai. Nessuno può regalartelo.

Il coraggio di Kimiya, la cantante iraniana che sfida la Repubblica islamica

Mondo
Kimiya Ghorbani
Una cantante di Teheran sfida l’assurda legge della Repubblica Islamica che proibisce formalmente alle donne di cantare
Non c’è limite al capriccio dei tiranni, ma nemmeno al coraggio delle persone. Un esempio recente è la storia della cantante Kimiya Ghorbani. V’è dunque una tanto nota quanto inverosimile legge della Repubblica Islamica dell’Iran, dov’è nata e cresciuta Kimiya, che proibisce formalmente alle donne di cantare. Questa proibizione, spiega Kimiya, si è tanto diffusa e radicata nella società iraniana che spesso nemmeno in casa si permette alle donne di cantare liberamente: ci dicono di abbassare la voce, di non farsi notare, perché qualche vicino infame o bigotto potrebbe avvisare la polizia.
La punizione per questo tipo d’infrazione consiste in multa, carcere e frustate. Non è, tuttavia, soltanto il canto delle donne a essere proibito dal regime, bensì tutta la musica in generale è considerata un’attività poco degna di un vero musulmano. Da qui le persecuzioni contro i maggiori musicisti iraniani e soprattutto contro i Sufi, il ramo più antico, più colto e però meno ortodosso dell’Islam, che trova proprio nella musica il cammino più dritto tra gli uomini e Dio.
È a partire da queste premesse che si capisce meglio il coraggio della giovane cantante, quando a vent’anni, per mantenere casa e famiglia, decise di guadagnarsi il pane suonando e cantando in strada: la prima donna e per molto tempo l’unica a farlo. Se non la ricoprirono d’oro, è pur vero che la reazione della gente fu assai positiva, e grazie anche alla generosità che caratterizza gli iraniani, Kimiya riuscì a fare per molto tempo della musica in strada la sua fonte principale di reddito.
Certo che non mancarono gli insulti, le multe e le punizioni: ma Kimiya ricorda tutto questo come se niente fosse, scrollando flemmaticamente le spalle.
La generazione di Kimiya, classe 1984, nata a Teheran, è chiamata in Iran “generazione della guerra”, perché visse l’infanzia durante il conflitto che oppose l’Iran al vicino Iraq, il quale era sostenuto da Stati Uniti e altri paesi europei. Oltre a essere la generazione della guerra, la sua è pure la prima generazione nata sotto il regime degli ayatollah, che instaurarono la Repubblica Islamica dell’Iran attraverso la cosiddetta Rivoluzione. Ed è perciò che, se in molti Paesi “rivoluzione” è sinonimo di liberazione, in Iran la parola connota l’inizio dell’oscurantismo religioso che impera ancora oggi.
Pure bisogna dire che la Rivoluzione ebbe in programma di liberare l’Iran dall’influenza dell’Occidente, e fu per questo che il regime procurò subito d’incendiare cinema e teatri, simboli della diabolica cultura occidentale. “Io non ce l’ho con il cinema, tuonò Khomeini, voglio eliminare la prostituzione”. Kimiya ricorda allora quando i partigiani della rivoluzione entrarono nel gran teatro nazionale, presero a mano un pianoforte dal valore artigianale e storico inestimabile, e lo lanciarono dal balcone, sfregandosi poi le mani per aver eliminato lo scandaloso oggetto.
Nacque così, per indignazione e protesta, la passione di Kimiya per il piano. Studia al Conservatorio di Teheran e nel frattempo insegna xilofono ai bambini; si diploma, ma lamenta che per avere una buona formazione bisogna trasferirsi in Europa, perché in Iran la qualità dell’istruzione musicale, dato il disprezzo per la musica, si è abbassata moltissimo. Per la fine del corso Kimiya prepara tutto un libro di Philip Glass, il presidente dell’istituzione le stringe la mano per complimentarsi dell’eccezionale esecuzione, quindi Kimiya annuncia di volersi trasferire in Italia, per avere una formazione più adeguata.
Bisogna ora andare ai contenuti della musica di Kimiya Ghorbani. Non sapendo il persiano e non trovando in circolazione traduzioni dei suoi testi, abbiamo deciso di intervistarla.
Kimiya, che cosa canti nei tuoi testi?
Si tratta di poesia classica persiana, autori dell’epoca e dell’altezza di Dante, Boccaccio e Petrarca. Si chiamano Hafez, Sa’di, Jalaluddin Rumi, Kayyam; in Italia sono poco letti ma rappresentano il vertice assoluto della poesia orientale. Inoltre, sia per i temi sia per la lingua, non hanno perso la loro forza e la loro bellezza. Imparai a conoscerli quando lavoravo in una piccola biblioteca di Teheran. Divenni poi un’esperta nella recitazione, tanto che mi chiamavano a recitare a domicilio le famiglie dei ricchi per le feste e i compleanni. Poi, c’è da sapere che in Iran, da secoli, i poeti sono un patrimonio popolare, e sono letti e cantati durante il capodanno (che in Iran si festeggia il 21 di marzo, con l’inizio della primavera, ndr) e le grandi celebrazioni; nei poeti, soprattutto in Hafez, la gente cerca forza e consiglio. Cerca soprattutto i messaggi d’amore, tra uomo e donna; ma l’amore cantato da questi poeti è anche un amore d’altra natura, filosofico, assoluto, divino. Non tutti però sanno arrivare a questo tipo d’interpretazione.
Per quanto riguarda la musica, ti sei affidata a una band di artisti provenienti dal Conservatorio di Bologna. Si tratta di musicisti non persiani, in prevalenza jazzisti e tutti italiani. Perché questa scelta?
Questa, in parte, è la musica che avevo in mente di fare già quando ero a Teheran, una fusione tra la musica del mio Paese e la musica europea. Poi il destino ha voluto che frequentassi il Conservatorio di Bologna e incontrassi loro.
Che musica si ascolta oggi in Iran?
Di tutto. Come in tutto il mondo, anche in Iran è in atto un conformismo verso il basso, per cui la maggioranza ascolta porcheria, musica industriale fatta con le basi e gli strumenti finti. Ma c’è ancora, e molto forte, la musica tradizionale persiana, che è tutto un mondo. E poi c’è l’underground: jazz, rock, metal, hip-hop. In Iran tutto è underground: ristoranti underground dove si vende vino, allevamenti di maiale underground, teatri underground, librerie underground, sale d’incisione underground.
Com’è avvenuto che la BBC si interessasse di te?
Inviai loro una registrazione eseguita con la mia prima band all’Arena del Sole di Bologna durante un concerto. Immediatamente mi telefonò il presentatore in persona della trasmissione musicale più importante del canale londinese: dove sei, mi chiese, dicci dove sei che in poco tempo saremo da te! E vennero a Bologna con la troupe e le telecamere. Amo Bologna! Penso che in Italia non potrei vivere in un’altra città.

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