Università e ricercatori dall’estero, evitiamo la demagogia del “gruzzoletto”
I 500 ingressi annunciati da Renzi contro i 10.000 giovani ricercatori volati oltre confine negli ultimi 10 anni
110412 ottobre 2015
Prima di tutto i numeri. Negli ultimi dieci anni, i professori universitari sono diminuiti del 22% ed è stato tagliato il 97% dei precari. Risultato: in un decennio, sono andati a lavorare all'estero circa 10mila giovani ricercatori. Sono cifre enormi, cui si è aggiunge, peraltro un altrettanto importante calo delle immatricolazioni, che dall'anno accademico 2003-2004 sono diminuite di 80mila unità, pari a circa il 23,5%, uno studente su quattro.
Basterebbe questo piccolo dato per dare il senso di un processo di smobilitazione dell'accademia italiana, in un decennio in cui tutto si può dire tranne che il sapere e la conoscenza non siano centrali nei processi economici e produttivi. Un disastro ben sintetizzato da Alberto Forchielli, grande esperto di Cina e affari internazionali che ha appena scritto un libro intitolato Trova lavoro subito: i segreti per ottenere all'estero i posti che hai sempre sognato e che a Piazza Pulita, qualche sera fa, ha ricordato che la disoccupazione giovanile è frutto di un processo di lungo periodo, figlio dell'incapacità dell'Italia di «esserci nei settori delle biotecnologie, del software, della nuova economia digitale».
Altro giro, altro salotto televisivo, ieri Matteo Renzi a Che tempo che fa ha dichiarato a Fabio Fazio che bandirà un concorso nazionale dedicato esclusivamente ai professori universitari che insegnano all'estero. Un concorso «basato sul merito», per «attrarre i cervelli con un concorso nazionale», cui verrà dato un «gruzzolo per progetti di ricerca».
Una misura che è difficile non leggere come velleitaria e demagogica. 500 ingressi contro 10.000 partenze. Un “gruzzoletto” contro una decennale emorragia di risorse. Nel contesto, peraltro, di una sequenza di piani per il rientro e l'attrazione dei cervelli che si susseguono sin dal 2001 - ministro Zecchino - e proseguito negli anni a venire con Mussi e la Gelmini. Coi risultati che abbiamo sotto gli occhi.
Forse, invece che raschiare il fondo del barile per cercare fantomatici gruzzoletti da destinare a progetti dagli esiti - passati - fallimentari, sarebbe il caso di fare una pensata un po' più strutturale sul sistema dell'università e della ricerca italiana. I titoli dei giornali sarebbero meno, certo. Ma forse ci eviteremmo di copincollare questo articolo, tra un paio d'anni.
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