Che senso ha davvero misurare il PIL?
di Nicolò Cavalli
Una riunione del consiglio generale della Banca Centrale Europea. Immagine via Flickr/ECB European Central Bank
Questo post fa parte di Macro, la nostra serie su economia, lavoro e finanza personale in collaborazione con Hello bank!
Una delle critiche più famose al concetto di PIL—il prodotto interno lordo, oggetto di constanti ossessioni mediatiche—è quella di Robert Kennedy, fratello dell'ex Presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy e assassinato a Los Angeles il 6 giugno 1968 quando era uno dei favoriti nella corsa per la Casa Bianca. +
"Il PIL conteggia l'inquinamento dell'aria, la pubblicità delle sigarette e le ambulanze usate per sgomberare le nostre strade dai morti," aveva detto Kennedy pochi mesi prima di morire in un discorso tenuto all'Università del Kansas. "Il PIL conteggia le serrature speciali per le nostre porte e le prigioni per chi cerca di forzarle. Conteggia la distruzione delle sequoie e la perdita delle nostre meraviglie naturali a causa dell'espansione urbana incontrollata. [...] Eppure il PIL non include la salute dei nostri figli, la qualità della loro educazione, la gioia del loro giocare. Non include la bellezza della nostra poesia o la forza dei nostri legami, l'intelligenza del nostro dibattito pubblico o l'integrità dei nostri pubblici ufficiali. Né misura la nostra intelligenza o il nostro coraggio, la nostra saggezza o la nostra cultura, la nostra compassione o la nostra devozione al nostro paese: misura tutto, insomma, ad eccezione di ciò che rende la vita degna di essere vissuta".
Che cosa intende allora il premier Matteo Renzi quando dice che "l'Italia è ripartita e il Def non può che fotografare lo stato dell'arte, una crescita più alta, pari allo 0,9 percento" per il 2015?
Non è una domanda banale, e mette in discussione alcuni degli assunti di fondo della nostra società. Intere campagne elettorali vengono giocate sulla base di un punto di PIL in più o in meno, governi cadono o vengono riconfermati sulla base di una crescita economica più alta o più basse delle promesse. D'altro canto, la questione di come misurare il benessere in una società è un tema molto antico.
Già nel 1781, il filosofo inglese Jeremy Bentham aveva proposto un metodo molto semplice, chiamato felicific calculus—un algoritmo per calcolare la felicità generale di una società basato su un sistema di piaceri e dolori pesati in base ai loro "elementi" e alle loro "dimensioni". Massimizzando i primi e minimizzando i secondi, ogni cittadino avrebbe potuto contribuire ad aumentare la "felicità generale" della società e il compito del governante sarebbe stato quello di permettere questo processo.
Ma lo stesso Bentham si era subito reso conto dei notevoli problemi che comportava applicare nella pratica questa metodologia—innanzitutto perché le percezioni individuali, così come la loro intensità o la loro durata, sono difficilmente quantificabili e persino inaffidabili. Una risposta alternativa al problema della misurazione del benessere di una società era arrivata oltre un secolo dopo, nel 1938, grazie all'economista statunitense Paul A. Samuelson.
L'idea di Samuelson era basata sul lasciare perdere le "sensazioni" individuali e concentrarsi sulle scelte: non si può sapere cosa le altre persone sentano o pensino, ma dalle loro decisioni ci si può fare un'idea delle loro preferenze. È la teoria delle preferenze rivelate, che secondo l'economista acquisiscono un significato ancora più specifico—"l'espressione tangibile dei desideri e delle necessità delle persone è ciò per cui queste sono disposte a spendere dei soldi."
Secondo Samuelson, ognuno di noi agisce secondo una "funzione di utilità," un'espressione matematica dei nostri bisogni, che cerchiamo di massimizzare attraverso l'acquisto di beni e servizi e rispettando il limite determinato dal budget di spesa individuabile nel tempo. Il che implica l'esistenza di una "curva di domanda," cioè l'insieme delle decisioni di consumo individuali a partire dalle rispettive funziona di utilità.
Questa domanda dovrà allora incontrare la "curva di offerta"—cioè la quantità di ogni bene e servizio prodotta dalle imprese—e nel loro punto di incontro si formerà il relativo prezzo per il dato bene e servizio. Se i mercati funzionano nel modo giusto, questo prezzo sarà un'espressione "giusta" della relativa scarsità di beni e servizi sulla base della domanda di questi—domanda che, di base, è determinata dalle preferenze degli individui. Facendo la somma dei prezzi di tutti i beni e servizi acquistati in un anno, dunque, si ottiene il PIL.
Ecco perché questa unità di misura è diventata così importate. L'idea è che il PIL aumenti quando più persone riescono a soddisfare i loro bisogni e desideri—di conseguenza, più una società è ricca più è felice. Ma è davvero così?
Quest'anno Angus Deaton si è visto assegnare il premio Nobel per l'economia. In pratica, Deaton è stato premiato proprio per aver passato buona parte della sua carriera a mostrare che le cose non stanno proprio così. In primo luogo, perché il PIL come misura della ricchezza include cose che fanno male al benessere ed esclude cose che, viceversa, vi contribuiscono—proprio come sosteneva Kennedy. In secondo luogo, perché l'approccio economico basato sulle "preferenze rivelate" sottostima l'impatto di percorsi di consumo irrazionali o nevrotici, che diminuiscono il benessere dell'individuo che li pratica invece di aumentarlo—un esempio è quello di che sperpera i suoi soldi giocando al videopoker.
D'altro canto, una ricerca del 1974 condotta da Richard Easterlin—che in seguito è stata molto criticata—ha mostrato un vero e proprio paradosso: mentre in paesi come gli Stati Uniti e il Giappone la ricchezza individuale aumentava a livelli mai visti prima, la felicità non aumentava di pari passo ma rimaneva invece costante.
Da questa scoperta sono nati diversi tentativi di affiancare a quella del PIL diverse misurazioni del "benessere" capaci di prendere in considerazione altri aspetti della vita. Ad esempio, di recente l'Ocse ha sviluppato il Better Life Index, che oltre ai redditi prende in considerazione fattori come l'educazione, la salute e la qualità del tempo libero. Tuttavia, l'approccio più radicale alla questione rimane quello del Buthan, un piccolo stato asiatico che ha sostituito il PIL con l'indice della Felicità Interna Lorda. Che non è un'idea così assurda, considerato che numerosi studi hanno mostrato come esista una correlazione positiva tra la felicità individuale, il reddito e la salute.
Insomma, il PIL tiene in considerazione solo una piccola parte di quello che conta nella vita delle persone. E in futuro questa parte è destinata a restringersi ulteriormente: non solo per ciò che rimane fuori dal PIL, ma anche per quello che il PIL non riesce più a misurare. I cambiamenti tecnologici in atto sono infatti destinati a cambiare radicalmente i percorsi lavorativi individuali, la formazione dei prezzi e i modi in cui misuriamo la ricchezza.
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