La guerra è brutta, ma il pacifismo è inutile
L’azione non violenta, seppur ispirata dai più nobili intenti, non è mai efficace. Persino nelle storie di Gandhi e Martin Luther King la violenza fu, in qualche modo, necessaria
14262 ore fa
Premessa: questo articolo è stato scritto poche ore prima che, durante una marcia pacifista per la fine della guerra tra turchi e curdi, un attentato uccidesse ad Ankara 128 persone e ne ferisse oltre duecento, in quello che è il peggior attacco terroristico della storia della Turchia. Nessuna delle riflessioni in esso contenute è successiva a tale evento, se non una breve chiosa nel penultimo paragrafo. Ciò nondimeno, ognuna di esse trova conferma in ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Soprattutto una: la velleitaria pretesa del pacifismo di poter dettare, in ogni contesto, i termini del conflitto. E, ovviamente, la sua conclamata inefficacia nel risolverlo.
Bruno Bettelheim era uno psicologo viennese, ebreo. Nel 1938, in seguito all’Anschluss dell'Austria al Terzo Reich nazista, fu deportato a Dachau, quindi a Buchenwald. Rilasciato il 20 aprile dell'anno seguente, grazie a una (rara) amnistia in occasione del compleanno di Adolf Hitler, riuscì a scappare negli Stati Uniti d’America con la moglie. Da lì, a migliaia di chilometri di distanza dall'orrore, scrisse righe di fuoco. Non contro i nazisti e la loro follia genocida nei confronti del popolo ebraico, quanto contro gli ebrei stessi - lui per primo - rei di non aver nemmeno provato a ribellarsi: «La ribellione avrebbe potuto salvare le loro vite o le vite di altri - scrive -. È stata l'inerzia a portare milioni di ebrei nel ghetto che le SS avevano creato per loro. È stata l'inerzia ad aver fatto che si che milioni di ebrei aspettassero seduti in casa il loro boia». Forse è ingeneroso, Bettelheim, però coglie un punto importante: tra l’aprile e il maggio del 1943, gli ebrei del ghetto di Varsavia insorsero e pur privi di armi e munizioni, resistettero ai nazisti per quasi due mesi. Se tutta la popolazione ebraica sotto il dominio del Terzo Reich fosse insorta, avremmo avuto un Olocausto da sei milioni di morti?
La Storia, ovviamente, non si fa con i se e la strategia che adottarono gli ebrei, in quella tragica fase, fu quella dell'azione politica non violenta. In una parola, scelsero la strada del pacifismo. Un'ideologia, quest'ultima, che postula il rifiuto e il superamento della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie. L’articolo 11 della nostra Costituzione, peraltro, è figlio di tale ideologia. Il pacifista, di conseguenza, ritiene che il mondo possa diventare un luogo di cooperazione, armonia e, per l’appunto, pace anche laddove albergano ingiustizia e sopraffazione, attraverso azioni di pacifico dissenso, in cui nessuno si faccia male, oppressore compreso. La pretesa del pacifismo, che nella Germania nazista si rivelerà totalmente velleitaria, è quella di poter dettare, in ogni contesto, i termini del confronto. Ad esempio, osserva Ward Churchill, professore universitario e attivista americano, autore del saggio “Il pacifismo come patologia”, che alle prime provocazioni dei nazisti - provocazioni, in confronto a quel che verrà dopo - gli ebrei tedeschi reagiscono assecondandole, «per non esacerbare il clima», «per non alienarsi quel poco che rimaneva della simpatia dei tedeschi». In altre parole, negando il nemico, negavano il conflitto. Negando il conflitto, prestavano il petto al sacrificio.
Curioso tuttavia è constatare come tale ideologia sia ancora quasi un’assioma, nelle società occidentali, nonostante la pratica pacifista si sia rivelata incapace di produrre qualsivoglia risultato concreto. La più smaccata - e pluripremiata, da pubblico e critica - celebrazione di tale strategia è il film del 1997 “La vita è bella”, scritto, diretto e interpretato da Roberto Benigni. Film in cui il protagonista Guido, pur di proteggere il figlio Giosuè dagli orrori della realtà, racconta al figlio che stanno partecipando a un gioco a premi, in cui si dovranno affrontare numerose prove per vincere un carro armato vero. Un agnello consapevole di essere tale e che per proteggere il proprio figlio dal macello, non combatte, ma costruisce per lui un’artefatta normalità.
Tra l'aprile e il maggio del 1943, gli ebrei del ghetto di Varsavia insorsero e pur privi di armi e munizioni, resistettero ai nazisti per quasi due mesi. Se tutta la popolazione ebraica sotto il dominio del Terzo Reich fosse insorta, avremmo avuto un Olocausto da sei milioni di morti?
«E Gandhi? E Martin Luther King? - direte voi - se oggi l’India non è più una colonia inglese e se il segregazionismo razziale, negli Stati Uniti, appartiene alla Storia, il merito non può che essere di due leader pacifisti come loro. Come si può dire, di fronte a esempi simili, che il pacifismo è un’ideologia inefficace?» Obiezione pertinente, ma, almeno in parte, errata. Se è vero che una guerra - o una rivoluzione, o una qualsivoglia forma di conflitto violento - può cambiare la Storia in meglio o in peggio, un’azione pacifista non è mai in grado di farlo. Non da sola, perlomeno.
Partiamo da Gandhi. La cui azione non violenta fu importante, poiché rese chiaro agli inglesi che i costi per mantenere la colonia indiana erano proibitivi di fronte alla resistenza passiva di un popolo. Un’evidenza inconfutabile, che va tuttavia osservata nel più ampio contesto del declino dell’impero britannico dopo trent’anni di guerra mondiale e della bancarotta del tesoro imperiale necessaria a sostenere lo sforzo bellico. Certo, l’azione pacifista vinse, ma in quel contesto, anche una rivolta violenta, probabilmente, avrebbe prodotto il medesimo risultato. Applicare la strategia gandhiana ad altri contesti, invece, risulta quantomeno complesso. Nell’agosto del 2011, nel contesto di un analisi piuttosto dura dell'operato del Mahatma apparsa su The Atlantic, il giornalista-scrittore americano Christopher Hitchens ricordò come Gandhi, in una delle sue missive, suggerì ai britannici di lasciare che la Germania invadesse la “bellissima isola”, con tutti i suoi “bellissimi palazzi”, perché in ogni caso «gli darete tutto questo, ma non le vostre anime, né le vostre menti». Se Churchill avesse dato retta a Gandhi, a quest'ora, probabilmente staremmo ancora marciando a passo d'oca.
Il caso di Martin Luther King è simile. Nel caso del Movimento per i diritti civili americano, infatti, la violenza è parte integrante dell’azione pacifista, il propellente che le dà forza. Nell‘agone ci sono anche leader e movimenti che non rifiutano la violenza, anzi, come la Nation of Islam di Malcolm X e le Black Panthers di Rap Brown. Che non violenti come Martin Luther King usano come violenza allo stato potenziale per accreditarsi in qualità di interlocutori. Il volume di Ward Churchill riporta a tal proposito le parole di William Jackson, un attivista del movimento: «Quando scoppiavano le rivolte nei ghetti neri ero sempre il primo di fronte al congresso a dire loro “vedete? Se voi aveste trattato con noi questo non sarebbe successo”, ha dichiarato nel 1969. Funziona, come nient'altro. Rap Brown e le Black Panthers sono stati il miglior alleato del movimento per i diritti civili». Letta in quest'ottica, la non violenza di King e la violenza degli altri erano due facce della stessa medaglia. L’una al servizio dell’altra nel raggiungere l’obiettivo. Senza Malcolm X e senza rivolte, Obama sarebbe mai stato eletto alla Casa Bianca?
Gandhi, in una delle sue missive, suggerì ai britannici di lasciare che la Germania invadesse la “bellissima isola”, con tutti i suoi “bellissimi palazzi”, perché in ogni caso «gli darete tutto questo, ma non le vostre anime, né le vostre menti». Se Churchill avesse dato retta a Gandhi, a quest'ora, probabilmente staremmo ancora marciando al passo dell’oca
E a proposito di afroamericani: «Non parlatemi di rivoluzione finché non siete pronti a mangiare topi per sopravvivere», cantavano i Last Poets nel 1972, in “When the revolution comes”. O per dirla con Mao, «la rivoluzione non è un pranzo di gala». Presume sacrifici. Non a caso, gli indiani che seguivano Gandhi non uccisero nessuno, ma morirono in migliaia. E il monaco buddista Thich Quang Duc si diede fuoco sulle strade di Saigon l’11 giugno del 1965. La violenza c'è, insomma, anche nei movimenti non violenti. Solo che è rivolta verso se stessi. Per essere contemporaneamente non violenti e rivoluzionari, insomma, è necessario uscire dalla comfort zone, addirittura sacrificare se stessi. Come ebbe modo di dire Gandhi riferendosi agli ebrei di Germania durante il nazismo: «Gli ebrei non avrebbero dovuto offrirsi al coltello dei macellai, avrebbero dovuto gettarsi in mare dalle scogliere... Avrebbe risvegliato il mondo e il popolo tedesco».
Difficile associare il pacifista moderno a questa filosofia. Oggi la pratica pacifista è fatta di marce, slogan, azioni dimostrative appropriate al contesto, petizioni. Un’opera di sensibilizzazione, sovente fuori dal contesto in cui il conflitto ha o potrebbe avere luogo.Indossare una kefiah a Londra, o appendere una bandiera della pace alla finestra a Milano, o firmare una petizione via internet, o, più in generale affermare la propria contrarietà alla guerra “senza se e senza ma”, contro qualunque nemico, da terre che non conoscono la parola guerra da più di sessant'anni non è in grado di modificare in alcun modo lo status quo, né di risolvere un conflitto. A meno che, com’è avvenuto ad Ankara, non divenga teatro di un’azione terroristica. Cosa che, evidentemente, peggiora le cose.
«Siamo un popolo pacifico – racconta Xate, donna yazida arruolatasi nella Brigata del Sole, per combattere lo Stato Islamico –. Non abbiamo mai pensato che avremmo combattuto e ucciso, ma ora dobbiamo difenderci». Ha raccontato al Corriere della Sera, l’8 ottobre scorso di aver preso questa decisione dopo aver sentito il racconto, agghiacciante, di una donna che aveva conosciuto in ospedale, che era stata costretta dall'Isis a mangiare suo figlio. Di marce pacifiste a sostegno di queste donne, per spingere i governi occidentali a intervenire in loro favore e contro l'Isis non se ne sono ancora viste.
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