Lorenzo Tallarigo, Genextra e la ricerca italiana
Ha finanziato il biotech made in Italy. Portandolo al successo. Ora il fondo Genextra punta su altri progetti nostrani. Anche se lavorarci «è una lotta». Parola dell'amministratore delegato Tallarigo.
INTERVISTA
Bistratta, derisa, sottopagata, la ricerca italiana si prende la sua rivincita a Wall Street, tra gli spregiudicati scommettitori della finanza globale.
Tra il 3 e il 9 aprile, Intercept Pharmaceuticals, società del biotech nata dalle intuizioni di Roberto Pellicciari, docente di chimica farmaceutica all'ateneo di Perugia, e controllata dal fondo Genextra del finanziere Francesco Micheli, ha piazzato sul mercato 1 milione di azioni al costo di 320 dollari l'una. «Ora Intercept è diventato il pupillo degli investitori e tutti vogliono parlare con noi», ha raccontato a Lettera43.it, Lorenzo Tallarigo, amministratore delegato della holding.
A gennaio Intercept ha registrato un rialzo record, aumentando il suo valore in pochi giorni da 1,4 a 8,8 miliardi di dollari, con tanto di celebrazione del Wall Street journal. Era dal 2012 che una società di pari dimensioni, e che conta 'solo' 45 dipendenti, non toccava una crescita simile.
In mezzo c'è stata una telefonata del National health institute americano che ha confermato l'efficacia della molecola INT 747, brevettata da Intercept, nei test per la cura della steatosi epatica non alcolica, un male che colpisce il 5% della popolazione americana. E la finanza è pronta a scommettere con maggiore fiducia sulla creatura di Pellicciari.
NEL 2006 L'INVESTIMENTO DI GENEXTRA. E pensare che per anni il professore e Marck Pruzanski, il medico americano che per primo ha creduto in lui, hanno bussato a tante porte senza trovare capitali. Poi, nel 2006, sono arrivati gli investimenti di Genextra, il fondo specializzato in biofarmaceutica di Micheli, convinto dall'oncologo Umberto Veronesi, cofondatore della società, a scommettere sulle idee dei ricercatori italiani.
A 20 anni dalla discussa operazione Ebiscom, il finanziere milanese è tornato così a investire nel settore più caldo e ora fortemente sotto pressione sui mercati proprio perché cartina di tornasole del rischio. E in Genextra si è portato dietro metà dei salotti 'buoni o meno buoni' del capitalismo italiano, da Banca Intesa San Paolo (che controlla il 20% del fondo e quindi dei suoi guadagni) a Diego Della Valle, da Luca Cordero di Montezemolo a Bpm, da Tronchetti Provera alla Fonsai che fu dei Ligresti.
«NON AVEVANO TEMPO DI ASCOLTARCI». Stavolta, però, ne è nata una scommessa che i teorici del buon capitalismo potrebbero citare quanto i laudatori del cinema citano le giacche canarino di Jep Gambardella. Magari dedicando un trafiletto agli occhiali verde acido di Tallarigo, solo vezzo nel profilo dell'ad di Genextra, approdato alla finanziaria di Micheli dopo una carriera da presidente delle operazioni internazionali del gruppo farmaceutico Lilly. «Mi ricordo quando chiedevo di spiegare i nostri progetti per avere un cofinanziamento», spiega dalla palazzina liberty decorata dai glicini che ospita gli uffici della holding biofarmaceutica, «non avevano mai tempo di incontrarci».
Tra il 3 e il 9 aprile, Intercept Pharmaceuticals, società del biotech nata dalle intuizioni di Roberto Pellicciari, docente di chimica farmaceutica all'ateneo di Perugia, e controllata dal fondo Genextra del finanziere Francesco Micheli, ha piazzato sul mercato 1 milione di azioni al costo di 320 dollari l'una. «Ora Intercept è diventato il pupillo degli investitori e tutti vogliono parlare con noi», ha raccontato a Lettera43.it, Lorenzo Tallarigo, amministratore delegato della holding.
A gennaio Intercept ha registrato un rialzo record, aumentando il suo valore in pochi giorni da 1,4 a 8,8 miliardi di dollari, con tanto di celebrazione del Wall Street journal. Era dal 2012 che una società di pari dimensioni, e che conta 'solo' 45 dipendenti, non toccava una crescita simile.
In mezzo c'è stata una telefonata del National health institute americano che ha confermato l'efficacia della molecola INT 747, brevettata da Intercept, nei test per la cura della steatosi epatica non alcolica, un male che colpisce il 5% della popolazione americana. E la finanza è pronta a scommettere con maggiore fiducia sulla creatura di Pellicciari.
NEL 2006 L'INVESTIMENTO DI GENEXTRA. E pensare che per anni il professore e Marck Pruzanski, il medico americano che per primo ha creduto in lui, hanno bussato a tante porte senza trovare capitali. Poi, nel 2006, sono arrivati gli investimenti di Genextra, il fondo specializzato in biofarmaceutica di Micheli, convinto dall'oncologo Umberto Veronesi, cofondatore della società, a scommettere sulle idee dei ricercatori italiani.
A 20 anni dalla discussa operazione Ebiscom, il finanziere milanese è tornato così a investire nel settore più caldo e ora fortemente sotto pressione sui mercati proprio perché cartina di tornasole del rischio. E in Genextra si è portato dietro metà dei salotti 'buoni o meno buoni' del capitalismo italiano, da Banca Intesa San Paolo (che controlla il 20% del fondo e quindi dei suoi guadagni) a Diego Della Valle, da Luca Cordero di Montezemolo a Bpm, da Tronchetti Provera alla Fonsai che fu dei Ligresti.
«NON AVEVANO TEMPO DI ASCOLTARCI». Stavolta, però, ne è nata una scommessa che i teorici del buon capitalismo potrebbero citare quanto i laudatori del cinema citano le giacche canarino di Jep Gambardella. Magari dedicando un trafiletto agli occhiali verde acido di Tallarigo, solo vezzo nel profilo dell'ad di Genextra, approdato alla finanziaria di Micheli dopo una carriera da presidente delle operazioni internazionali del gruppo farmaceutico Lilly. «Mi ricordo quando chiedevo di spiegare i nostri progetti per avere un cofinanziamento», spiega dalla palazzina liberty decorata dai glicini che ospita gli uffici della holding biofarmaceutica, «non avevano mai tempo di incontrarci».
- Lorenzo Tallarigo, amministratore delegato di Genextra.
DOMANDA. Siete stati fortunati?
R. Penso che abbiamo fatto quello che altri non avrebbero fatto.
D. Cosa?
R. Altri fondi avrebbero mollato Intercept prima. E invece noi ci abbiamo creduto. E poi quando siamo nati e abbiamo fatto la nostra analisi strategica, ci siamo posizionati in un'area che era scoperta.
D. Quale era?
R. Con la crisi il capitale investito nel settore biotech fuggiva dall'area di rischio, quella più innovativa, di sperimentazione. Si preferiva la fase della commercializzazione, il prodotto finito.
D. Quindi niente finanziamenti per la ricerca pura?
R. Esatto. Questa fase iniziale è gestita dagli scienziati che, purtroppo o per fortuna, non hanno la concezione di trasferirla sul mercato.
D. E quindi arrivate voi?
R. Siamo un fondo un po' peculiare, non ci preoccupiamo di mettere solo i soldi, ma anche di accompagnarli dal punto di vista manageriale.
E poi il nostro progetto non ha una scadenza, non è un fondo che entro tot anni deve per forza fare profitto, altrimenti i finanziatori si ritirano.
D. Avete ricapitalizzato tre volte, concentrandovi su quattro progetti.
R. In tutto abbiamo investito 100 milioni. Normalmente con 100 milioni di euro, un fondo investe su 30 progetti. Questo con il biotech non si può fare, sarebbe troppo dispersivo.
D. Perché?
R. Perché il rischio è alto e serve un lungo periodo di investimento. Nel digitale o nella meccanica dopo tre anni è chiaro come stanno andando le cose e se la 'scommessa' è stata positiva o no.
D. Invece coi farmaci?
R. Se si finanzia la produzione di un farmaco, lo sviluppo del prodotto va dai 10 ai 13 anni di media. Tutte le volte poi c'è lo scoop miracoloso: abbiamo trovato il modo per curare questa malattia nel ratto e nella filossera. Ma prima che la stessa cosa si replichi sull'uomo, la via è lunga e tortuosa.
D. Quanto lunga?
R. Per 10 mila prodotti che un chimico mette sul tavolo, in media solo uno raggiunge il mercato. E nelle fase di test iniziale, quella preclinica, prima di arrivare all'uomo, ne vengono eliminati tra l'80 e il 90%.
D. Una buona percentuale.
R. Una volta superati gli studi in vitro e quelli sugli animali, serve trovare il prodotto sul quale scommettere e verificarne le caratteristiche. La fase precedente ai test sugli uomini può durare dai quattro ai sei anni. Poi le probabilità di successo aumentano di pochi punti percentuali.
D. Solamente?
R. È drammatico. Finita la fase 3, cioè il test sull'uomo, viene scartato in media ancora un 30-35% dei prodotti per l'insorgere di effetti collaterali.
D. Quanto dura il brevetto?
R. Dai 20 ai 25 anni, cioè il minimo per garantire un ritorno economico, anche perché dal momento in cui il farmaco viene brevettato a quello in cui si ha il prodotto finito passano almeno altri 12 anni. Ma sui guadagni delle case farmaceutiche ci sono spesso malintesi.
D. In che senso?
R. Bisogna capire che chi compra un farmaco non paga solo il costo del prodotto, ma la spesa di tutte le sperimentazioni che non sono arrivate sul mercato.
D. La reputazione del settore non è certo buona: scandali come l'accordo tra Roche e Novartis non aiutano.
R. Non commento il caso specifico. In generale se ci sono comportamenti scorretti devono essere perseguibili. Ma non si può fare di tutta l'erba un fascio.
D. Nel vostro caso vi siete posti degli obiettivi di guadagno?
R. Sì, però non si possono quantificare progetto per progetto. Se finanzio 10 sperimentazioni, sette falliranno, ma bisogna giudicare l'attività di Genextra nel suo complesso.
D. Voi siete al crocevia tra finanza e scienza, in un momento in cui anche la finanza gode di pessima reputazione...
R. La ricerca ha bisogno della finanza. E Intercept non esisterebbe se non ci fosse stato un finanziere. Che in questo caso ha giocato un ruolo positivo. Non ha fatto derivati, prodotti particolari...
D. Tra i vostri investitori c'è il fondo Blackrock e tra gli azionisti di Genextra gruppi come Fonsai che hanno fatto operazioni di cui certo non andare orgogliosi...
R. Noi siamo grati che Blackrock e Fonsai ci abbiano sostenuto. Se mi chiede se devono essere disincentivati i comportamenti scorretti è ovvio che dico sì, ma bisogna anche lodare, sostenere, promuovere quello che viene fatto bene.
D. Quindi esiste anche la finanza buona?
R. Certo, non posso chiedere ai finanzieri di investire soldi dove non guadagnano. Se lei deve mettere 50 mila euro in banca, a chi si affida? Nella banca sotto casa che le dà lo 0,5% di interesse o nella multinazionale che le dà il 5? Il punto qui è quale modello di società è sostenibile?
D. Cioè?
R. Io penso che la parte pubblica deve facilitare gli atteggiamenti positivi. Debba creare le condizioni perché chi investe, chi lavora, chi fa politica, chi studia, cerchi di andare nella giusta direzione.
R. Penso che abbiamo fatto quello che altri non avrebbero fatto.
D. Cosa?
R. Altri fondi avrebbero mollato Intercept prima. E invece noi ci abbiamo creduto. E poi quando siamo nati e abbiamo fatto la nostra analisi strategica, ci siamo posizionati in un'area che era scoperta.
D. Quale era?
R. Con la crisi il capitale investito nel settore biotech fuggiva dall'area di rischio, quella più innovativa, di sperimentazione. Si preferiva la fase della commercializzazione, il prodotto finito.
D. Quindi niente finanziamenti per la ricerca pura?
R. Esatto. Questa fase iniziale è gestita dagli scienziati che, purtroppo o per fortuna, non hanno la concezione di trasferirla sul mercato.
D. E quindi arrivate voi?
R. Siamo un fondo un po' peculiare, non ci preoccupiamo di mettere solo i soldi, ma anche di accompagnarli dal punto di vista manageriale.
E poi il nostro progetto non ha una scadenza, non è un fondo che entro tot anni deve per forza fare profitto, altrimenti i finanziatori si ritirano.
D. Avete ricapitalizzato tre volte, concentrandovi su quattro progetti.
R. In tutto abbiamo investito 100 milioni. Normalmente con 100 milioni di euro, un fondo investe su 30 progetti. Questo con il biotech non si può fare, sarebbe troppo dispersivo.
D. Perché?
R. Perché il rischio è alto e serve un lungo periodo di investimento. Nel digitale o nella meccanica dopo tre anni è chiaro come stanno andando le cose e se la 'scommessa' è stata positiva o no.
D. Invece coi farmaci?
R. Se si finanzia la produzione di un farmaco, lo sviluppo del prodotto va dai 10 ai 13 anni di media. Tutte le volte poi c'è lo scoop miracoloso: abbiamo trovato il modo per curare questa malattia nel ratto e nella filossera. Ma prima che la stessa cosa si replichi sull'uomo, la via è lunga e tortuosa.
D. Quanto lunga?
R. Per 10 mila prodotti che un chimico mette sul tavolo, in media solo uno raggiunge il mercato. E nelle fase di test iniziale, quella preclinica, prima di arrivare all'uomo, ne vengono eliminati tra l'80 e il 90%.
D. Una buona percentuale.
R. Una volta superati gli studi in vitro e quelli sugli animali, serve trovare il prodotto sul quale scommettere e verificarne le caratteristiche. La fase precedente ai test sugli uomini può durare dai quattro ai sei anni. Poi le probabilità di successo aumentano di pochi punti percentuali.
D. Solamente?
R. È drammatico. Finita la fase 3, cioè il test sull'uomo, viene scartato in media ancora un 30-35% dei prodotti per l'insorgere di effetti collaterali.
D. Quanto dura il brevetto?
R. Dai 20 ai 25 anni, cioè il minimo per garantire un ritorno economico, anche perché dal momento in cui il farmaco viene brevettato a quello in cui si ha il prodotto finito passano almeno altri 12 anni. Ma sui guadagni delle case farmaceutiche ci sono spesso malintesi.
D. In che senso?
R. Bisogna capire che chi compra un farmaco non paga solo il costo del prodotto, ma la spesa di tutte le sperimentazioni che non sono arrivate sul mercato.
D. La reputazione del settore non è certo buona: scandali come l'accordo tra Roche e Novartis non aiutano.
R. Non commento il caso specifico. In generale se ci sono comportamenti scorretti devono essere perseguibili. Ma non si può fare di tutta l'erba un fascio.
D. Nel vostro caso vi siete posti degli obiettivi di guadagno?
R. Sì, però non si possono quantificare progetto per progetto. Se finanzio 10 sperimentazioni, sette falliranno, ma bisogna giudicare l'attività di Genextra nel suo complesso.
D. Voi siete al crocevia tra finanza e scienza, in un momento in cui anche la finanza gode di pessima reputazione...
R. La ricerca ha bisogno della finanza. E Intercept non esisterebbe se non ci fosse stato un finanziere. Che in questo caso ha giocato un ruolo positivo. Non ha fatto derivati, prodotti particolari...
D. Tra i vostri investitori c'è il fondo Blackrock e tra gli azionisti di Genextra gruppi come Fonsai che hanno fatto operazioni di cui certo non andare orgogliosi...
R. Noi siamo grati che Blackrock e Fonsai ci abbiano sostenuto. Se mi chiede se devono essere disincentivati i comportamenti scorretti è ovvio che dico sì, ma bisogna anche lodare, sostenere, promuovere quello che viene fatto bene.
D. Quindi esiste anche la finanza buona?
R. Certo, non posso chiedere ai finanzieri di investire soldi dove non guadagnano. Se lei deve mettere 50 mila euro in banca, a chi si affida? Nella banca sotto casa che le dà lo 0,5% di interesse o nella multinazionale che le dà il 5? Il punto qui è quale modello di società è sostenibile?
D. Cioè?
R. Io penso che la parte pubblica deve facilitare gli atteggiamenti positivi. Debba creare le condizioni perché chi investe, chi lavora, chi fa politica, chi studia, cerchi di andare nella giusta direzione.
«Prima o poi riusciremo a ritardare il processo di invecchiamento»
D. Genextra finanzia anche un'idea quasi fantascientifica: il sogno di Veronesi di vivere fino a 120 anni.
R. Con Congenia produciamo molecole con l'obiettivo di inibire il gene responsabile dell'invecchiamento.
D. Ma lei crede che un giorno ci arriveremo davvero?
R. Difficile prevedere i tempi, ma io non ho dubbi: prima o poi riusciremo a ritardare il processo. E quindi a trovare la cura per malattie che oggi ci sembrano invincibili.
D. Per esempio?
R. Tumori, infarto del miocardio, Alzheimer. Dalla Seconda guerra mondiale la vita media è già aumentata di 15 anni.
D. Poi, però, c'è anche chi grida al miracolo con cure tipo Stamina. Cosa ne pensa?
R. L'Italia è un Paese di populisti e la scienza non fa eccezione... Si fanno le barricate per Stamina, per Di Bella, senza chiedersi minimamente se c'è la scienza a giustificare quello che dicono.
D. Proteste di pancia.
R. Non c'è un atteggiamento razionale. Gli italiani sono quasi tutti dei Masianello. Andiamo in piazza, protestiamo. Ed è talmente divertente che quasi quasi diventa meno importante perché lo si fa.
D. E come vede chi sale sulle barricate contro la sperimentazione animale.
R. C'è sempre una parte della protesta che posso capire.
D. Cioè?
R. Gli scienziati non possono certo dire: «Non rompete le scatole, facciamo quel che ci pare». Però nella stessa misura io farei una domanda agli animalisti.
D. Quale?
R. Ho questo farmaco, ho fatto i test chimici le simulazioni al computer. Lo assumete voi, per farci scoprire quello che potremmo sapere testandolo sui topini?
D. Insomma, bisogna scegliere.
R. Sì, poi c'è il risultato positivo della battaglia animalista è che i ricercatori sono più attenti alle cavie, le fanno vivere bene e morire il più in fretta possibile.
D. E gli organismi geneticamente modificati?
R. Non si può dire non servono controlli, ma nemmeno vietare a prescindere. Sono questioni complesse e delicate, avrebbero bisogno di raziocinio e poca emozione e invece fatalmente sono proprio i dibattiti in cui la parte emotiva emerge.
D. È difficile lavorare in questo Paese?
R. Non è facile fare ricerca né impresa, qui è una lotta continua. Quando lavoravo per Lilly e andavo a chiedere al ministero della Sanità quanti pazienti dovevo avere nel corso di una sperimentazione di un farmaco, mi rispondevano: un numero sufficiente. Cosa vuol dire? Gli americani non capivano e rinunciavano.
D. E via gli investimenti.
R. C'è tanta gente di buona volontà, ma c'è una complessità nel fare le cose che rende tutto complicato. E noi siamo italiani. Figuriamoci per chi italiano non è. Uno che viene da fuori diventa matto.
D. Ma lei è orgoglioso dell'Italia o no?
R. È lo stesso rapporto che uno ha con il primo amore.
D. E quale è?
R. Magari se ne parla male, ma si ama sempre. Ci sono delle individualità che ti fanno sentire orgoglioso, ti fanno gonfiare il petto. Quello che manca però è la dimensione collettiva. È difficile trovare qualcosa che faccia dire: «Guarda l'Italia come eccelle».
D. E intanto i biotecnologi italiani se ne stanno a New York, in Svezia, in Svizzera...
R. Io li capisco benissimo. Una persona di 30 anni che lavora all'università è costretta a prendere tre lire. E nessuno riesce ad avere i soldi che servono, nessuno dà garanzie sul futuro, nessuno spiega che ne sarà di loro. Questi problemi non possono essere risolti dal singolo.
D. E da chi allora?
R. Lo Stato non deve più dare 20 mila euro a 200 persone in decine di università diverse, ma investire 2 milioni di euro su due persone.
D. Se poi sbaglia?
R. Si prende le sue responsabilità. Capita di sbagliare, io sbaglio ogni giorno.
D. L'Italia può cambiare?
R. Io credo che siamo a un punto critico: o cambia o torna indietro di 50 anni.
R. Con Congenia produciamo molecole con l'obiettivo di inibire il gene responsabile dell'invecchiamento.
D. Ma lei crede che un giorno ci arriveremo davvero?
R. Difficile prevedere i tempi, ma io non ho dubbi: prima o poi riusciremo a ritardare il processo. E quindi a trovare la cura per malattie che oggi ci sembrano invincibili.
D. Per esempio?
R. Tumori, infarto del miocardio, Alzheimer. Dalla Seconda guerra mondiale la vita media è già aumentata di 15 anni.
D. Poi, però, c'è anche chi grida al miracolo con cure tipo Stamina. Cosa ne pensa?
R. L'Italia è un Paese di populisti e la scienza non fa eccezione... Si fanno le barricate per Stamina, per Di Bella, senza chiedersi minimamente se c'è la scienza a giustificare quello che dicono.
D. Proteste di pancia.
R. Non c'è un atteggiamento razionale. Gli italiani sono quasi tutti dei Masianello. Andiamo in piazza, protestiamo. Ed è talmente divertente che quasi quasi diventa meno importante perché lo si fa.
D. E come vede chi sale sulle barricate contro la sperimentazione animale.
R. C'è sempre una parte della protesta che posso capire.
D. Cioè?
R. Gli scienziati non possono certo dire: «Non rompete le scatole, facciamo quel che ci pare». Però nella stessa misura io farei una domanda agli animalisti.
D. Quale?
R. Ho questo farmaco, ho fatto i test chimici le simulazioni al computer. Lo assumete voi, per farci scoprire quello che potremmo sapere testandolo sui topini?
D. Insomma, bisogna scegliere.
R. Sì, poi c'è il risultato positivo della battaglia animalista è che i ricercatori sono più attenti alle cavie, le fanno vivere bene e morire il più in fretta possibile.
D. E gli organismi geneticamente modificati?
R. Non si può dire non servono controlli, ma nemmeno vietare a prescindere. Sono questioni complesse e delicate, avrebbero bisogno di raziocinio e poca emozione e invece fatalmente sono proprio i dibattiti in cui la parte emotiva emerge.
D. È difficile lavorare in questo Paese?
R. Non è facile fare ricerca né impresa, qui è una lotta continua. Quando lavoravo per Lilly e andavo a chiedere al ministero della Sanità quanti pazienti dovevo avere nel corso di una sperimentazione di un farmaco, mi rispondevano: un numero sufficiente. Cosa vuol dire? Gli americani non capivano e rinunciavano.
D. E via gli investimenti.
R. C'è tanta gente di buona volontà, ma c'è una complessità nel fare le cose che rende tutto complicato. E noi siamo italiani. Figuriamoci per chi italiano non è. Uno che viene da fuori diventa matto.
D. Ma lei è orgoglioso dell'Italia o no?
R. È lo stesso rapporto che uno ha con il primo amore.
D. E quale è?
R. Magari se ne parla male, ma si ama sempre. Ci sono delle individualità che ti fanno sentire orgoglioso, ti fanno gonfiare il petto. Quello che manca però è la dimensione collettiva. È difficile trovare qualcosa che faccia dire: «Guarda l'Italia come eccelle».
D. E intanto i biotecnologi italiani se ne stanno a New York, in Svezia, in Svizzera...
R. Io li capisco benissimo. Una persona di 30 anni che lavora all'università è costretta a prendere tre lire. E nessuno riesce ad avere i soldi che servono, nessuno dà garanzie sul futuro, nessuno spiega che ne sarà di loro. Questi problemi non possono essere risolti dal singolo.
D. E da chi allora?
R. Lo Stato non deve più dare 20 mila euro a 200 persone in decine di università diverse, ma investire 2 milioni di euro su due persone.
D. Se poi sbaglia?
R. Si prende le sue responsabilità. Capita di sbagliare, io sbaglio ogni giorno.
D. L'Italia può cambiare?
R. Io credo che siamo a un punto critico: o cambia o torna indietro di 50 anni.
Lunedì, 21 Aprile 2014
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