Made in Yidali. Ci salverà la Cina?
Potrebbe essere il Dragone a dare una mano al nostro sistema economico. Un po’ di dati e di storie
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Si chiama Yan Haimei, ma sono in molti ormai a chiamarla Clara. È la direttrice generale della QianJiang Motors, un’azienda produttrice di motocicli con sede a Wenling, nello Zhejiang, cinquecento chilometri scarsi da Shanghai. Da poco più di nove anni tuttavia, la signora Clara è anche amministratore unico della Benelli, storica azienda motociclistica pesarese. La QianJiang l’ha rilevata nel 2005 dalla famiglia Merloni. Le cronache del tempo parlavano del «disastro Benelli» , preoccupandosi – insieme agli ex titolari, alle istituzioni, ai sindacati – dei livelli occupazionali, del destino del sito produttivo italiano, del marchio. Oggi, a quasi nove anni di distanza, Benelli è ancora in Italia, ha 180 dipendenti, diversi tra i quali nuovi, ha investito decine di milioni di Euro, sfornato diversi nuovi modelli, destinati nella loro quasi totalità al mercato brasiliano e venezuelano e, nel 2012, ha chiuso per la prima volta dall’acquisizione il bilancio in pareggio. Oggi a Pesaro nessuno parla più dei cinesi come di una terribile minaccia per il territorio. Così come, del resto, ben pochi lo fanno dalle parti di Forlì, dove la Ferretti, storico produttore di yacht di lusso, è stata acquisita – o forse sarebbe meglio dire salvata – dal Shandong Heavy Industries Group - Weichai Group, colosso di Stato produttore di veicoli, motori e componentistica per l’automotive. Costo dell’operazione, 347 milioni di Euro, 178 in conto capitale e 196 in nuove linee di credito. Grazie a questo accordo, ratificato poco più di due anni fa, la Ferretti ha oggi circa 120 milioni di debiti in meno e una forza lavoro rimasta sostanzialmente immutata, così come la sua autonomia gestionale e produttiva.
Sono casi del genere ad aver contribuito al cambio di percezione dell’opinione pubblica italiana nei confronti del capitalismo cinese; da barbaro invasore a celestiale salvatore, dispensatore di capitali e liquidità, dopo che la crisi ha prosciugato le due principali fonti cui si abbeverava l’economia italiana: capitale di credito e debito pubblico. Casi che acquisizioni e tentativi di salvataggio meno riusciti, come quello di Sergio Tacchini – ricordate le maglie da tennis? Ecco, ora è rimasto solo il marchio e pare che Tacchini in persona, è notizia di questi giorni, se lo voglia ricomprare – non hanno contribuito a scalfire. Nonostante questi insuccessi e la crisi, gli investimenti cinesi in Italia non si sono certo fermati, anzi: come si può leggere nel rapporto «La Cina nel 2014» diFondazione Italia – Cina e Cesif, dal 2007 al 2013 le aziende italiane partecipate da cinesi sono cresciute da 7 a 272, di cui 187 cinesi e 85 partecipate da multinazionali con sede a Hong Kong, con un occupazione complessiva pari a quasi 12milia addetti. A livello territoriale, com’era prevedibile, la parte del leone la fanno Lombardia (37%) e Veneto (16%), in cui trovano terreno fertile più della metà degli investimenti cinesi in Italia. Non c’è, tra queste realtà, un macrosettore dominante: a dispetto di chi pensa che siano interessati prevalentemente al nostro know how manifatturiero, gli investitori cinesi hanno rilevato imprese che producono cose solo in un caso su quattro. Percentuale superata, anche se di poco, da costruzioni e utilities (26%) e commercio (27%) e incalzate, peraltro, anche da quella relativa alle imprese di servizi (22%).
Imprese italiane partecipate da investitori cinesi e di Hong Kong (1990-2013)
Ripartizione settoriale delle imprese italiane partecipate da investitori cinesi e relativi dipendenti (2013)
I settori d’appartenenza dicono molto anche delle modalità d’ingresso. Niente che non sia ovvio, intendiamoci: relativamente a commercio e servizi i cinesi preferiscono creare imprese ex novo, mediante investimenti greenfield. Si tratta di investimenti ben lontani dallo stereotipo dell'imprenditore cinese in Italia, quello delle Chinatown o di Prato, per intenderci. Nel 2013 ha aperto una sede in centro a Milano anche la Icbc (Industrial and Commercial Bank of China), la più grande banca commerciale cinese e il colosso Ict Huawei – presente in Italia già dal 2004 – ha inauguratotre anni fa a Segrate una nuova sede con un centro di ricerca sulle tecnologie wireless, primo centro globale di competenza del gruppo fuori dalla Cina. Relativamente alla manifattura, invece, i cinesi preferiscono acquisire, piuttosto che creare. Lo scorso anno, la Fosun International di Shanghai, uno dei più grandi conglomerati di capitali della Cina continentale, ha rilevato il 35% di Caruso, impresa di Soragna, in provincia di Parma, che produce abbigliamento sartoriale da uomo di alta gamma. Qualche mese dopo, l’azienda ha dato il via alla costruzione di un nuovo sito produttivo in cui troveranno spazio circa cinquanta nuovi addetti. Allo stesso modo, la Lunar Capital, un fondo di private equity, ha acquisito il 20% della Pinco Pallino, glorioso marchio bergamasco dell’abbigliamento per bambini, da tempo in crisi. Il gruppo Guandong Dong Fang ha invece acquisito il 60% della toscana Fosber, azienda di Lucca, leader mondiale nei macchinari per la produzione del cartone ondulato.
Nomi e numeri significativi, certo, soprattutto in funzione della loro crescita esponenziale negli ultimi sei anni. Non abbastanza, tuttavia, per gioirne o preoccuparsene. Secondo Lorenzo Stanca di Mandarin Capital Partners, il più grande fondo di private equity focalizzato sull’asse Italia-Cina, «l’Italia non rappresenta una meta privilegiata, proprio per la complessità del sistema regolamentare e per l’atteggiamento negativo nei confronti di eventuali acquirenti stranieri». Gli fa eco Giuliano Noci, prorettore del Polo Territoriale cinese al Politecnico di Milano: «Il nanismo industriale, la burocrazia incombente, la presenza di una giustizia civile a dir poco farraginosa – afferma - fanno prendere al capitale cinese strade ben diverse: tipicamente Regno Unito e Germania dove si sta concentrando la quasi totalità delle operazioni rilevanti portate avanti dalla Cina». Laddove «rilevanti» vuol dire non diretti verso Hong Kong o i paradisi fiscali caraibici, che assorbono due terzi degli investimenti esteri cinesi. L’Europa nella sua totalità, per la cronaca, ne assorbe solo il 5%, pari a circa 12 miliardi di euro.
Tanti o pochi, una cosa è certa: che la politica ha combinato poco per farli crescere. La summa delle occasioni sprecate è rappresentata dall’incontro tra Berlusconi e Wen Jiabao dell’Ottobre 2010. Il presidente cinese arriva in Italia con le migliori intenzioni: il governo Italiano aveva bisogno degli investimenti cinesi, quello cinese di luoghi in cui investire. Obiettivo, nemmeno troppo nascosto, portare l’interscambio annuo a 80 miliardi di dollari entro il 2015 e far entrare massicciamente nella modernizzazione delle vetuste infrastrutture italiane, dai porti, alta velocità ferroviaria, dagli aeroporti e alle autostrade. Wen Jiabao arriva a dire che dice però che il dialogo con Pechino non può più restare l’ennesima occasione sprecata. Lo sarà, purtroppo, a causa dei problemi sopra richiamati, ma anche a causa della scarsa capacità del Governo allora in carica nel dar seguito ai propri intenti. Per farlo, la questione chiave è capire cosa vogliono i cinesi e agire di conseguenza, adattandosi quanto più possibile in funzione di tale, nuovo obiettivo: invitarli a investire e a spendere in Italia.
Circa 98 milioni di turisti cinesi, nel 2013, hanno fatto almeno un viaggio all’estero. Un numero, già di per sé importante, che ha fatto segnare una crescita percentuale di circa 18 punti percentuali per due anni di fila. Se questa progressione dovesse continuare, la Cina, ben prima del 2020, diventerebbe il Paese con il maggior numero di turisti all’estero. Di questa fiumana, l’Italia raccoglie per ora poche gocce. Nel 2013, solo 500mila turisti cinesi circa, pari allo 0,5%, sono passati dallo Stivale, con una crescita, pari al 21% circa, che si è rivelata superiore rispetto a quella totale. Già, perché alla classe medio alta cinese – classificabile tra i 200 e i 500 milioni di persone – piace molto comprare beni di lusso quando viaggia, per sé e per gli altri. Stando al rapporto Cesif, quasi un turista cinese su due – il 46% - si porta a casa almeno un prodotto di lusso. O, se vogliamo vederla dal verso opposto, il 47% dei beni di lusso prodotti in tutto il mondo nel 2013, sono stati acquistati da un consumatore cinese. Per la terra del made in Italy dovrebbe essere un’ottima notizia e, in effetti, lo è: nel 2013 lo scontrino medio del turista cinese in Italia è passata dai 621 euro del 2007 ai 914 euro del 2013, con una crescita del 2% circa solo nell’ultimo anno. Quasi 7 euro ogni 10 vanno a finire in abbigliamento o pelletteria, il 24% in gioielli, il 7% in tutto il resto. Gran parte di questi scontrini, il 36%, per la precisione, vengono battuti a Milano, che tuttavia è in calo. Crescono invece Firenze (21%, con una crescita del 17%) e Roma (19%, con una crescita del 9%). Soprattutto, però, crescono regioni come Piemonte e Toscana grazie agli outlet del lusso: sono i turisti cinesi a fare registrare lo scontrino medio più elevato, con un tasso di crescita del 35%, cinque volte superiore a quello fatto registrare da tutto il mercato Tax Free Shipping italiano.
Se i turisti cinesi sono una gigantesca opportunità di crescita, altrettanto gigantesca è la competizione per attrarli. Vincerà chi saprà intercettare meglio i flussi e garantire il miglior servizio possibile. Una prima sfida sono le comunità appartenenti alle numerose minoranze etniche e linguistiche cinesi. Tra le molte cose che il governo cinese pianifica c’è anche, entro il 2015, il raddoppio degli stipendi di fascia minima nelle città di seconda fascia e delle province interne. Arriveranno turisti da molte cine, una diversa dall’altra, e l’Italia dovrà prepararsi ad accoglierli. Un esempio su tutti: alla fine del 2013 sono stati consegnati i primi visti All Destinations Shenghen (Ads) agli abitanti della provincia del Ninxia, arricchiti grazie all’energia, di etnia Hui, molti dei quali, pur essendo del tutto somiglianti ai cinesi Han, sono di religione musulmana. Il loro primo viaggio, con ogni probabilità, sarà il pellegrinaggio verso La Mecca. L’obiettivo del loro secondo viaggio, con ogni probabilità, sarà lo shopping e quindi Parigi, Londra, Milano.
I problemi, con loro, saranno molteplici - in che lingua parlare? Che menù servirgli? Che approccio adottare? – e non di poco conto. Perché quei turisti – seconda sfida - tra qualche anno entreranno a far parte del club dei viaggiatori maturi, quelli che i suoi viaggi Ads se li è già fatti e che oggi vanno chirurgicamente dove più gli interessa: dove sono stati trattati bene e in posti nuovi, che vogliono scoprire. Saremo in grado di farli tornare? E di allargare l’offerta oltre le solite Milano, Roma, Firenze e Venezia? La terza sfida è quella di presidiare, sempre più e sempre meglio, il mercato dei big spender. Per intenderci: grandi imprenditori e manager cinesi, ricchissimi notabili del Partito Comunista, con un portafogli illimitato e una forte propensione al lusso. Per loro ci sono agenzie ad hoc che organizzano viaggi da decine di migliaia di euro con giri in Ferrari a Maranello insieme a Luca Badoer, shopping da Louis Vuitton in Galleria Vittorio Emanuele oltre l’orario di chiusura, cene a Roma e aperitivi a Venezia e spostamenti in elicottero da una città all’altra. Si tratta, per ora, di piccole realtà guidate soventi da pionieri delle relazioni diplomatico-culturali italo-cinesi che vivono di rendita sulle loro reti di relazione costruite all’interno della classe dirigente cinese.
Saranno – o meglio: saremo, come Paese – in grado di industrializzare questo processo, di farne una vera e propria strategia di sviluppo industriale di uno dei settori strategici della nostra economia? L’Expo, tra un anno, sarà il vero banco di prova. Tra i tanti progetti volti a migliorare l’accoglienza dei turisti cinesi in Italia, merita di essere segnalato quello promosso dalla Fondazione Italia – Cina e dalla Sea, la società che gestisce gli aeroporti milanesi e che ha come oggetto, per l’appunto, la trasformazione di Malpensa in un aeroporto «Chinese friendly». Prendendo esempio da quanto già è stato sviluppato nei principali scali europei e svolgendo approfondite analisi sui bisogni concreti dei passeggeri cinesi - già oggi in forte crescita: tra il 2008 e il 2012 i volumi di traffico Milano-Cina sono aumentati del 150% passando da 269.000 a 708.000 passeggeri – sono state poste in essere numerose iniziative. La segnaletica, innanzitutto, che già ha iniziato ad essere tradotta anche in cinese, così come il sito internet dell’aeroporto ed un’applicazione per smartphone specificatamente realizzata per il turista cinese. Non solo: il personale dell’aeroporto e dei negozi hanno ricevuto una formazione linguistica e culturale ad hoc per relazionarsi al meglio con l’utenza cinese. Infine, è stato predisposto un supporto all’acquisto in madre-lingua cinese ed è stata implementata una carta sconto riservata ai turisti cinesi per incentivarne lo shopping in aeroporto.
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Un’ultima grande opportunità di attrazione dei capitali cinesi è quella legata al sempre maggior numero di studenti del «Paese di mezzo» che vengono a studiare nelle nostre università. È un’opportunità perché permette di attrarre cervelli dall’estero, con competenze che i nostri non hanno. Una su tutte: quelle relative alla lingua e la cultura cinese. Anche l’indotto è rilevante: non va dimenticato che gli attuali studenti universitari cinesi, sono i cosiddetti piccoli imperatori, figli (forzatamente) unici di un upper middle class che vive in funzione del loro benessere e del loro successo. I dati raccontano una crescita rilevante: per l’anno accademico 2013/2014 sono state infatti registrate 3.699 iscrizioni presso le università e le scuole di alta formazione artistica e musicale, con una crescita, rispetto ai dati del 2008, del 225,6 per cento.
Andamento generale delle pre iscrizioni degli studenti cinesi nelle università italiane (2008-2013)
Non si tratta di un semplice dato statistico da registrare, ma la prova di una strategia d’attrazione che comincia a dare i suoi frutti. Una strategia che ha le sue architravi in alcuni progetti pensati in tempi non sospetti. Uno di questi è il progetto Uni-Italia, nato nel 2008 e promosso da Fondazione Italia – Cina, Miur e dalle Ambasciate di Italia e Cina. Uni-Italia si pone l’obiettivo di attrarre gli studenti italiani in Cina attraverso la promozione della nostra offerta formativa, nonché attraverso l’implementazione di servizi di orientamento, corsi di lingua e servizi di accoglienza in Italia per gli studenti cinesi. Altri progetti degni di nota sono i Progetti speciali Marco Polo e Turandot che riservano agli studenti cinesi una quota di posti nelle università italiane. Una curiosità: l’università italiana con il maggior numero di pre-iscrizioni per l’anno accademico 2013-2014 è l’Accademia di Brera-Milano, seguita da quella di Roma. Quindi, l’Università di Bologna, l’Accademia di Firenze e il Politecnico di Milano. Yidali, la traslitterazione di «Italia» in cinese, è «La forza di un grande paese». Fosse una domanda, la risposta, nel nostro caso, sarebbe arte e bellezza. Qualcuno ne dubitava, forse?
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