sabato 26 aprile 2014

I pugni quegli imbecilli di grillini dovrebbero batterseli in testa. Anzi dovrebbero battere la testa nel muro. Tanto dentro non hanno neanche una minima percentuale di cervello. Solo aria fritta.

Uscire dall’euro non sarebbe certo una passeggiata. La riconversione comporterebbe enormi problemi, con gravi ripercussioni sulla vita quotidiana di tutti noi. Soprattutto, però, determinerebbe un impoverimento significativo della popolazione italiana. Cosa ci insegna il confronto con il 1992.
ACCADE NEL 1992
Ragionare sulle conseguenze di un eventuale ritorno alla lira come se si trattasse semplicemente di una svalutazione è fuorviante. Ma proviamo comunque a immaginare che cosa potrebbe accadere se l’Italia facesse questa scelta, pur lasciando da parte, per il momento, le considerazioni relative a sostenibilità del debito e sopravvivenza dell’euro.
Nell’ultima grande crisi valutaria che ci ha visto protagonisti, quella del settembre 1992, il cambio lira/marco passò dal livello di 765,4 lire (venerdì 11 settembre 1992) a 983,7 lire (24 febbraio 1993), per poi stabilizzarsi nella fascia 900-1.000 lire nei mesi successivi. Nel giro di quattro mesi la nostra moneta si svalutò del 30 per cento. Il picco fu raggiunto nel marzo del 1995, con il marco a 1.274 lire: + 66 per cento rispetto al settembre 1992. E lo scenario del 1992 è da considerarsi ottimistico rispetto a quello che potrebbe accadere oggi: il panico e le reazioni a catena nel sistema finanziario italiano che deriverebbero da una uscita dall’euro potrebbero determinare una crisi economica e una svalutazione ben superiore a quelle sperimentate in passato, perché una cosa è uscire da un sistema di cambi fissi e un’altra è uscire da una unione monetaria. Tra l’altro, il sistema economico allora era “abituato” a frequenti crisi valutarie e a un’inflazione elevata. I risparmiatori erano, almeno in parte, preparati ad assorbire i colpi di una svalutazione e i produttori erano pronti a sfruttarla, prima che l’inflazione si rimangiasse il vantaggio competitivo.
Oggi, se la nuova lira si svalutasse anche “solo” del 30-50 per cento rispetto all’euro, il debito pubblico sarebbe insostenibile e bisognerebbe immediatamente ridenominarlo in lire. Lo stesso vale per i debiti privati. Nel momento in cui l’Italia dovesse decidere di ritornare alla lira, il Parlamento italiano dovrebbe ridenominare in lire tutti i contratti e gli strumenti finanziari: non solo titoli di Stato (Btp, Bot, e altro) ma anche buoni postali, conti correnti, obbligazioni private, polizze assicurative, mutui, e via elencando. Ovviamente, questo varrebbe solo per gli strumenti finanziari e i contratti sottoposti alla legge italiana. Se invece un’azienda avesse emesso un’obbligazione internazionale o contratto un debito in un paese estero, la valuta di denominazione non potrebbe cambiare e rimarrà in euro. E gli investitori dovrebbero verificare se quella azienda italiana sarà in grado di ripagare un debito ora in valuta estera.
MERCATI CHIUSI
In definitiva, chi avrà acquistato strumenti finanziari italiani perderà potere d’acquisto, se misurato in euro (e anche in lire se, come presumibile, la forte svalutazione genererà una fiammata inflazionistica). Chi invece avrà diversificato per tempo il proprio portafoglio, acquistando titoli in euro di emittenti esteri e di diritto estero (ad esempio Bund), manterrà inalterato il potere d’acquisto dei propri investimenti.
Ma le autorità italiane non potranno lasciare il tempo agli operatori privati di diversificare il portafoglio e causare così il collasso del sistema finanziario italiano per l’inevitabile fuga di capitali o l’altrettanto inevitabile aumento dello spread. Perciò, non appena la possibilità di abbandonare l’euro diventerà una ipotesi concreta, è plausibile ritenere che verrà decretata la chiusura dell’Italia ai movimenti di capitale e la sospensione delle contrattazioni in Borsa e questo stato di cose durerà per tutto il tempo necessario a completare la transizione dall’euro alla lira.
Anche le esperienze del passato confermano che tenere aperti i mercati è impossibile. Nel settembre del 1992, proprio per cercare di fermare i movimenti di capitale in uscita, i tassi interbancari toccarono il livello del 40 per cento nell’ultima disperata difesa del cambio. Ovviamente, oggi (come allora) il sistema finanziario italiani non è in grado di tollerare tassi così elevati, se non per pochissimi giorni.
Il ritorno alla lira, con il rialzo dell’inflazione e dei tassi d’interesse nominali favorirà chi ha un debito a tasso fisso e a lungo termine. Pensiamo invece a chi ha un debito a tasso variabile: in quale situazione verranno a trovarsi le famiglie che hanno contratto un mutuo indicizzato all’Euribor? Al confronto di quello che potrebbe succedere, il ricordo della vicenda dei mutui in Ecu impallidisce.
Rimane da verificare l’azione della Banca d’Italia a sostegno del mercato dei titoli di Stato e quella del legislatore per impedire che gli aggiustamenti di portafoglio possano determinare conseguenze sistemiche. La struttura del mercato finanziario italiano prima del 1992 era completamente diversa rispetto a oggi. Quando il rischio di default e di inflazione è concreto, infatti, prevalgono scadenze brevi (Bot), titoli indicizzati (Cct) e, se il legislatore lo consente, titoli in valuta forte. Quando l’Italia emise il suo primo Btp decennale nel marzo del 1991, la cedola era del 12,5 per cento. Questo significa che, anche senza considerare la reazione (di vendita) degli operatori esteri, la ricomposizione dei portafogli degli stessi investitori domestici rischierebbe di provocare un terremoto sulle scadenze medio-lunghe dei titoli di Stato.
Paradossalmente, se l’obiettivo è quello di abbattere il debito con la tassa d’inflazione, una struttura del debito come l’attuale è (quasi) perfetta: circa un terzo del nostro debito (663 miliardi) ha vita residua inferiore a un anno o è a tasso variabile, ma per due terzi è a tasso fisso con scadenza a lungo termine. Il problema è che il vantaggio per lo Stato-emittente si tradurrebbe in un impoverimento tale della popolazione da rendere difficilmente valutabili le conseguenze sulla vita sociale e democratica del paese.
In questo scenario, anche la struttura finanziaria probabilmente dovrebbe essere totalmente ripensata. Le perdite in conto capitale sugli investimenti delle banche e delle assicurazionidovrebbero essere sterilizzate contabilmente, come peraltro già fatto nel 2012. Ma l’intervento sulle regole contabili potrebbe non essere sufficiente.
Per entrambe le categorie di operatori finanziari, la sopravvivenza dipenderebbe dal comportamento dei clienti e dalla capacità di chiudere il sistema finanziario domestico in compartimenti stagni. Se, ad esempio, le banche fossero costrette ad aumentare i tassi sui conti correnti per trattenere i clienti, le perdite da contabili diventerebbero reali. Lo stesso accadrebbe se le assicurazioni dovessero subire significativi deflussi dalle vecchie polizze con bassi rendimenti garantiti. Non si dovrebbero quindi bloccare solo i movimenti di capitale con l’estero, ma si dovrebbe anche limitare la circolazione dei capitali all’interno, facendo marcia indietro rispetto all’idea di mercati competitivi e reintroducendo elementi di frizione (ad esempio costi fissi elevati per lo spostamento dei rapporti bancari o la chiusura anticipata dei contratti assicurativi) e di blocco perché l’estremo tentativo di proteggere il potere d’acquisto dei propri risparmi consisterà nel prelevare i contanti dal conto corrente prima che avvenga la ridenominazione. Anche senza considerare i timori più che concreti di una imposta patrimoniale, si avrebbe una corsa agli sportelli che, se non contrastata, potrebbe determinare il crollo del sistema bancario nazionale. E allora, come è già successo a Cipro o in Argentina, fintanto che la situazione non si fosse stabilizzata, i prelievi di contante dal conto corrente e dal bancomat dovrebbero essere contingentati al minimo indispensabile. In un contesto come questo, riuscire a evitare il fallimento del sistema bancario e assicurativo sarebbe un miracolo. Più probabile assistere a una sua parziale nazionalizzazione, con il ritorno alla situazione di venticinque anni fa.
LA TRANSIZIONE
Per un’economia di trasformazione e votata al commercio internazionale come l’Italia, una situazione del genere non potrà durare a lungo. Purtroppo, però, anche sulla “durata” della fase di transizione non è possibile fornire una risposta certa e men che meno tranquillizzante. Il “corralito” in Argentina e il limite giornaliero ai prelievi di contante (300 euro) a Cipro sono durati circa un anno. Nel caso dell’abbandono dell’euro, anche solo il tempo necessario a stampare le nuove lire e riconvertire tutti i sistemi di pagamento introduce un ulteriore elemento di rischio di difficile ponderazione.
Una volta decisa l’uscita dall’euro e adottata la nuova valuta, si porrebbero i problemi “tecnici” legati alla transizione alla nuova lira. In linea teorica, tutta la moneta elettronica (carte di credito, bancomat) potrebbe essere immediatamente convertita nella nuova valuta, ma l’operazione andrebbe “fisicamente” preparata con le istituzioni che poi dovrebbero programmare e girare la famigerata “chiavetta”. La conversione dalle valute nazionali all’euro è avvenuta in tre anni, dal 1999 al 2002. Con le nuove tecnologie e con l’esperienza maturata, i tempi possono essere sicuramente accorciati. Ma di quanto? La “chiavetta” può essere girata in un weekend, ma la preparazione richiederebbe settimane, se non mesi.
Veniamo infine ai problemi della vita quotidiana, legati alle transazioni commerciali di minore entità. Forse, questo della produzione di nuovo circolante è l’aspetto più “folcloristico” di una operazione di conversione valutaria, ma non per questo meno rischioso e meno costoso per l’economia “reale”. Solo per avere un’idea dei numeri in gioco, quando ci fu il passaggio dalle valute nazionali all’euro, per i 300 milioni di cittadini dei paesi interessati furono stampati in tre anni quasi 15 miliardi di banconote e coniati 52 miliardi di monete. Dal 1° gennaio al 1° marzo 2002 furono ritirati dalla circolazione 6 miliardi di banconote e 30 miliardi di monete. Ma se si dovesse decidere di tornare alla lira, bisognerebbe sostituire immediatamente gli euro in circolazione. Mentre la Banca d’Italia inizierà a stampare le nuove banconote, si potrebbe ricorrere alla soluzione di “punzonare” o marcare gli euro cartacei per trasformarli in nuove lire, convertibili “uno a uno”. Per le monete metalliche la procedura sarebbe estremamente complessa e, quindi, si potrebbe assistere alla ripetizione del fenomeno dei mini-assegni già visto con l’inflazione degli anni Settanta. Uno scenario divertente per i collezionisti, ma da incubo per tutti gli utenti che ogni giorno si servono delle macchinette per pagare parcheggi, biglietti, pedaggi. In ogni caso, la riconversione forzosa all’uso degli assegni e della moneta elettronica, avrebbe un impatto maggiore sul piccolo commercio di prossimità, sui mercati rionali, sul terzo settore, dove la moneta fisica è ancora il mezzo di pagamento più diffuso. E poi ci sarebbe il problema dell’adeguamento dei listini. Insomma, i costi di aggiustamento alla nuova lira ricadrebbero maggiormente sui piccoli commercianti e sui loro clienti, spesso i consumatori meno abbienti.
Se questi sono i rischi, vale la pena pensare di uscire dall’euro? L’Europa è una comunità a cui noi apparteniamo e che possiamo contribuire a cambiare, ma dobbiamo rispettare le regole di convivenza. Come hanno capito i greci e i portoghesi, le vie semplici non esistono. E l’abbandono dell’euro, che sembra la più semplice di tutte, rappresenterebbe il ritorno a un mondo che i ricordi di gioventù per molti colorano di rosa, ma i dati mostrano essere incompatibile con i livelli di benessere che abbiamo raggiunto e a cui teniamo.

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