CRISI DELLA RAPPRESENTANZA
I Forconi cancellano sindacati e partiti
Le forme di protesta e negoziazione organizzate dalla “società di mezzo” sono ormai inefficaci
Quando ho sentito parlare per la prima volta di “forconi”, la testa, per associazione d’idee, è andata immediatamente ad American Gothic, il noto quadro di Grant Wood in cui sono raffigurati due pionieri del Midwest, un agricoltore e sua moglie. Entrambi hanno lo sguardo arcigno del conservatore incazzato. Lui regge, per l’appunto, un forcone. Il quadro, non credo sia un caso, è del 1930, l’anno della Grande Depressione. Al netto delle numerose interpretazioni che ne sono state date, sono propenso a credere che quegli sguardi arcigni fossero rivolti a Wall Street e a Washington.
Ok, i forconi italiani non incarnano lo spirito dei pionieri e rimandano piuttosto, se non altro per contiguità territoriale, alle rivolte contadine post unificazione. Qualcuno, spaventato dalla presenza di Casa Pound, ultras e consimili - e, magari, pure dalla strana condiscendenza di alcuni membri delle forze dell’ordine - tratteggia paralleli con le insurrezioni reazionarie che furono brodo di coltura per l’ascesa del Fascismo. Altri incasellano questa protesta nel solco delle manifestazioni di reazione alla crisi, collegandola a quella dei berretti rossi, in Bretagna, rivolta anti tasse (e anti Hollande) guidata, anche in quel caso, dagli autotrasportatori.
C’è tutto questo, in parte, ma c’è anche altro. Dentro la protesta dei forconi sfumano i confini novecenteschi tra destra e sinistra, tra nord e sud, tra padroncini, dipendenti e disoccupati, finanche tra giovani e vecchi. Una moltitudine di impoveriti, dropout della recessione, disperati senza futuro senza rappresentanza né rappresentazione che ululano alla Luna la loro rabbia contro “questa” globalizzazione, contro “questo” parlamento di nominati, contro “questa” Europa e contro le politiche di austerità da quest’ultima imposte, contro le quali essi combattono per riappropriarsi della democrazia. In ultimo, ovviamente, contro Equitalia e contro la pubblica amministrazione che non paga i suoi debiti alle imprese.
Non chiedono niente di nuovo, i forconi. Né tantomeno fanno parte di categorie particolarmente penalizzate dalle crisi (non più di altre, perlomeno). Quel che mi pare vogliano dimostrare, semmai, è che le forme di protesta e negoziazione organizzate dalla “società di mezzo” sono ormai totalmente inefficaci e obsolete. Volendo banalizzare: è il grillismo applicato alla rappresentanza degli interessi economici e alla lotta sindacale, senza che tuttavia sia finora emerso un Grillo in grado di coagulare, organizzare (e monetizzare) tale protesta. «Antagonismo destrutturato», lo chiamava ieri Telese. Definizione azzeccata.
A voler coniare una definizione che li ricomprenda, sono i “figli dello stallo”, le vittime di un’Europa che non ha ancora deciso cosa vuole diventare e, soprattutto, se vuole diventare qualcosa. Se la prendono con lo Stato non tanto perché vogliono qualcosa da esso, ma perché ne hanno certificato la conclamata incapacità di mettersi in mezzo tra la Pac (Politica agricola comune) e gli agricoltori, tra gli autotrasportatori e la globalizzazione, tra chi muore di crediti verso la pubblica amministrazione e il fiscal compact, tra l’economia reale e la finanza, così come un tempo era in grado di mettersi in mezzo, mediando e redistribuendo, tra capitalisti e lavoratori. E se la prendono con le rappresentanze sindacali – o, perlomeno, le bypassano – perché le ritengono vestali di ritualità vuote e svuotate di senso, all’assalto di un palazzo d’inverno disabitato o di “stanze dei bottoni” dalle quali i bottoni hanno traslocato da almeno vent’anni.
Saranno anche naif, senza leader né ideologia, né proposte - e per questo destinati a sgonfiarsi nel giro del solito quarto d’ora di celebrità - ma perlomeno hanno centrato un problema non da poco: che c’è bisogno di uno Stato, sia esso l’Italia o l’Europa. Un motivo in più per guardare con apprensione alle prossime elezioni europee, vero e proprio referendum “de facto” sulla tenuta dell'Unione e sulla sua futura evoluzione o implosione. In altre parole: per uscire dallo stallo ci sono solo due soluzioni possibili: o lo Stato (l’Italia) si riappropria della sua vecchia moneta (la Lira). O la moneta (l’Euro) trova il modo di costruire attorno a se un nuovo Stato (l’Europa).
Sul fuoco della prima opzione stanno già soffiando in molti, da Grillo a Berlusconi, cogliendo in essa la romantica suggestione del ritorno all’età dell’oro della “Liretta” e della svalutazione competitiva. Paradossale, piuttosto, è quanto sia poco promossa l’alternativa degli Stati Uniti d’Europa (che comunque sono uno dei pallini del neo segretario del Pd, Matteo Renzi). Come affermano Daniel Cohn-Bendit e Guy Verhofstadt nel loro recente saggio “Per l’Europa”, «abbiamo bisogno di una vera rivoluzione. Di creare una grande Unione Federale con istituzioni europee sovranazionali. Di istituzioni comunitarie abilitate a definire la politica economica, di bilancio e fiscale per l’insieme della zona Euro. Di istituzioni dotate di strumenti che consentano di imporre le regole del gioco senza che gli Stati membri possano paralizzare il processo. Concretamente, questo implica che trasformiamo il più rapidamente possibile la Commissione europea in un vero governo europeo con ministri europei, che oggi chiamiamo commissari. Essi saranno controllati da un Parlamento europeo con più forti competenze, fra le quali il diritto di iniziativa legislativa. Solo così potremo far uscire l’Unione dagli schemi».
Sono due le domande che i forconi ci pongono impietosamente di fronte e che, in qualche modo, ci verranno poste di nuovo fra qualche mese, quando saremo chiamati a votare per il rinnovo del Parlamento europeo. La prima: siamo disposti a rinunciare a una nazione, se necessario per riavere una sovranità, per tornare a essere protetti da “mamma Stato”? La seconda: qual è il nostro Stato? L’Italia o l’Europa? Se questo è vero, gli sguardi arcigni dei nostri redneck, a differenza di quelli di Gran Wood, non sono rivolti né a Piazza Affari, né a Roma, né a Bruxelles. Sono rivolti a noi.
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