giovedì 25 aprile 2013

Il Partito d'Azione. Che partiti c'erano dopo la resistenza. Concordo con lui non si deve distruggere niente bisogna ripulire le istituzioni dai corrotti di qualsiasi tipo.


25 Aprile. Intervista a Massimo Ottolenghi del Partito d’Azione

Il partigiano, 98 anni: «Giovani, ribellarsi è giusto»

«Speravo che l’indignazione portasse a ripulire le istituzioni dalle caste, non a distruggerle»
Scuote i fogli sopra una scrivania piena di libri. Sospira. «Sono un ragazzo del 1915, un vecchio testardo, figlio del secolo della pianificazione della morte e della desertificazione di tutti i valori. Sono stato e resto un resistente, un democratico in servizio permanente. I partigiani? Non siamo degni di ricordali. E se mi chiedete perché, ve lo spiego. Perché si è pensato a ricostruire il benessere e non gli uomini, si è perdonato tutto. Non si è epurato, si è lasciato che le istituzioni venissero occupate dai partiti, colonizzate dalle caste e dalle mafie. Si è concepita la politica come una carriera, il lavoro come una merce e si è umiliata la Costituzione. Si è, infine, fatto sprezzo e gioco della giustizia, esautorandola e mettendola alla berlina».
Massimo Ottolenghi, nato a Torino in una famiglia ebrea, laica e rigorosa, è stato magistrato e avvocato civilista. Militante del Partito d’Azione, ha respirato antifascismo fin da giovanissimo. Il papà, professore di diritto internazionale amico e collega di Luigi Einaudi, fu espulso dall’Università e cancellato dall’albo degli avvocati a seguito delle leggi razziali.
Allo storico liceo D’Azeglio, fucina di intellettuali antifascisti, Massimo è stato compagno di scuola dei futuri partigiani Emanuele Artom e Oreste Pajetta (cugino di Giancarlo, arrestato a 17 anni proprio in quell’istituto). Allievo di Massimo Mila e Augusto Monti, entrò in contatto con Norberto Bobbio, i fratelli Galante Garrone e Duccio Galimberti. Nel 1937, a Vienna, capitale della Mitteleuropa, col ventre a terra e al riparo di due scalini, fu coinvolto in una sparatoria: «Una esperienza scioccante. Le camicie brune sparavano, davano fuoco a una libreria, mentre il sangue dei feriti scorreva sulla strada. Un fatto premonitore, a posteriori pensai che fosse stata un’esercitazione del successivo Anschluss. Tornai a Torino e lanciai l’allarme nella comunità ebraica, ma il mio racconto fu considerato un’esaltazione giovanile, una montatura. Non vorrei che alla fine della mia vita accadesse quel che mi accadde da ragazzo, che questi anni siano l’inizio di tempi ancora più oscuri. Le avvisaglie ci sono».
Ottolenghi custodisce un secolo. La scuola, la famiglia, gli amici, la comunità ebraica, il lavoro da avvocato, la Resistenza (più civile che militare) nelle Valli di Lanzo, dove lo sfollamento in montagna divenne vita partigiana. A quasi 98 anni i suoi occhi, incorniciati tra le rughe, sono rimasti vivi e la voce ancora tonante, nonostante il flusso dei ricordi e della ragione nasconda un lucido pessimismo. Ha scritto molti libri, tra cui il recente Ribellarsi è giusto (Chiarelettere, 2011), rivolto alle giovani generazioni, sull’onda lunga di Indignatevi di Stéphane Hessel. «Ma io quelle cose le scrivevo dal 1994». Il suo racconto a Linkiesta parte dal Piemonte per arrivare in Europa, passando dalle elezioni per il Quirinale.

Sono passati sessantotto anni dalla fine dell’occupazione nazifascista, cosa ricorda di quei giorni di fermento e di lotta che la vedevano protagonista a Torino?
La liberazione arrivò più tardi rispetto alla data ufficiale. Solo la mattina del 28, dopo un ultimo combattimento all’altezza della Gran Madre, le forze partigiane riuscirono a sfondare il blocco nazista e arrivare nel cuore della città. Il mio ricordo è quello di una motocicletta di grossa cilindrata che, a fari spenti, saettava per le vie di una città ancora impaurita. I cecchini fascisti sparavano dai tetti del teatro Alfieri, lungo le strade c’erano morti e, intorno, tutto era sventrato. E fumante. A bordo di quel mezzo c’ero io con Giovanni Trovati alla guida. Al tempo era poco più di un ragazzo, in futuro sarebbe diventato il vicedirettore della Stampa. Aveva il compito di scortarmi in via Roma presso una tipografia, bisognava fare uscire il primo numero di Gl, il nostro giornale. Un giornale di tutti e libero, quella libertà che incominciavamo ad annusare nell’aria.
È stato direttore amministrativo del giornale di Giustizia e libertà a Torino, cosa scrivevate sulle prime pagine nei giorni della Liberazione?
Il primo numero era poco più di un volantino, annunciava solo la liberazione dalla peste nazifascista. Il 29 aprile, domenica, il nostro foglio era diventato un vero giornale, con una grande Gl al centro e due facciate fitte di notizie di portata storica. Mentre ancora si sparava, Gl portava parole di speranza tra la popolazione. Sono, presto, diventato direttore amministrativo e ho assunto Trovati, Carlo Casalegno (vittima nel 1977 delle Br) e Giorgio Bocca. Era arrivato col mitra in redazione, un tipo ostico e formidabile. In un libro scrisse, successivamente, che il suo primo direttore – io – non gli aveva pagato la liquidazione: aveva ragione, la cassa era vuota. Il primo grande reportage lo fece proprio per noi, un articolo sui reduci della campagna di Russia.
Perché la storia del suo partito, considerato allora coscienza morale del Paese, è stata così breve? Esistono dei continuatori di quel pensiero politico?
Quando chiudemmo il giornale Gl e il partito si dissolse, dissi: «Siamo vincitori, ma sconfitti». I fascisti ci odiavano, i liberali ci consideravano quinta colonna dei comunisti, che però ci ritenevano quinta colonna dei capitalisti. I democristiani e tutto il clero non ci sopportavano, gli americani proteggevano i fascisti in funzione anticomunista. La nostra richiesta di epurazione, al primo punto della ricostruzione, andò in fumo. Togliatti diceva che ci fermavamo a questioni di principio quando bisognava passare alla politica e all’unità. Considero continuatori del pensiero Gustavo Zagrebelsky e Marco Revelli.
Lei scrive che «gli italiani sono sudditi di cialtroni e imbonitori», scontiamo ancora le non-scelte del primo dopoguerra? Ci sono analogie tra il passato e l’oggi?
La Germania ha fatto un esame di coscienza che noi non abbiamo compiuto. Tutti i compromessi pattuiti in questi decenni ci hanno reso indulgenti. E la storia si è ripetuta con Berlusconi, che ha scatenato una «guerra» tra governo e Stato. L’esecutivo Monti, per me, è stato come un governo Badoglio, doveva servire a riportare un equilibrio, non ci è riuscito. Il cavaliere in questi giorni, vedi l’elezione del capo dello Stato, è di nuovo in auge. Rischiamo di ricadere in un 8 settembre. Gli italiani continuano ad aspettare l’uomo della Provvidenza che si chiami Berlusconi, Grillo o Renzi. Inoltre, mi preoccupa l’Europa in sé, come entità, dall’Ungheria alla Grecia stanno rinascendo nazionalismi pericolosi. E noi siamo rimasti fermi alle riflessioni di Mazzini e Spinelli. Siamo entrati in Europa da cinquant’anni e vogliamo già uscirne? È illogico.

Con il suo libro, Ribellarsi è giusto, uscito prima della caduta del governo Berlusconi, invitava i giovani a farlo subito, prima che fosse troppo tardi? Come giudica l’esito del suo appello?
Speravo che l’indignazione portasse all’azione, non alla paralisi. Portasse purificazione delle istituzioni, non alla distruzione. Confido ancora nei giovani. Mi fa pena vederli sacrificati e con un futuro condannato. I nostri figli e le generazioni di mezzo avevano ritenuto che dar loro il benessere fosse la soluzione di tutto. Bisogna, invece, dare speranze, ideali e possibilità di misurare se stessi con la vita. La scuola pubblica è ancora un baluardo democratico. Internet è un grande mezzo di comunicazione, dipende da come lo si usa, certo, non può sostituire il diritto di voto.
In un capitolo del pamphlet, sottolinea l’importanza di essere «partigiani» oggi. Cosa significa?
In tempi di revisionismo, significa difendere la Costituzione, la legge, le istituzioni e il linguaggio. La regola è la base di una società, non uno strumento di potere. Solo l’azione che nasce spontanea dall’indignazione muove la storia. Ecco, perché essere partigiani nella contemporaneità. Ribellarsi non è impossessarsi del potere ma restituire la legittimità alle istituzioni.
Cos’è stata la Resistenza?
È stata un movimento di insurrezione che riprendeva le file del Risorgimento e che portava avanti l’unificazione dell’Italia e affratellava operai e intellettuali, la miglior gioventù d’Italia, per amore di libertà e giustizia. La Resistenza ha unito il Paese e non è stata solo un fenomeno del Nord. Da Roma in su si è versato sangue, ma quel sangue non era solo di gente del Nord. La mia formazione era comandata da un sardo, Pietro Sulis. La festa della Liberazione è un giorno sacro, perché ci ha portato la Costituzione. Non deve essere occasione retorica per fare solo rievocazione. Ha un valore etico e morale.



Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/ottolenghi-ribellarsi-giusto#ixzz2RSfrtNqS

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