martedì 31 gennaio 2017

La Silicon Valley contro l’editto di Trump che minaccia la linfa vitale dell’innovazione

Usa
trumpzuck
Alcune major dell’informatica e del web Made in Usa non esisterebbero o non sarebbero quelle che sono senza gli immigrati. L’importazione di professionalità e competenze dall’estero rappresenta per loro una linfa vitale
 
Perché le big company americane dell’hi-tech si stanno schierando contro la misura presa da Donald Trump di bloccare l’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini mussulmani di alcuni Paesi di cultura islamica? Non sarebbe più conveniente per loro starsene in silenzio? Perché rischiare di accattivarsi le antipatie di un neopresidente capace di scelte considerate fino a poco tempo fa inimmaginabili?
Perché l’innovazione cammina sulle gambe della commistione tra culture, esperienze, tradizioni … diverse. In altre parole si alimenta dell’incontro tra persone provenienti da ogni parte del mondo. Alcune major dell’informatica e del web Made in Usa non esisterebbero o non sarebbero quelle che sono senza gli immigrati. L’importazione di professionalità e competenze dall’estero rappresenta per loro una linfa vitale. Se c’è un settore in cui l’immigrazione e l’integrazione hanno dato grandi risultati è proprio quello dell’innovazione. Ecco perché non c’è convenienza che tenga di fronte ad una decisione così nefasta per il mondo dell’information and communication technology.
A finire nel mirino dei provvedimenti della Casa Bianca gli stessi dipendenti dei colossi della Silicon Valley. Non si è, quindi, fatta attendere la loro reazione. Da Google a Facebook, da Apple a Microsoft, da Netflix ad Airbnb ad Uber, il cui amministratore delegato fa parte della squadra di consiglieri economici di Trump  …  tutti hanno espresso dissenso.
L’amministratore delegato di Google, Sundar Pichai, si è detto “scosso” per l’impatto negativo che l’editto di Trump può avere nei confronti dei suoi dipendenti o sull’arrivo negli Usa di grandi talenti. Sarebbero circa 200 i dipendenti del colosso di Mountain View interessati dal provvedimento. Il co-fondatore di Google e presidente di Alphabet (la società che controlla Google) Sergey Brinjoined, in attesa presso l’aeroporto di San Francisco, ha aderito alla protesta dichiarando: “sono qui perché sono un rifugiato”.

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Il co-fondatore di Google e presidente di Alphabet, Sergey Brinjoined, all’aeroporto di San Francisco

Mentre il papà del più grande e popolare social network, Mark Zucherberg, ha ricordato sulla sua pagina che “gli Stati Uniti sono una nazione di immigrati, dobbiamo essere orgogliosi per questo”.
L’ad di Apple Tim Cook ha detto che “Apple crede profondamente nell’importanza dell’immigrazione, per la nostra azienda e per il futuro del Paese”. Inoltre, ha sottolineato come “Apple non sarebbe esistita senza immigrati che hanno portato innovazione e crescita”. Il presidente di Microsoft, Brad Smith, ha ribadito l’importanza della libera circolazione degli esseri umani: “crediamo che le leggi sull’immigrazione possano e debbano proteggere le persone senza sacrificare la libertà di espressione e di religione”.
L’amministratore delegato di Netflix, Reed Hastings, ha fatto appello all’unità per garantire i principi che da sempre ispirano la democrazia americana: “bisogna unirci per difendere i valori della libertà e delle opportunità”. Anche, Travis Kalanick, ad di Uber e persona molto vicina a Trump ha rotto il silenzio per dichiarare che il bando è un atto “sbagliato e ingiusto”. Molti dipendenti e autisti del servizio di trasporto automobilistico rientrano nelle maglie del blocco. Molto forte ed impegnativa la reazione del cofondatore e amministratore delegato di Airbnb, Brian Chesky, che ha promesso di dare ospitalità gratuita ai rifugiati che non saranno ammessi negli Usa.
Riusciranno le garbate prese di posizione delle più grandi e ricche aziende americane a far cambiare idea o quantomeno ad ammorbidire la politica sull’immigrazione del nuovo inquilino della Casa Bianca? Difficile fare previsioni, perché se è vero che Trump non sta facendo altro che tenere fede alle promesse fatte in campagna elettorale è anche vero che scelte così radicali e avventate rischiano di mettere in difficoltà uno dei settori trainanti e più rappresentativi dell’economia a stelle e strisce. C’è, inoltre, da aspettarsi che se le cose non cambiano il tono delle proteste potrebbe farsi ancora più duro. Potrà l’istrionico presidente degli Stati Uniti d’America permettersi il lusso di ignorare il loro punto di vista?

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