"A Enna il Pd è contiguo alla mafia": il grillino Giarrusso chiede l'insindacabilità al Senato
In un comizio ad Agira il parlamentare M5S attaccò i dem. Il sindaco (e deputata) Maria Greco, vicina all'“impresentabile” Crisafulli, lo ha querelato per diffamazione. E adesso Palazzo Madama deve decidere se concedere lo “scudo” e fermare il procedimento penale
“È inammissibile e intollerabile che nel 2015 sia ancora possibile esibire in maniera così plateale comportamenti e soggetti denotanti contiguità con gli ambienti mafiosi, per di più in una campagna elettorale”. Un'accusa chiara e diretta, pubblicata sul blog di Beppe Grillo con un titolo eloquente: “ La mafia ai tempi del Pd : ombre mafiose nella campagna elettorale di Enna”.
Un addebito che è costato al commissario dell'Antimafia Mario Giarrusso una querela per diffamazione aggravata, adesso approdata in Senato: il parlamentare Cinque stelle ha infatti chiesto l'“immunità” per quelle parole, ovvero che siano riconosciute insindacabili dall'Aula di Palazzo Madama, fermando così il procedimento penale. Una vicenda a suo modo esemplificativa dello scontro fra grillini e democratici sul tema della legalità, considerato che a denunciare Giarrusso è stata Maria Greco, deputata Pd e sindaco di Agira. Proprio nel paesino in provincia di Enna, nel corso di un comizio per le comunali dello scorso anno (ancora visibile sul blog di Grillo), il senatore del M5S attaccò il Pd locale , i cui principali esponenti erano affacciati ai balconi del circolo, a pochi metri di distanza dal palco.
A motivare l'attacco, la presenza di osservatori definiti dal parlamentare “molto qualificati”: un dipendente comunale (indicato da Giarrusso come “tesserato Pd”) arrestato anni prima per favoreggiamento mentre si trovava insieme al latitante Umberto Di Fazio, ritenuto il reggente del clan Santapaola di Catania, e il potente Mirello Crisafulli, storico esponente del Pd ennese, non ricandidato dal partito alle ultime elezioni dopo essere stato inserito fra gli “impresentabili” per un incontro anni addietro con un padrino della zona (lasciando il suo posto a Montecitorio proprio a Maria Greco, sua fedelissima).
Solo che Crisafulli ha poi smentito di essere stato su quel balcone, mentre a carico del dipendente comunale - malgrado una condanna per porto illegale di armi, quella per favoreggiamento (2 anni, condonati) e una denuncia per traffico di stupefacenti - non risultano condanne per reati di mafia. Nella sua memoria difensiva Giarrusso ha chiesto l'archiviazione oppure che le sue parole siano ritenute insindacabili, in quanto espresse nell'esercizio delle funzioni parlamentari.
A sostegno della sua tesi il senatore ha anche depositato una interrogazione presentata lo scorso febbraio al ministro dell'Interno Angelino Alfano sulla vicenda, per chiedere l'invio di una commissione d'accesso che verifichi la presenza di eventuali infiltrazioni mafiose. Troppo tardi, però, secondo il gip: essendo passati nove mesi dal comizio incriminato, per il giudice non c'era più “il necessario legame di ordine temporale tra l'attività parlamentare e quella esterna”. E così ha trasmesso gli atti a Roma. Adesso saranno i colleghi del senatore Cinque stelle a dover giudicare se stoppare il procedimento penale o farlo andare avanti: prima quelli della Giunta delle immunità (di cui peraltro Giarrusso fa parte) e poi l'Aula. «Per correttezza io non parteciperò alle riunioni della Giunta sul mio caso, lo farò solo per essere ascoltato e dare la mia versione dei fatti» afferma l'onorevole.
Da parte sua, la deputata dem Greco che lo ha querelato non fa un passo indietro: «Il Pd è una famiglia numerosa e uno qualche problema con la giustizia lo può aver avuto, ma da qui ad attribuire una patente di disonestà e addirittura di mafia a tutti per una persona condannata per favoreggiamento... Non capisco piuttosto perché Giarrusso vuole ricorrere all'immunità: rinunci e vediamo cosa stabilisce il giudice». Controreplica: «Sono un commissario dell'Antimafia e devo potermi avvalere della prerogativa di chiamare le cose con il loro nome, visto che sono in Parlamento per questa ragione. Noi Cinque stelle siamo contro l'immunità su arresti e intercettazioni, qui parliamo di insindacabilità delle opinioni, che è un'altra cosa». Il caso Giarrusso-Greco non è l'unico scontro sulla mafia, con accuse reciproche di contiguità, fra Pd e Cinque stelle.
A parti inverse, il capogruppo M5S alla Regione Lazio Davide Barillari ha querelato nei mesi scorsi il senatore Stefano Esposito, che lo aveva definito un “colluso inconsapevole” con i clan di Ostia. E in questa circostanza sono stati i grillini a chiedere al parlamentare democratico di rinunciare all'immunità . Non mancano poi casi di esponenti Cinque stelle intenzionati a non usare lo “scudo” nemmeno sulle opinioni espresse. Dopo gli attacchi al Pd sul caso Tempa Rossa, il premier Matteo Renzi ha annunciato querele e chiesto ai grillini di non ricorrere all'insindacabilità ma di farsi processare. «Siamo pronti a rinunciare a qualsiasi tutela e a presentarci in Tribunale perché siamo comuni cittadini, non abbiamo bisogno di salvacondotti o privilegi» la risposta. Un paio d'anni fa, invece, a far sapere che non l'avrebbe usata era stato il parlamentare Massimo De Rosa , denunciato per aver accusato alcune deputate Pd di essere state elette unicamente per le loro abilità nel sesso orale.
Un addebito che è costato al commissario dell'Antimafia Mario Giarrusso una querela per diffamazione aggravata, adesso approdata in Senato: il parlamentare Cinque stelle ha infatti chiesto l'“immunità” per quelle parole, ovvero che siano riconosciute insindacabili dall'Aula di Palazzo Madama, fermando così il procedimento penale. Una vicenda a suo modo esemplificativa dello scontro fra grillini e democratici sul tema della legalità, considerato che a denunciare Giarrusso è stata Maria Greco, deputata Pd e sindaco di Agira. Proprio nel paesino in provincia di Enna, nel corso di un comizio per le comunali dello scorso anno (ancora visibile sul blog di Grillo), il senatore del M5S attaccò il Pd locale , i cui principali esponenti erano affacciati ai balconi del circolo, a pochi metri di distanza dal palco.
A motivare l'attacco, la presenza di osservatori definiti dal parlamentare “molto qualificati”: un dipendente comunale (indicato da Giarrusso come “tesserato Pd”) arrestato anni prima per favoreggiamento mentre si trovava insieme al latitante Umberto Di Fazio, ritenuto il reggente del clan Santapaola di Catania, e il potente Mirello Crisafulli, storico esponente del Pd ennese, non ricandidato dal partito alle ultime elezioni dopo essere stato inserito fra gli “impresentabili” per un incontro anni addietro con un padrino della zona (lasciando il suo posto a Montecitorio proprio a Maria Greco, sua fedelissima).
Solo che Crisafulli ha poi smentito di essere stato su quel balcone, mentre a carico del dipendente comunale - malgrado una condanna per porto illegale di armi, quella per favoreggiamento (2 anni, condonati) e una denuncia per traffico di stupefacenti - non risultano condanne per reati di mafia. Nella sua memoria difensiva Giarrusso ha chiesto l'archiviazione oppure che le sue parole siano ritenute insindacabili, in quanto espresse nell'esercizio delle funzioni parlamentari.
A sostegno della sua tesi il senatore ha anche depositato una interrogazione presentata lo scorso febbraio al ministro dell'Interno Angelino Alfano sulla vicenda, per chiedere l'invio di una commissione d'accesso che verifichi la presenza di eventuali infiltrazioni mafiose. Troppo tardi, però, secondo il gip: essendo passati nove mesi dal comizio incriminato, per il giudice non c'era più “il necessario legame di ordine temporale tra l'attività parlamentare e quella esterna”. E così ha trasmesso gli atti a Roma. Adesso saranno i colleghi del senatore Cinque stelle a dover giudicare se stoppare il procedimento penale o farlo andare avanti: prima quelli della Giunta delle immunità (di cui peraltro Giarrusso fa parte) e poi l'Aula. «Per correttezza io non parteciperò alle riunioni della Giunta sul mio caso, lo farò solo per essere ascoltato e dare la mia versione dei fatti» afferma l'onorevole.
Da parte sua, la deputata dem Greco che lo ha querelato non fa un passo indietro: «Il Pd è una famiglia numerosa e uno qualche problema con la giustizia lo può aver avuto, ma da qui ad attribuire una patente di disonestà e addirittura di mafia a tutti per una persona condannata per favoreggiamento... Non capisco piuttosto perché Giarrusso vuole ricorrere all'immunità: rinunci e vediamo cosa stabilisce il giudice». Controreplica: «Sono un commissario dell'Antimafia e devo potermi avvalere della prerogativa di chiamare le cose con il loro nome, visto che sono in Parlamento per questa ragione. Noi Cinque stelle siamo contro l'immunità su arresti e intercettazioni, qui parliamo di insindacabilità delle opinioni, che è un'altra cosa». Il caso Giarrusso-Greco non è l'unico scontro sulla mafia, con accuse reciproche di contiguità, fra Pd e Cinque stelle.
A parti inverse, il capogruppo M5S alla Regione Lazio Davide Barillari ha querelato nei mesi scorsi il senatore Stefano Esposito, che lo aveva definito un “colluso inconsapevole” con i clan di Ostia. E in questa circostanza sono stati i grillini a chiedere al parlamentare democratico di rinunciare all'immunità . Non mancano poi casi di esponenti Cinque stelle intenzionati a non usare lo “scudo” nemmeno sulle opinioni espresse. Dopo gli attacchi al Pd sul caso Tempa Rossa, il premier Matteo Renzi ha annunciato querele e chiesto ai grillini di non ricorrere all'insindacabilità ma di farsi processare. «Siamo pronti a rinunciare a qualsiasi tutela e a presentarci in Tribunale perché siamo comuni cittadini, non abbiamo bisogno di salvacondotti o privilegi» la risposta. Un paio d'anni fa, invece, a far sapere che non l'avrebbe usata era stato il parlamentare Massimo De Rosa , denunciato per aver accusato alcune deputate Pd di essere state elette unicamente per le loro abilità nel sesso orale.
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