Abbiamo le prove: nessun paese ammazza i suoi talenti come l'Italia
I dati dello Human Capital Index scattano una fotografia impietosa della nostra realtà: sprechiamo un quarto del nostro capitale umano, poco occupato e mal pagato. E intanto blateriamo di genio italico e diamo la colpa agli altri dei nostri guai
29 Giugno 2016 - 11:06
Ci sono dati che, messi nero su bianco, fanno male. E fa ancora più male che, di fronte a questi dati, non ci sia alcuna reazione da parte di chi straparla di conflitto generazionale a ogni piè sospinto, anche quando non sussiste granché, come nel caso della Brexit. I dati sono quelli dello Human capital index, classifica sulla valorizzazione del capitale umano che il World Economic Forum pubblica ogni anno. L’edizione 2016 è uscita il 27 giugno scorso e la fotografia che scatta dell’Italia è impietosa.
Siamo il 34esimo Paese su 130 per investimento in capitale umano e nemmeno sarebbe male, messa così. Il problema, però, è che davanti a noi ci sono più o meno tutte le economie mature del pianeta. Ci sono Finlandia, Norvegia e Svizzera, Giappone, Svezia, Nuova Zelanda, Danimarca, Olanda, Canada e Belgio, che occupano le prime dieci posizioni. C’è la Germania, che è undicesima. C’è la Francia, diciassettesima, il Regno Unito, diciannovesimo, gli Stati Uniti d’America, ventiquattresimi. Ci sono Ungheria, Cipro, Polonia e Ungheria. Poi ci siamo noi. E alle nostre spalle, la disonorevole compagnia di Spagna, Grecia e Portogallo.
Soprattutto e non è una sorpresa, quando parliamo di partecipazione dei giovani alla forza lavoro e di disoccupazione giovanile dove siamo fanalino di coda globale, non solo europeo: per la precisione, 123esimi e 122esimi su 130. Per la cronaca, siamo anche uno dei peggiori paesi al mondo (119esimi) per la formazione sul lavoro. Risultato? Buttiamo giù per lo sciacquone un mare di talento e creatività
Il problema è che partiamo bene, secondo il World Economic Forum. Siamo diciottesimi al mondo e sprechiamo “solo” l’8% del nostro capitale umano tra gli zero e i quattordici anni. Merito di un’istruzione primaria universale, pubblica, con alti tassi di scolarizzazione. Certo, sulla qualità qualcuno potrebbe avere da obiettare, ma le fondamenta sono buone.
I problemi arrivano dopo. Soprattutto e non è una sorpresa, quando parliamo di partecipazione dei giovani alla forza lavoro e di disoccupazione giovanile dove siamo fanalino di coda globale, non solo europeo: per la precisione, 123esimi e 122esimi su 130. Per la cronaca, siamo anche uno dei peggiori paesi al mondo (119esimi) per la formazione sul lavoro. Risultato? Buttiamo giù per lo sciacquone un mare di talento e creatività. Il 25%, secondo il World Economic Forum, che si prende la briga di misurarlo. E lo facciamo mentre blateriamo all’universo di genio italico, di Leonardo e Michelangelo e di altre vanaglorie assortite, rigorosamente risalenti a qualche secolo fa.
E lo facciamo, soprattutto, mentre sviliamo il lavoro creativo, pagando i professionisti poco e male, quando li paghiamo, come denuncia l’ennesima campagna per un equo compenso delle professioni intellettuali, hashtag #leideesipagano. Mentre il rapporto Unioncamere 2015 mette nero su bianco che, per crescere, le imprese italiane dovrebbero sostenere «le reti d’impresa che ibridano la manifattura col design, con la creatività, con la cultura produttiva che tutto il nostro territorio possiede». Parole, parole, parole. Tanto è sempre colpa di qualcun altro.
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