giovedì 30 giugno 2016

PRIVILEGI

L’onorevole insulta e poi si assolve da solo

Per centinaia di volte le Camere hanno bloccato processi per oltraggio. 
Un ulteriore regalo che la Casta si fa. Ma la Corte costituzionale spesso non è d’accordo. E annulla quelle decisioni 

L’onorevole insulta e poi si assolve da solo
Privilegi economici, ma non solo. A rendere meno dura la vita degli onorevoli non ci sono soltanto i benefit come i viaggi gratis o l’assistenza sanitaria integrativa, raccontati da “l’Espresso” . Grazie alle generose auto-assoluzioni che la Casta si regala, sembra infatti essere contemplata anche una certa “libertà” di offesa che sfiora l’impunità. Qualche esempio? «La Kyenge ha le sembianze di un orango», «i pm del pool di Mani pulite sono degli assassini», «Napolitano è indegno del suo ruolo», «il tricolore lo uso solo per pulirmi il culo», «Di Pietro mi fa orrore»: tutte queste espressioni sono state ritenute assolutamente legittime e non processabili, anche quando i diretti interessati si erano rivolti a un tribunale per vedersi riconosciuta giustizia. Un abuso non così raro, stando alle sentenze con cui la Consulta ha invalidato queste decisioni: su 666 delibere di insindacabilità votate nella Seconda Repubblica, ha ricostruito “l’Espresso”, ne sono state annullate 88, quasi una su sette.

Affinché l’incarico possa essere esercitato il più liberamente possibile, la Costituzione stabilisce che «i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni». Per questa ragione, se viene querelato o citato in giudizio, un deputato o senatore può chiedere l’immunità: il giudice trasmette le carte alla Camera di appartenenza, che stabilisce se c’è un nesso effettivo fra le frasi pronunciate fuori dal Palazzo e il mandato parlamentare. Se è così, il processo si estingue. Peccato che questa fondamentale garanzia democratica si sia spesso trasformata in un espediente per insultare senza pagare le conseguenze.

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PRIMATE E PRIMATI

L’ultimo caso riguarda Roberto Calderoli, che in un comizio nel 2013 paragonò Cécile Kyenge a un orango. Diffamazione con l’aggravante dell’istigazione all’odio razziale, per la Procura di Bergamo; diffamazione semplice, secondo l’Aula del Senato, che non ha trovato alcunché di discriminatorio nell’accostamento fra un primate e il ministro di origine congolese: soltanto «un’espressione forte, fatta esclusivamente come battuta ad effetto». Con questo escamotage l’esponente leghista si è salvato: la Kyenge non aveva sporto querela e il processo si reggeva unicamente sull’accusa di razzismo, per il quale si procede d’ufficio. Quindi niente razzismo, niente processo. Ma per Calderoli rischia di essere una vittoria di Pirro: ritenendola un’invasione di campo, il tribunale orobico ha fatto ricorso, sostenendo che la qualificazione giuridica di un fatto spetta alla magistratura, non al Parlamento. La Consulta ha ammesso l’istanza e ora, se annullerà la delibera, il procedimento penale ripartirà. Esattamente come accaduto a Francesco Storace, che nel 2007 sul suo sito definì Giorgio Napolitano «indegno di una carica usurpata a maggioranza» per «disdicevole storia personale», «palese e nepotistica condizione familiare» ed «evidente faziosità istituzionale»: solo «una forte critica politica, discutibile sul piano dello stile ma priva di rilevanza giuridica» a detta del Senato. Non però per la Corte costituzionale, che anche in questa circostanza ha ritenuto illegittimo il verdetto (come chiedeva il tribunale di Roma) e tolto l’immunità all’ex governatore. Condannato a sei mesi in primo grado per vilipendio, Storace è stato appena assolto in appello.

Nulla rispetto a un recordman come Vittorio Sgarbi, capace di collezionare oltre 150 denunce, quasi sempre finite nel nulla per effetto dello scudo che i colleghi di Montecitorio gli hanno concesso. Fin troppo generosamente per la Corte costituzionale, che in 27 casi gliel’ha tolta. Fra questi, l’accusa a Massimo D’Alema di aver intascato mazzette, a Ilda Boccassini di essere responsabile della morte del procuratore Coiro, a Giancarlo Caselli di aver «liberato mafiosi e arrestato innocenti» e ai pm del pool di Mani pulite di essere «assassini»: tutte vicende per cui Sgarbi, senza più immunità, è stato poi condannato in via definitiva.


TOGHE ROTTE

Proprio i magistrati sono stati d’altronde fra i principali bersagli. Silvio Berlusconi, che le aule di giustizia le ha frequentate non poco, sarebbe stato ancora più assiduo se il Parlamento non avesse stoppato dieci cause per diffamazione intentate nei suoi confronti, per lo più da giudici e pm. Nel 2015, dopo il ricorso sollevato dai giudici di Viterbo e Roma davanti alla Consulta, anche l’ex premier ha però dovuto mettere mano al portafogli: per risarcire Antonio Di Pietro. «Mi fa orrore, è il peggio del peggio, ha mandato italiani in galera senza prove» disse di lui durante la campagna elettorale del 2008. Il leader dell’Idv non gradì e querelò. Ma per i deputati di Pdl e Lega (che pochi mesi dopo avrebbero sostenuto pure la tesi secondo cui Berlusconi era davvero convinto che Ruby fosse la nipote di Mubarak) non c’era oltraggio: si trattava solo di «opinioni politiche allo scopo di distrarre i cittadini dall’orientare il proprio consenso».

Maurizio Gasparri, invece, ha ricevuto 20 assoluzioni dai colleghi e fra le quattro annullate dalla Corte costituzionale ci sono anche quelle che gli sono costate una condanna per aver definito il pm Woodcock «un giudice irresponsabile» e «un personaggio boccaccesco» che «spara accuse a vanvera». Come successo a Giulio Andreotti per le offese rivolte al giudice Mario Almerighi («un pazzo», «un falso testimone») dopo la sua deposizione al processo di Palermo.


DI TUTT’ALTRA LEGA

Che questo sistema si presti ad abusi lo ha chiarito anche la Corte di europea dei diritti dell’uomo, che in varie occasioni, davanti ai ricorsi dei diffamati impossibilitati ad avere giustizia, ha condannato l’Italia sostenendo che «l’immunità non può estendersi oltre l’attività parlamentare». Come dire: cari onorevoli, non nascondetevi dietro i privilegi quando non vi spettano e affrontate i processi come normali cittadini. Impunità a parte, le argomentazioni utilizzate sono comunque degne di nota.

L’ex Ds Fabio Mussi, parlando ad alta voce alla buvette con un forzista, diede dello “stronzo” a Cesare Previti e fu citato in giudizio perché un cronista aveva riportato le sue parole. Per Montecitorio era però un pensiero reso nell’esercizio delle funzioni parlamentari: «Lo scambio di opinioni su questioni di rilievo politico può contenere giudizi anche crudi». In passato anche il ruvido Carroccio del periodo celodurista è stato graziato a più riprese dal centrosinistra dopo la rottura con Berlusconi.

Come quando assolse Mario Borghezio, imputato per diffamazione e minaccia per aver definito il segretario comunale di Novara «il solito terronaccio paracadutato dal governo di Roma»: nessun oltraggio ma semplicemente «una coerente difesa degli interessi del partito». Va ascritto al centrodestra, invece, il salvataggio per le celebri e non proprio affettuose parole di Umberto Bossi verso la bandiera italiana: «Il tricolore lo uso soltanto per pulirmi il culo». Condannato a un anno e quattro mesi, in appello il Senatùr giocò il jolly: chiese l’immunità e la ottenne. Motivazione: la sua era una «opinione politica» perché il verde, bianco e rosso «rappresentava il simbolo dello Stato centralista ed oppressore delle formazioni locali».

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