martedì 28 giugno 2016

Di Battista vuole l’uscita, Di Maio no. Nel dubbio M5S si blinda con Farage

M5S
Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista a margine della festa del movimento cinque stelle al Circo Massimo, Roma, 12 ottobre 2014. 
ANSA/ANGELO CARCONI
L’attacco a testa bassa di Di Battista contro il premier per non parlare della confusione tra i grillini sull’Europa. Nessuno chiede al leader di Ukip di lasciare Strasburgo e i grillini votano contro la risoluzione del Parlamento Europeo per accelerare la Brexit
 
Sono impazziti più di una maionese impazzita. Più in confusione di Farage, il leader di Ukip creatore della Brexit che nel post-voto è costretto a rinnegare un suo slogan, che «i 350 milioni di sterline che ogni settimana andavano alla Ue adesso andranno alla scuola o alla sanità pubblica del Regno». Luigi Di Maio fa il poliziotto buono: «Mai messa in discussione la permanenza italiana nella Ue, semmai portiamo avanti il referendum sull’euro», sapendo benissimo che il distinguo è di per sé contraddittorio. Alessandro Di Battista quello cattivo e parte a testa bassa in aula contro il premier Renzi – «arrogante e borioso abituato ormai ai fischi» – come se l’oggetto dell’informativa fosse il governo invece che la Brexit.
Un errore troppo evidente per essere involontario e prova provata, invece, di come i 5 Stelle siano in campagna elettorale permanente: prossima tappa il referendum sulle riforme; meta finale le politiche e la conquista di palazzo Chigi. I loro colleghi europei, i 17 eletti nel 2014, sono messi peggio di tutti: se Direttorio e Staff comunicazione a Roma decidono la linea seduta stante, a Strasburgo la linea da seguire arriva con qualche ritardo. L’ultimo di loro che ha parlato, giovedì sera, David Borrelli disse che «siamo in Europa per cambiarla dall’interno dell’istituzione».
Il suo intervento è finito sul blog di Grillo ed è successo un macello di commenti furiosi («fuori dalla Ue subito, questa è la linea condivisa con la base e basta immigrati» il senso condiviso). Il paradosso è che oggi i 5 Stelle di Strasburgo non premono per l’attuazione della Brexit (hanno votato contro la risoluzione del Parlamento Europeo che chiedeva di velocizzare l’uscita della Gran Bretagna) e non chiedono l’espulsione del loro socio europeo Nigel Farage perché senza i 7 eletti di Ukip i Cinque stelle restano senza gruppo parlamentare, senza potere di presentare leggi ma soprattutto senza i rimborsi al gruppo. Che sono tanti soldi.
Il nodo Europa è in uno di quelli su cui Grillo e la Casaleggio non sanno che pesci prendere: inseguire le sirene dei duri e puri nostalgici dei Vaffa e #fuoridatutto che rivendicano: «Nessun inciucio in Europa»; adeguarsi allo stile «rivoluzione gentile», quella che ha issato Appendino e Raggi alla guida di Torino e Roma, e ragionare sul più istituzionale «modificare l’Europa dall’in – terno». L’attacco in aula di Di Battista è figlio di questa prolungata indecisione. C’era un gentlemen agreement tra i gruppi: visto il poco tempo a disposizione – doppia comunicazione Senato-Camera, poi il Quirinale e il volo a Berlino nel primo pomeriggio – il premier ha promesso di stare nei dieci minuti e ha lasciato la replica prima di tutto alle opposizioni. In fondo si doveva discutere sulla posizione del governo di fare veloci con la realizzazione della Brexit e di chiedere a Bruxelles un netto cambio di passo, più crescita e meno austerity.
Ma Di Battista, scalpitante di prendere la parola, è partito a testa bassa attaccando Renzi «rottamatore della vergogna e del senso del pudore», «arrogante e borioso», «ipocrita» e carente di «un po’di senso dell’umiltà». Una raffica di insulti con una sola proposta: «Lei in Europa una sola cosa deve dire: che serve il reddito di cittadinanza». E la solita minaccia: «Signor Presidente del Consiglio, le è arrivato un avviso di sfratto. Faccia gli interessi del popolo altrimenti presto saremo noi a farli». Una settimana fa in conferenza stampa al Senato il Dibba s’era espresso così: «Renzi, adesso fai quello che diciamo noi altrimenti prendi un sacco di legnate». Renzi ascolta indifferente dal banco del governo. Di Battista lo provoca: «Che fa , mi querela? Meglio, è una medaglia». Fa tutto da solo, il Dibba. «Rinuncio all’immunità» dirà dopo. Sa perfettamente che ogni parlamentare in aula è protetto dall’immunità. È chiaro che una scena del genere può servire solo ad uso interno 5 Stelle. Ad alzare la polvere rovesciandola sul campo avverso perché nel proprio non si sa chi tiene la palla. Di fatti i 7 minuti di intervento integrale sono finiti dopo poco sul blog di Grillo col titolo: «La sovranità appartiene al popolo».  Merce buona per esaltare e sfamare una base 5 Stelle che da giorni sullo stesso blog chiede chiarezza su Europa sì o no. Qualcosa che bilanci, nelle stesse ore, l’intervista che Di Maio ha rilasciato a El Pais in cui dice: «M5S è l’ultima delle minacce per la Ue».
In questa terra di mezzo in cui stalla il Movimento di Grillo – anche per altri temi come immigrazione e diritti civili – spicca anche il caso Farage. Il leader di Ukip è il vincitore assoluto del Brexit ed è anche alleato di Grillo a Strasburgo dove condividono il gruppo parlamentare. Coerenza vorrebbe che Farage avesse già lasciato il Parlamento dell’odiata Europa. Invece è ancora lì e risponde con un «no comment» a chi gli chiede quando lui e i suoi eletti pensano di lasciare l’incarico. I 5 Stelle si sono ben guardati dal chiedere di lasciare, perderebbero il gruppo e anche i finanziamenti. Provvedono gli europarlamentari Pd Toia e Sassoli ad evidenziare la contraddizione e a pretendere coerenza. Ma lo strillone Farage ha da qualche giorno abbassato la voce. E i 5 Stelle preferiscono parlare d’altro.

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