Le virtù democratiche della sfiducia digitale
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Vero: il titolo della mia Mappa dello scorso 14 gennaio evoca “la sfiducia digitale”, particolarmente elevata fra i giovani-adulti (25-35 anni) e, soprattutto, fra coloro che utilizzano la rete come “mezzo” di partecipazione politica. Quanto alla sfiducia nelle istituzioni e nei partiti, è un dato consolidato. Anche (e di più) fra i militanti informatici. I Cives.net.
D’altra parte, i partiti - per primi - hanno fatto e continuano a fare molto per meritarsi tanta sfiducia. E per indebolire il consenso verso la democrazia rappresentativa. Che, nel corso del tempo, ha subìto una metamorfosi profonda. Da ultimo, si è trasformata in “democrazia del pubblico” (per citare Bernard Manin). Personalizzata e mediatizzata. Im-mediata. Istantanea.
Leader e popolo, pardon, pubblico, uno di fronte all’altro. Ma a senso unico. Perché il pubblico non può re-agire. Contro questo modello muove la “democrazia della rete”. Per usare le parole di Nadia Urbinati in un recente volume (del Mulino): come “reazione della democrazia in-diretta, o via web, contro quella indiretta” (mediata dai partiti e dai giornalisti). Anche se i dubbi sull’effettiva capacità della democrazia in-diretta di realizzare i suoi fini restano. Come mostra, da ultimo, il referendum del M5S sull’abolizione del reato di clandestinità. Convocato e votato in fretta, senza possibilità di discussione e di confronto. Né di verificarne con rigore il risultato. Il che rivela i limiti dell’Agorà trasferita nella rete. A cui non tutti possono accedere. Perché oltre un terzo della popolazione non frequenta ancora la rete. Dove, inoltre, discutere e confrontarsi risulta complicato. Senza dimenticare il problema, non risolto, dei rapporti fra la rete e il potere - economico e politico (una questione su cui si è esercitato lo sguardo scettico e acuminato di Evgeny Morozov).
La rete, dunque, non è la causa del malessere che affligge la democrazia rappresentativa. Raffigurato da Colin Crouch, con una formule suggestive, ma poco “definitive”: la “post-democrazia”. Che descrive (e stigmatizza) una situazione simile alla “democrazia del pubblico”. Senza partecipazione. Ridotta a un rito. Tuttavia, il “malessere democratico” persiste e, anzi, si acuisce. Nonostante la democrazia in-diretta, fondata sulla e dalla rete. Che, dunque, non ne è la causa, ma neppure la soluzione.
Tuttavia, non era mia intenzione riflettere sul rapporto fra democrazia e rete, sulla democrazia-della-rete. Ma, più semplicemente, interrogarmi sulle ragioni che alimentano la sfiducia – non solo politica - nella rete. La mia risposta, al proposito, è duplice.
In primo luogo: la rete non favorisce relazioni “empatiche”. La “community” non coincide con la “comunità”. In quanto non prevede contiguità, compresenza, coabitazione. I navigatori della rete (me compreso) intrattengono molti contatti – frequenti - ma restano fisicamente “lontani” fra loro. Sempre insieme e sempre più soli. Peraltro, la rete favorisce l’incontro fra amici e seguaci, attira Like e Follower. Ma non promuove il dialogo, il confronto fra persone di diversa opinione.
In secondo luogo, la “sfiducia” – politica - in rete si alimenta perché Internet è divenuto un terreno di lotta “contro” la politica - tradizionale. Contro quel che resta dei partiti. Perché, inoltre, sulla rete e nei Social Network, come ho già detto, la comunicazione trasferisce sentimenti e valutazioni in im-mediate. Senza mediazioni. E, dunque, più esplicite.
Anche per questo la “sfiducia politica” è divenuta una risorsa della competizione politica. Ne ha fatto uso Grillo. Ma anche Renzi, agitando la clava – retorica – della “rottamazione.
Tuttavia, la sfiducia non è, necessariamente, un “vizio”. In particolare, rispetto alla politica e la democrazia. Nella tradizione liberale, al contrario, costituisce una virtù “pubblica”. Come annota Benjamin Constant (nel 1829): “Ogni buona Costituzione è un atto di sfiducia”. In quanto deve tutelare e garantire i cittadini dalle ingerenze dello Stato e degli altri poteri. Così la Rete, insieme ad altre forme di mobilitazione e di associazionismo, favorisce la vigilanza civica nei confronti del potere. E contribuisce a promuovere, quella che Pierre Rosanvallon definisce la “controdemocrazia”. È la “democrazia della sorveglianza”, attraverso cui la società, nell’era della sfiducia, esercita poteri di “controllo e di correzione”, più che di “governo e direzione”. E questo è il suo limite.
Se poi non si riesce ad essere felici, bisogna farsene una ragione. Non si può pretendere più sfiducia (digitale) e, insieme, più democrazia, senza pagare qualche prezzo.
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