sabato 18 gennaio 2014

Un'analisi lucida e razionale di Ilvo Diamante. Da non perdere. Da leggere. Ad esclusione dei grillini che da veri ignoranti pensano ancora che la democrazia coincida con la rete. Poveri diavoli. Se leggessero almeno qualche buon autore citato da Diamanti potrebbero imparare qualcosa. Ma oltre il blog di Grillo el'intresse che hanno di poltrone permette loro una normale applicazione nella lettura? Difficile. Che é fesso solitamente rimane fesso.

Bussole

Le virtù democratiche della sfiducia digitale

Non è la prima volta che mi capita. Di essere letto in senso contrario o, almeno, diverso dalle intenzioni. Capiterà ancora. Eppure mi ha sorpreso un poco di vedermi, da qualche giorno, catalogato fra i nemici della rete da alcuni specialisti del settore. Perché  fatico a entrare in una parte che mi è estranea.

Vero: il titolo della mia Mappa dello scorso 14 gennaio evoca “la sfiducia digitale”, particolarmente elevata fra i giovani-adulti (25-35 anni) e, soprattutto, fra coloro che utilizzano la rete come “mezzo” di partecipazione politica. Quanto alla sfiducia nelle istituzioni e nei partiti, è un dato consolidato. Anche (e di più) fra i militanti informatici. I Cives.net.

D’altra parte, i partiti - per primi - hanno fatto e continuano a fare molto per meritarsi tanta sfiducia. E per indebolire il consenso verso la democrazia rappresentativa. Che, nel corso del tempo, ha subìto una metamorfosi profonda. Da ultimo, si è trasformata in “democrazia del pubblico” (per citare Bernard Manin). Personalizzata e mediatizzata. Im-mediata. Istantanea.

Leader e popolo, pardon, pubblico, uno di fronte all’altro. Ma a senso unico. Perché il pubblico non può re-agire. Contro questo modello muove la “democrazia della rete”. Per usare le parole di Nadia Urbinati in un recente volume (del Mulino): come “reazione della democrazia in-diretta, o via web, contro quella indiretta” (mediata dai partiti e dai giornalisti). Anche se i dubbi sull’effettiva capacità della democrazia in-diretta di realizzare i suoi fini restano. Come mostra, da ultimo, il referendum del M5S sull’abolizione del reato di clandestinità. Convocato e votato in fretta, senza possibilità di discussione e di confronto. Né di verificarne con rigore il risultato. Il che rivela i limiti dell’Agorà trasferita nella rete. A cui non tutti possono accedere. Perché oltre un terzo della popolazione non frequenta ancora la rete. Dove, inoltre, discutere e confrontarsi risulta complicato. Senza dimenticare il problema, non risolto, dei rapporti fra la rete e il potere - economico e politico (una questione su cui si è esercitato lo sguardo scettico e acuminato di Evgeny Morozov).

La rete, dunque, non è la causa del malessere che affligge la democrazia rappresentativa. Raffigurato da Colin Crouch, con una formule suggestive, ma poco “definitive”: la “post-democrazia”. Che descrive (e stigmatizza) una situazione simile alla “democrazia del pubblico”. Senza partecipazione. Ridotta a un rito. Tuttavia, il “malessere democratico” persiste e, anzi, si acuisce. Nonostante la democrazia in-diretta, fondata sulla e dalla rete. Che, dunque, non ne è la causa, ma neppure la soluzione.

Tuttavia, non era mia intenzione riflettere sul rapporto fra democrazia e rete, sulla democrazia-della-rete. Ma, più semplicemente, interrogarmi sulle ragioni che alimentano la sfiducia – non solo politica - nella rete.   La mia risposta, al proposito, è duplice.

In primo luogo: la rete non favorisce relazioni “empatiche”. La “community” non coincide con la “comunità”. In quanto non prevede contiguità, compresenza, coabitazione. I navigatori della rete (me compreso) intrattengono molti contatti – frequenti - ma restano fisicamente “lontani” fra loro. Sempre insieme e sempre più soli. Peraltro, la rete favorisce l’incontro fra amici e seguaci, attira Like e Follower. Ma non promuove il dialogo, il confronto fra persone di diversa opinione.

In secondo luogo, la “sfiducia” – politica - in rete si alimenta perché Internet è divenuto un terreno di lotta “contro” la politica - tradizionale. Contro quel che resta dei partiti. Perché, inoltre, sulla rete e nei Social Network, come ho già detto, la comunicazione trasferisce sentimenti e valutazioni in im-mediate. Senza mediazioni. E, dunque, più esplicite.
Anche per questo la “sfiducia politica” è divenuta una risorsa della competizione politica. Ne ha fatto uso Grillo. Ma anche Renzi, agitando la clava – retorica – della “rottamazione.

Tuttavia, la sfiducia non è, necessariamente, un “vizio”. In particolare, rispetto alla politica e la democrazia. Nella tradizione liberale, al contrario, costituisce una virtù “pubblica”. Come annota Benjamin Constant (nel 1829): “Ogni buona Costituzione è un atto di sfiducia”. In quanto deve tutelare e garantire i cittadini dalle ingerenze dello Stato e degli altri poteri. Così la Rete, insieme ad altre forme di mobilitazione e di associazionismo, favorisce la vigilanza civica nei confronti del potere. E contribuisce a promuovere, quella che Pierre Rosanvallon definisce la “controdemocrazia”. È la “democrazia della sorveglianza”, attraverso cui la società, nell’era della sfiducia, esercita poteri di “controllo e di correzione”, più che di “governo e direzione”.  E questo è il suo limite.

Se poi non si riesce ad essere felici, bisogna farsene una ragione. Non si può pretendere più sfiducia (digitale) e, insieme, più democrazia, senza pagare qualche prezzo. 
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