Civati e i referendum, cronaca di un flop annunciato
Le firme raccolte non sono sufficienti, a causa di una carenza organizzativa sottovalutata in partenza. Ma Possibile porta comunque a casa qualcosa…
Le difficoltà erano note dall’inizio e sono quelle che preoccupano sempre i promotori dei referendum: la necessità di un’organizzazione capillare, la coincidenza del clou della campagna per la raccolta delle firme con i mesi estivi, la scarsa copertura mediatica, la difficoltà a mobilitare le persone. Anche quando i temi sono tra quelli che più hanno suscitato clamore nei mesi precedenti (Jobs Act, Buona Scuola, Italicum, trivellazioni a mare). Eppure, il traguardo delle 500mila firme è stato raggiunto più volte in passato, tanto da indurre qualcuno a chiedere perfino di innalzare quella soglia, per evitare l’organizzazione di consultazioni referendarie già predestinate a non raggiungere il numero di votanti necessario a sancirne la validità.
Pippo Civati si è fermato ben prima delle urne, non riuscendo nemmeno a presentare i moduli firmati in Cassazione entro oggi, termine fissato dalla legge. Possibile nasce così non certo sotto i migliori auspici, mancando il suo primo obiettivo politico. Perché, dunque, questa scelta?
C’è stata una sottovalutazione sul piano organizzativo? “Eravamo convinti di poterci riuscire”, conferma ancora oggi Thomas Castangia, componente del comitato organizzativo del movimento civatiano. Riuscire, però, non significa solo raccogliere materialmente le firme valide, ma anche sopperire alle difficoltà nel rapporto con i comuni e far arrivare i moduli in tempo per la consegna in Cassazione. Esattamente i problemi riscontrati da Possibile.
Qualche banchetto non basta: servono un’organizzazione capillare e persone con un’adeguata esperienza alle spalle (la partecipazione del gruppo civatiano alla raccolta firme anti-Porcellum nel 2011 fu marginale). E non guasterebbe anche qualche testimonial importante. Tutto ciò è mancato, determinando l’insuccesso di oggi.
Come scrive lo stesso Civati nel suo blog, però, “il risultato spesso sta nel percorso e non nell’obiettivo”. E l’invito che rivolge ai suoi è chiaro: “Dobbiamo fissare nelle nostre menti i volti delle centinaia di migliaia di persone che sono venute a firmare. Perché le rivedremo tutte nella prossima battaglia”. Più che ai referendum in sé, quindi, la campagna di questi mesi è servita a dare un lancio a un movimento (“altrimenti avremmo solo perso due mesi”, ammette Castangia) il cui futuro è tutto da scrivere.
I moduli raccolti costituiscono anche un consistente database di contatti che – entro certi limiti, dettati dalla liberatoria sulla privacy – potranno essere utilizzati in futuro. Da questo punto di vista, è sintomatica la presenza tra i dati richiesti ai firmatari anche dell’indirizzo e-mail, in realtà non necessario per la convalida della sottoscrizione dei quesiti.
Ma i big data raccolti valgono – nell’idea dei civatiani – più dell’immagine del fallimento che inevitabilmente sarà trasmessa dai media tra oggi e domani, per poi sparire rapidamente, travolta da mille altri avvenimenti più importanti.
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