6/10/2014
Non solo Fiat, il governo punti al modello Luxottica
Invece di salari stabiliti per legge, meglio puntare sul welfare aziendale. In Italia già succede
Il sindacato italiano è arrivato al capolinea. Lo si dice da tempo e sempre è risorto dalle proprie ceneri, ma questa volta vengono a mancare i presupposti per una nuova rinascita. Il sondaggio di Nando Pagnoncelli pubblicato domenica dal Corriere della Sera mostra che la base di consenso è crollata non solo nell’opinione pubblica, e in chi non è rappresentato (i precari per esempio), ma tra gli stessi lavoratori dipendenti: i privati percepiscono i sindacati come coloro i quali hanno difeso gli interessi degli statali e dei pensionati e hanno ragione. La maggioranza degli iscritti, del resto, fa parte di queste due categorie. Come possono Cgil, Cisl e Uil trattare con gli imprenditori e con il governo accampando la pretesa di esprimere gli “interessi generali” dei lavoratori?
Quel sondaggio deve aver preoccupato la Confindustria che continua a legittimare le confederazioni del lavoro per legittimare anche la confederazione del capitale, ma ha mandato in sollucchero Matteo Renzi che ha convocato “la triplice”. L'incontro a Palazzo Chigi per certi versi è un omaggio al vecchio rituale consociativo, ma gli stessi sindacalisti temono che possa diventare una sorta di resa dei conti con il capo del governo che minaccia di introdurre il salario minimo e indica persino il modello contrattuale (accordi aziendali stile Fiat). Forse Renzi esagera, ma da politico astuto sa che questo è il momento di portare l’affondo. Per fare fuori i sindacati come interlocutori? Per renderli ininfluenti anche in fabbrica? O addirittura per spingerli nel burrone secondo le invettive della sinistra radicale? Vedremo, ma una cosa è certa: il sindacalismo deve ripensare se stesso.
I sindacalisti intelligenti sanno bene che con la globalizzazione non è più possibile trattare la redistribuzione del valore aggiunto tra salari e profitti su base nazionale. Dunque, la politica dei redditi o la concertazione che dir si voglia è finita, l’accordo Ciampi non è stato l'inizio di una nuova era, ma la fine della vecchia, il canto del cigno per il sindacato che trattava con Gianni Agnelli la scala mobile o con il governo il legame tra aumenti dei salari e dei prezzi. Lo ha capito la Cgil cominciando una deriva verso il “sindacato dei diritti’ lontano dalle tradizioni comuniste e socialiste. Ha stentato a prenderne atto la Cisl anche se con il tempo anch’essa ha recuperato l’antica vocazione di aziendalismo collaborativo.
La ricerca di un nuovo paradigma sta spingendo verso l’imitazione di alcuni modelli stranieri ognuno dei quali nasconde punti deboli che non risolvono la crisi del sindacato. Il modello francese al quale guarda chi vuole il salario minimo fissato per legge, non solo attribuisce al potere politico una priorità eccessiva nelle relazioni industriali, ma ripropone una distribuzione statalista dei redditi lontana dalla nostra tradizione e irrealistica nell’era globale. Colbertismo e giacobinismo restano l’alfa e l’omega della politica francese, non di quella italiana.
Più appetibile sembra il modello tedesco. Ma gli accordi stipulati nelle grandi imprese, tanto decantati per aver difeso posti di lavoro anche a scapito del salario, non sono concepibili senza la Mitbestimmung che non è solo una struttura di governante aziendale, ma una cultura e una pratica quotidiana con la quale vengono regolati i rapporti tra lavoratori e datori di lavoro anche sul piano giuridico. La questione è emersa nel dibattito sull'articolo 18: in Germania esiste il reintegro, ma il primato spetta all’accordo tra le parti e il giudice agisce come un arbitro il cui compito è stabilire che ciascuno si comporti in modo corretto. Non solo. Gli accordi Siemens e Volkswagen nascondo parecchi lati oscuri, per esempio proteggono solo i lavoratori tedeschi. Fanno parte, insomma, di una impostazione nazionalistica e corporativa che non rappresenta francamente un modello ideale (soprattutto per chi è uscito dal fascismo).
È sempre più sano tener distinte proprietà e gestione, così come lavoratori e “padroni’. È interessante, per capire come l’Italia abbia seguito un’altra strada, recuperare il dibattito all’Assemblea costituente quando venne respinto da De Gasperi così come da liberali e comunisti, il progetto di introdurre una sorta di cogestione presentato dalla sinistra socialista e dalla sinistra democristiana.
Se vogliamo trascurare la Cina dove il sindacato è presente in fabbrica ed è anche attivo, ma rappresenta la cinghia di trasmissione del partito, secondo la tradizione marxista-leninista, o gli Stati Uniti il cui modello aziendale, non solo sindacale, è difficilmente trapiantabile in Italia, a chi bisogna guardare? La Spagna che alla caduta del franchismo aveva preso l’Italia come punto di riferimento, introducendo per esempio lo Statuto dei lavoratori, più che rinnovarsi ha smantellato, sotto i colpi della crisi, il vecchio modello, creando quel che Karl Marx chiamava l’esercito industriale di riserva (un’elevata disoccupazione congiunturale e strutturale) per annientare il potere contrattuale e abbassare i salari.
Dunque, siamo davanti alla desertificazione sindacale? Non esattamente. Esiste infatti in nuce un modello nuovo che sta prendendo piede soprattutto nelle aziende di quel che viene chiamato il quarto capitalismo. È basato su una contrattazione che parte non dal conflitto, ma dalla partecipazione ai destini dell’azienda per ottenere in cambio che l’azienda partecipi alle condizioni di impiego della manodopera non solo interne, ma esterne. Facciamo un esempio concreto: l’accordo Luxottica.
L’azienda e le organizzazioni sindacali nel corso del 2009 hanno elaborato uno studio congiunto sui redditi e sul potere d’acquisto dei dipendenti e dei loro nuclei familiari, individuando bisogni e possibili ambiti di intervento. L’accordo sindacale firmato in dicembre, riconoscendo la necessità non più differibile di offrire un concreto sostegno al potere di acquisto dei dipendenti con forme di remunerazione non monetaria complementari a salari e premi di produzione, ha istituito il Comitato di governance.
Questo organo bilaterale di rappresentanza ha il compito di studiare e proporre, con l’ausilio di un comitato tecnico-scientifico di esperti, i progetti di welfare aziendale che non nasce come dono paternalistico - spiegano gli studiosi del centro Eninaudi di Torino e dell’Università di Milano che hanno creato i "Percorsi di secondo welfare" - ma dalla collaborazione tra management e lavoratori i quali, limitando gli sprechi e attenendosi alle regole della produzione, mirano a un surplus da reinvestire in welfare.
L’accordo è stato esteso a tutti i 70 mila dipendenti del gruppo, tenendo conto naturalmente delle realtà nazionali. Nel 2013 è stato rinnovato tenendo conto soprattutto dei giovani (prevede quindi corsi professionali e di inserimento in azienda). C’è dietro senza dubbio una cultura partecipativa, ma non corporativa.
È possibile, partendo dal basso, come sempre è avvenuto in Italia, costruire un sindacato per il quarto capitalismo. Il primo capitalismo, quello degli Agnelli e dei Pirelli che hanno costruito grandi aziende fordiste e fabbriche caserma, ha generato un sindacato conflittuale. Il secondo capitalismo, quello di stato, un sindacato in gran parte clientelare che ha usufruito di vantaggi e privilegi grazie al fatto che i contribuenti pagavano le perdite. Il terzo capitalismo è nato come risposta alle rigidità degli anni '70, lasciando fuori Cgil, Cisl e Uil dalle piccole aziende per le quali non vale nemmeno l'articolo 18. Il quarto capitalismo ha salvato la struttura manifatturiera dell'Italia nonostante la Grande Recessione, e gli va riconosciuto. Può diventare la molla della ripresa, ma anche un laboratorio formidabile di relazioni sociali. E il governo dovrebbe sostenerlo. Invece di salari stabiliti per legge, sarebbe meglio usare di più il fisco come strumento per incentivare l'impiego degli utili, gli investimenti, la partecipazione dei lavoratori ai risultati, il welfare aziendale. Peccato che un provincialismo sempre più diffuso spinga a cercare modelli stranieri, spesso vetusti, invece di guardare a quel che di nuovo accade in patria.
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