lunedì 7 ottobre 2013

Ma quando se ne andranno tutti lasciando rivivere questo paese.


STRATEGIE POLITICHE

I nove errori che hanno messo Silvio Berlusconi all'angolo

Partito verticista, troppi portavoce poco fedeli, i ministeri sbagliati, la guerra dei numeri. Tutti i passi falsi del Cav.

di Giulia Romiti
Certo Silvio Berlusconi è un lottatore, quando sembra messo all’angolo è capace di uscirne e, spesso, vincere ai punti. Stavolta, però, l’attacco è concentrico: non soltanto la condanna e, quindi, la decadenza da senatore, ma anche la scalata alla sua leadership nel Pdl, l’affronto dell’ex delfino Angelino Alfano.
Il Cavaliere ripete come un mantra a tutti i dirigenti che ha ricevuto in questi giorni che «i panni sporchi si lavano in famiglia», ma ormai il Pdl sta esplodendo, le ferite potranno sì rimarginarsi, ma è inevitabile che le cicatrici si continueranno a vedere per mesi, forse anni.
Se l’ex premier si è ritrovato in questa situazione, certo è anche colpa sua. Lo ha ammesso chiaramente, parlando con le colombe, alle quali ha puntualmente riferito: «Ho sbagliato io a fidarmi delle persone sbagliate, ho commesso degli errori». In verità gli sbagli non sono solo di oggi. Sono almeno due anni, infatti, che il Cavaliere ondeggia tra falchi e colombe, tra Daniela Santanché e Gianni Letta, trascinando situazioni che inevitabilmente prima o poi sarebbero dovute esplodere. Ecco allora i nove errori che hanno messo Silvio con le spalle al muro.

1- Partito verticista  con un primus inter pares

Il Popolo delle libertà, come tutte le creature berlusconiane, è stato sin dalla sua fondazione un movimento politico all’interno del quale la sintesi delle varie posizioni è sempre stata affidata a lui, il presidente.
Anche il momento normalmente riservato al confronto interno, cioè gli uffici di presidenza del partito, sono sempre stati dominati da lui. L’ordine del giorno, qualunque sia l’emergenza sulla quale i suoi membri sono chiamati a intervenire, è sempre lo stesso: relazione e intervento del presidente, confronto, sintesi e relazione finale del presidente. Era successo, per dire, anche lo scorso dicembre, quando metà partito voleva la crisi del governo di Mario Monti e metà no. «Vi ringrazio tutti per gli interventi, deciderò io», chiuse il vertice di Arcore un mese fa, quello nel corso del quale Fabrizio Cicchitto e Denis Verdini, il primo contrario alla crisi del governo di Enrico Letta e il secondo favorevole, arrivarono quasi alle mani. Il solo rischio che il ruolo di mediazione tra le posizioni possa venire meno nei prossimi mesi, dopo la decadenza e l’affidamento ai servizi sociali, ha fatto precipitare il livello del confronto.

2- Fitto contro Alfano, il Pdl senza minoranza 

Il Cavaliere, contrariamente a quanto gli rinfacciano, volle nominare per tempo un suo delfino. Comunicò la scelta nel luglio 2011, quando fu convocato in fretta e furia un congresso Pdl e l’attuale vicepremier venne indicato come segretario politico del movimento. Quel giorno, però, l’allora premier propose come metodo di nomina l’acclamazione. Nessun voto, nessuna spaccatura: solo applausi a scena aperta di tutti i delegati presenti.
La scelta dell’allora ministro della Giustizia, però, creò inevitabili fastidi in altri aspiranti alla leadership.
Uno su tutti, Raffaele Fitto, quasi coetaneo del segretario, con un curriculum più nutrito. Nacque subito una minoranza dentro al Pdl di falchi e delusi. Si fosse proceduto con un voto, senza acclamazione, forse la minoranza avrebbe fatto la minoranza, si sarebbe vista riconoscere la sua agibilità, la situazione non sarebbe crollata tutto d’un colpo. Dopo poco più di due anni la crepa è diventata una voragine, una scossa un terremoto. E ora l’ex governatore della Puglia ha sfidato apertamente il segretario, chiedendo un congresso. Che si sarebbe potuto tenere due anni fa.

3- L'ambiguità sul candidato premier

 Il caso di Angelino Alfano è scoppiato quasi un anno fa. Da quando qualcuno fece trapelare una battuta del Cavaliere – subito smentita dall’interessato – sul “quid” che sarebbe mancato, a suo dire, al segretario. L’ambiguità di quel rapporto si è addirittura amplificata nei mesi a seguire, in campagna elettorale. La Lega nord, infatti, pose come condizione per riproporre l’alleanza del Nord la non-candidatura a premier di Berlusconi.
Il Cavaliere pensò di uscirne con una furbata, complice la legge elettorale che non obbliga le coalizioni a una indicazione: il candidato premier ufficiale del centrodestra era proprio Alfano. Invece di mandarlo avanti, però, il Cav ha trasformato quella candidatura in farsa, coprendo sistematicamente le iniziative del suo segretario, catalizzando l’attenzione su di sé, lanciando in prima persona le iniziative (su tutte il taglio dell’Imu), partecipando al suo posto ai confronti televisivi con gli altri candidati. Il delfino, evidentemente, covava da tempo il desiderio di ritagliarsi uno spazio, dare una dimostrazione plastica di autonomia.

4- I ministeri sbagliati

Il difficile rapporto tra il Cavaliere e l’esecutivo di Enrico Letta discende anche dalle modalità con cui questo è stato costituito. Per allontanare il sospetto che ci fosse una pressione pidiellina troppo forte, aiutare il premier a respingere le accuse piddine di «intelligenza con il nemico», la pratica della composizione dell’esecutivo fu interamente gestita dal vicepremier. Che, però, aveva trattato principalmente per sé e per il ministero della Giustizia, dove voleva ci fosse una personalità considerata super-partes, non ostile al Cavaliere. Alfano non è riuscito a mettere le mani su nessun ministero economico, nonostante la campagna elettorale pidiellina fosse stata impostata tutta sulle tasse. Niente Economia (dove, infatti, Fabrizio Saccomanni è sotto tiro di Renato Brunetta da mesi), niente Sviluppo Economico, niente personalità come Stefano Fassina a fare la guardia, almeno come viceministri. Di contro il Pdl ha conquistato Sanità e Agricoltura, importanti per creare consenso, ma meno per riallacciare i fili con l’elettorato conservatore-berlusconiano.

5- Gli uomini chiave scelti da Alfano 

Il Cavaliere aveva indicato una sua rosa di ministri per il governo di Enrico Letta. C’erano alcune donne come Maria Stella Gelmini e Annamaria Bernini, c’era Renato Brunetta, per citarne alcuni. Ma il segretario, viste le resistenze del Pd su quest’ultimo, aveva optato per escludere tutti coloro che «avevano già avuto esperienze di governo». Fu Alfano a scegliere i ministri in carica tra i semplici parlamentari (né Beatrice Lorenzin né Nunzia De Girolamo facevano parte dell’ufficio di presidenza Pdl). Gaetano Quaglieriello, addirittura, fu “spinto” dal Colle. Nessuno di loro veniva percepito come berlusconiano dagli elettori. Questo non-rapporto tra il Cavaliere e i suoi ministri – assoluta novità per il centrodestra - ha reso più facile la presa di distanza degli ultimi, in un momento di difficoltà. Non è un caso che, in maniera soft, Berlusconi stia lavorando ancora ad un rimpasto.

6- Troppi portavoce poco fedeli

Negli ultimi mesi il Cavaliere ha fatto vita ritirata, si è imposto un auto-esilio nelle sue ville, ha limitato le riunioni politiche e le comunicazioni ufficiali: niente interviste, niente video o una linea chiara. Per questa ragione il sistema dell’informazione è rimasto appeso ai retroscena e alle soffiate dei parlamentari che – pochissimi – riuscivano ad avere accesso all’ex premier. Daniela Santanché e Michaela Biancofiore, per dire, annunciarono per prime la ri-nascita di Forza Italia e la discesa in campo di Marina poi. La prima profezia si è avverata, l’altra no. E non è un caso che oggi l’ex sottosegretaria all’Attuazione del programma sia stata emarginata, la sottosegretaria dimissionaria alla Funzione pubblica dimissionata dal premier.

7- Il metodo  Giornale

Altro errore che viene rimproverato al leader del centrodestra è quello di non avere preso con sufficiente chiarezza le distanze da Il Giornale, cioè il quotidiano del fratello Paolo. Negli ultimi mesi Il Giornale ha attaccato – prima velatamente, poi meno – Alfano e i ministri. Il vicepremier, per esempio, non ha mai perdonato il titolo Tradisce Castiglione, il fedelissimo di Alfano, pubblicato quando ancora l’esplosione del Pdl era di là da venire. Silvio, per la verità, ci provò a mettere le cose in chiaro. Intervistato dall’ex vicedirettore Paolo Guzzanti la scorsa estate il Cavaliere disse di non riconoscersi in alcune posizioni “estreme” del quotidiano diretto d Alessandro Sallusti, che, anzi, «creavano molti problemi». Ma, ovviamente, quella presa di distanza era nascosta nella titolazione, non servì a nulla.

8- Le dimissioni dei ministri scritte da Daniele Capezzone

Il Cavaliere ha deciso di far dimettere i suoi ministri ad Arcore, dopo un breve colloquio telefonico con Angelino Alfano, su iniziativa di Niccolò Ghedini. Quel giorno il vicepremier disse suppergiù «non sono d’accordo, ma mi adeguo». Poi le cose sono andate come è noto. Una delle ragioni è che Berlusconi, da quel momento e per alcuni giorni, non ha più sentito i suoi ministri. Peggio: chiese a Daniele Capezzone di scrivere la loro lettera di dimissioni, di spedirla loro via mail e di raccogliere le loro firme. I cinque, ovviamente, hanno vissuto quella modalità come un affronto, si sono rifiutati di firmare quel foglio, hanno scritto una nuova lettera e dato il via alla rivolta.

9- La guerra dei numeri, i “lealisti”

L’ultimo errore del Cavaliere è stato quello di accettare la logica muscolare della “conta” interna. Aveva ceduto in Aula al Senato dicendo sì alla fiducia per evitare la conta, ma non ha mantenuto il punto nei giorni successivi. L’ex premier giovedì sera a Palazzo Grazioli ha assistito al battesimo della neonata corrente dei “lealisti”. Quello poteva anche accettarlo, ma la logica dei numeri no: «Abbiamo 100 firme di altrettanti parlamentari, 40 più degli alfaniani», ha spiegato ai presenti – lui compreso - Denis Verdini. Il risultato è che, ora, si trova non un gruppo di rivoltosi, ma ben due. E il bilancino tra le correnti per i futuri incarichi nel partito non si addice allo stile di Berlusconi.
Lunedì, 07 Ottobre 2013

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