2017 anno del limbo per l'Italia, pochi segnali che sarà meglio del 2016. Il destino si gioca più all'estero che in patria
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L'anno del limbo, tra color che son sospesi. Per l'economia italiana sarà un 2017 dai connotati poco esaltanti. L'eredità dell'anno che si sta per chiudere registra segnali positivi ridotti al lumicino e soprattutto precari, privi di quella solidità tale da garantire ripresa e stabilità a un sistema che presenta numerosi campanelli d'allarme, a iniziare dalle banche. Il 2017 sarà soprattutto un anno che l'Italia giocherà in attesa. Dallo sviluppo della Brexit alle politiche economiche di Donald Trump passando per la direzione che assumerà la Bce, dal ruolo dell'Europa (Germania in primis) sulle banche e i conti pubblici alle delicatissime elezioni europee in Paesi chiave, passando per il ruolo predominante che gli attori stranieri eserciteranno su molte aziende italiane, è evidente che l'Italia giocherà in attesa di mosse che verranno decise altrove, al di fuori dei confini nazionali. La sfida per l'economia italiana passa proprio dalla declinazione di questa attesa: se il nostro Paese riuscirà a giocare un ruolo attivo in un contesto internazionale sempre più competitivo, allora i timidi segnali del 2016 potranno avere una chance in più per provare a trasformarsi in prospettive solide. Se, al contrario, le decisioni assunte dall'esterno avranno un carattere punitivo o comunque negativo per gli interessi italiani, allora il 2017 rischia di configurarsi come un anno di stasi. L’ennesimo pericoloso anno di stasi.
Arriva Trump, non è una cattiva notizia.
Nel 2017 l'Italia potrebbe ottenere un beneficio dalle politiche economiche del neo presidente degli Stati Uniti nel contesto, più generale, dell'influenza che la Trump economy avrà sull'Europa. A spiegarlo è una recente analisi dell'economista tedesco Daniel Gros. Uno dei primi effetti dell'elezione di Trump è stato l'aumento significativo dei tassi di mercato. L'Italia potrebbe beneficiare in modo positivo del rialzo del costo del denaro, come avvenne nei primi anni dell’era Reagan. Protetti i titoli di Stato italiani dal quantitative easing della Bce, che collocherà i Bot e i Btp a tassi bassi almeno fino alla fine del 2017, l'Italia potrà godere della rivalutazione del dollaro sull'euro. C'è poi la partita degli investimenti nei settori delle infrastrutture e della difesa su cui punta Trump. L'economia americana è vicina alla piena capacità e quindi andrà incontro a una fase in cui dovrà fare affidamento sulle importazioni. L'Italia, spiega Gros, si avvantaggerà di più rispetto alla Germania. “L’effetto della svalutazione dell’euro è tre volte più forte in Italia che in Germania. Questo perché la domanda internazionale per le esportazioni dalla Germania, concentrata com’è sui beni strumentali è relativamente impermeabile all’andamento dei prezzi a differenza dell’ export italiano più ‘leggero’ (tessile-abbigliamento, alimentari, arredamento)". Un altro vantaggio potrebbe arrivare dalla politica energetica di Trump: il tycoon punta all'autosufficienza energetica e quindi sono probabili nuovi investimenti per la produzione nazionale di petrolio e gas. Questo meccanismo potrebbe portare a una contrazione dei prezzi del petrolio e quindi a un vantaggio per i Paesi dell'eurozona che importano energia. ll cambio tra il dollaro e l'euro registra un andamento al ribasso già dal giorno della vittoria di Trump, con un range compreso tra 1,13 e 1,05. Secondo alcuni analisti, se si raggiungesse la parità euro-dollaro le esportazioni dall’Italia agli Usa crescerebbero tra il 4,8% e il 5,2%: lo stesso bene infatti potrebbe essere venduto sul mercato americano a un prezzo più basso rispetto allo scorso anno. Allo stesso tempo, la parità tra euro e dollaro renderebbe l'Italia un Paese più attrattivo per gli investimenti americani, portando in auge la manifattura e settori come abiti, mobili artigianali e gioielli. Tutti gli effetti della Trumpnomics sono però teorici e potenziali, soggetti alle decisioni che alla fine deciderà di assumere il (notoriamente imprevedibile) neo presidente americano. Ecco perchè non è assolutamente scritto che alcuni die benefici che si sono iniziati a percepire alla fine del 2016 possano proseguire anche nel 2017.
Nel 2017 l'Italia potrebbe ottenere un beneficio dalle politiche economiche del neo presidente degli Stati Uniti nel contesto, più generale, dell'influenza che la Trump economy avrà sull'Europa. A spiegarlo è una recente analisi dell'economista tedesco Daniel Gros. Uno dei primi effetti dell'elezione di Trump è stato l'aumento significativo dei tassi di mercato. L'Italia potrebbe beneficiare in modo positivo del rialzo del costo del denaro, come avvenne nei primi anni dell’era Reagan. Protetti i titoli di Stato italiani dal quantitative easing della Bce, che collocherà i Bot e i Btp a tassi bassi almeno fino alla fine del 2017, l'Italia potrà godere della rivalutazione del dollaro sull'euro. C'è poi la partita degli investimenti nei settori delle infrastrutture e della difesa su cui punta Trump. L'economia americana è vicina alla piena capacità e quindi andrà incontro a una fase in cui dovrà fare affidamento sulle importazioni. L'Italia, spiega Gros, si avvantaggerà di più rispetto alla Germania. “L’effetto della svalutazione dell’euro è tre volte più forte in Italia che in Germania. Questo perché la domanda internazionale per le esportazioni dalla Germania, concentrata com’è sui beni strumentali è relativamente impermeabile all’andamento dei prezzi a differenza dell’ export italiano più ‘leggero’ (tessile-abbigliamento, alimentari, arredamento)". Un altro vantaggio potrebbe arrivare dalla politica energetica di Trump: il tycoon punta all'autosufficienza energetica e quindi sono probabili nuovi investimenti per la produzione nazionale di petrolio e gas. Questo meccanismo potrebbe portare a una contrazione dei prezzi del petrolio e quindi a un vantaggio per i Paesi dell'eurozona che importano energia. ll cambio tra il dollaro e l'euro registra un andamento al ribasso già dal giorno della vittoria di Trump, con un range compreso tra 1,13 e 1,05. Secondo alcuni analisti, se si raggiungesse la parità euro-dollaro le esportazioni dall’Italia agli Usa crescerebbero tra il 4,8% e il 5,2%: lo stesso bene infatti potrebbe essere venduto sul mercato americano a un prezzo più basso rispetto allo scorso anno. Allo stesso tempo, la parità tra euro e dollaro renderebbe l'Italia un Paese più attrattivo per gli investimenti americani, portando in auge la manifattura e settori come abiti, mobili artigianali e gioielli. Tutti gli effetti della Trumpnomics sono però teorici e potenziali, soggetti alle decisioni che alla fine deciderà di assumere il (notoriamente imprevedibile) neo presidente americano. Ecco perchè non è assolutamente scritto che alcuni die benefici che si sono iniziati a percepire alla fine del 2016 possano proseguire anche nel 2017.
Brexit, la grande incognita.
La Brexit è ancora da definire nei tempi e nei modi. Il suo impatto sul 2017 è quindi difficile da prevedere. Il Regno Unito è il quarto mercato di sbocco dell'export italiano, anche se con un volume di transizioni pari al 5% del totale. In ogni caso se la Brexit dovesse dispiegarsi in una modalità di chiusura estrema è evidente che l'Italia dovrebbe riorientare la sua attività di export verso altri Paesi, registrando comunque una perdita. L'effetto positivo che Brexit potrebbe giocare per il nostro Paese risiede invece in quelle aziende che lasceranno nel 2017 il Regno Unito per riorientarsi sul mercato continentale. Decisivo, in questo ambito, saranno le condizioni che verranno offerte alle stesse aziende. I nodi italiani sono difficili da sciogliere e corrispondono al nome di eccessiva burocrazia e di un quadro fiscale e giuridico non sempre lineare e conveniente rispetto ai competitor europei.
La Brexit è ancora da definire nei tempi e nei modi. Il suo impatto sul 2017 è quindi difficile da prevedere. Il Regno Unito è il quarto mercato di sbocco dell'export italiano, anche se con un volume di transizioni pari al 5% del totale. In ogni caso se la Brexit dovesse dispiegarsi in una modalità di chiusura estrema è evidente che l'Italia dovrebbe riorientare la sua attività di export verso altri Paesi, registrando comunque una perdita. L'effetto positivo che Brexit potrebbe giocare per il nostro Paese risiede invece in quelle aziende che lasceranno nel 2017 il Regno Unito per riorientarsi sul mercato continentale. Decisivo, in questo ambito, saranno le condizioni che verranno offerte alle stesse aziende. I nodi italiani sono difficili da sciogliere e corrispondono al nome di eccessiva burocrazia e di un quadro fiscale e giuridico non sempre lineare e conveniente rispetto ai competitor europei.
Draghi ci protegge per tutto l’anno. E dopo?
L'Italia è stato uno dei Paesi che più ha beneficiato delle politiche espansive promosse dalla Banca centrale europea guidata dal suo presidente Mario Draghi. Secondo una stima di Hsbc a febbraio ammontano a circa 6 miliardi di euro nel 2015 (0,4% del Pil) e a 8 miliardi nel 2016 (0,5%) i benefici per i conti pubblici italiani legati al varo del quantitative easing, il piano di acquisto di titoli di Stato e di altro tipo dalle banche nato con l'obiettivo di immettere nuovo denaro nell’economia europea, incentivare i prestiti bancari verso le imprese e far crescere l’inflazione. Dove risiede il vantaggio per l'Italia? Il quantitative easing tiene basso il tasso d'interesse di Bot e Btp, garantendo meno costi di finanziamento per i conti pubblici, e inoltre tiene basso il costo dei prestiti delle banche, facilitando il flusso di credito verso imprese e famiglie. Il problema è che questo ombrello, almeno per il momento, si chiuderà alla fine del 2017 e tra l'altro, a partire dal prossimo aprile, procederà a ritmo più lento rispetto a quello attuale, riducendo la portata degli acquisti. Riuscirà l'Italia a resistere a un eventuale cambio di strategia della Bce? Senza il bazooka di Draghi e le sue politiche espansive è evidente che l'Italia subirebbe un duro contraccolpo. Anche in questo ambito l'Italia giocherà in una posizione di attesa. Draghi ha mediato tra le due visioni opposte in materia di politiche della Bce, quella tedesca e quella italiana, ma la posizione di cui si è avvantaggiata l'Italia anche nel 2017 sarà messa a dura prova dai falchi tedeschi, che premono per una politica di stampo decisamente diverso.
L'Italia è stato uno dei Paesi che più ha beneficiato delle politiche espansive promosse dalla Banca centrale europea guidata dal suo presidente Mario Draghi. Secondo una stima di Hsbc a febbraio ammontano a circa 6 miliardi di euro nel 2015 (0,4% del Pil) e a 8 miliardi nel 2016 (0,5%) i benefici per i conti pubblici italiani legati al varo del quantitative easing, il piano di acquisto di titoli di Stato e di altro tipo dalle banche nato con l'obiettivo di immettere nuovo denaro nell’economia europea, incentivare i prestiti bancari verso le imprese e far crescere l’inflazione. Dove risiede il vantaggio per l'Italia? Il quantitative easing tiene basso il tasso d'interesse di Bot e Btp, garantendo meno costi di finanziamento per i conti pubblici, e inoltre tiene basso il costo dei prestiti delle banche, facilitando il flusso di credito verso imprese e famiglie. Il problema è che questo ombrello, almeno per il momento, si chiuderà alla fine del 2017 e tra l'altro, a partire dal prossimo aprile, procederà a ritmo più lento rispetto a quello attuale, riducendo la portata degli acquisti. Riuscirà l'Italia a resistere a un eventuale cambio di strategia della Bce? Senza il bazooka di Draghi e le sue politiche espansive è evidente che l'Italia subirebbe un duro contraccolpo. Anche in questo ambito l'Italia giocherà in una posizione di attesa. Draghi ha mediato tra le due visioni opposte in materia di politiche della Bce, quella tedesca e quella italiana, ma la posizione di cui si è avvantaggiata l'Italia anche nel 2017 sarà messa a dura prova dai falchi tedeschi, che premono per una politica di stampo decisamente diverso.
Il Pil stenta, sul deficit battaglia in Europa.
La grande paura per l'Italia è scoppiata il 12 agosto, giorno in cui l'Istat ha pubblicato la stima preliminare del Pil relativo al secondo trimestre dell'anno: crescita zero. Anche i dati annuali, che a novembre lo stesso Istituto di statistica aveva fissato a +0,8% per il 2016 e a +0,9% per il 2017, denotano un'anemia del prodotto interno lordo che stenta a guarire. Il ritorno al segno più c'è, ma la crescita non si consolida. Una fiammata si è registrata a fine anno, l’ha evidenziata l’Istat negli ultimi giorni, e questo segnale può fare ben sperare sul fatto che l'andamento del prossimo anno possa essere più sostanzioso. Due le speranze: la crescita della fiducia dei consumatori e l'aumento degli ordini alle fabbriche. Resta il manifatturiero il settore che può trainare la crescita degli altri settori economici, mentre i servizi soffrono un po'. Le stime del Pil per il 2017 sono però tutt'altro che rosee e si attestano intorno all'1%. Dovrebbe essere almeno doppia per avere effetti visibili su un’economia e un mercato del lavoro come quelli italiani. Sui conti pubblici pesa la zavorra del debito pubblico. A ottobre è schizzato a 2.223,8 miliardi, in aumento di ben 11,2 miliardi rispetto al mese precedente. Con eccezione del debito, i conti pubblici italiani reggono, ma il sostegno dell'Europa, attraverso la concessione della cosiddetta flessibilità, sarà anche nel 2017 un elemento imprescindibile per far quadrare i conti. Se è vero che l'intero sistema europeo, a iniziare da Germania e Francia, ottiene un aiuto da parte di Bruxelles, è vero anche che l'Italia beneficia in maniera importante della flessibilità sul Patto di stabilità. Quest'anno, ad esempio, senza la flessibilità ottenuta, l'Italia avrebbe avuto 19 miliardi in meno da spendere e un evidente impatto, in negativo, sui conti pubblici. Anche il prossimo anno Roma sarà costretta a chiedere flessibilità all'Europa. Anche questa partita si gioca fuori dai confini nazionali.
La grande paura per l'Italia è scoppiata il 12 agosto, giorno in cui l'Istat ha pubblicato la stima preliminare del Pil relativo al secondo trimestre dell'anno: crescita zero. Anche i dati annuali, che a novembre lo stesso Istituto di statistica aveva fissato a +0,8% per il 2016 e a +0,9% per il 2017, denotano un'anemia del prodotto interno lordo che stenta a guarire. Il ritorno al segno più c'è, ma la crescita non si consolida. Una fiammata si è registrata a fine anno, l’ha evidenziata l’Istat negli ultimi giorni, e questo segnale può fare ben sperare sul fatto che l'andamento del prossimo anno possa essere più sostanzioso. Due le speranze: la crescita della fiducia dei consumatori e l'aumento degli ordini alle fabbriche. Resta il manifatturiero il settore che può trainare la crescita degli altri settori economici, mentre i servizi soffrono un po'. Le stime del Pil per il 2017 sono però tutt'altro che rosee e si attestano intorno all'1%. Dovrebbe essere almeno doppia per avere effetti visibili su un’economia e un mercato del lavoro come quelli italiani. Sui conti pubblici pesa la zavorra del debito pubblico. A ottobre è schizzato a 2.223,8 miliardi, in aumento di ben 11,2 miliardi rispetto al mese precedente. Con eccezione del debito, i conti pubblici italiani reggono, ma il sostegno dell'Europa, attraverso la concessione della cosiddetta flessibilità, sarà anche nel 2017 un elemento imprescindibile per far quadrare i conti. Se è vero che l'intero sistema europeo, a iniziare da Germania e Francia, ottiene un aiuto da parte di Bruxelles, è vero anche che l'Italia beneficia in maniera importante della flessibilità sul Patto di stabilità. Quest'anno, ad esempio, senza la flessibilità ottenuta, l'Italia avrebbe avuto 19 miliardi in meno da spendere e un evidente impatto, in negativo, sui conti pubblici. Anche il prossimo anno Roma sarà costretta a chiedere flessibilità all'Europa. Anche questa partita si gioca fuori dai confini nazionali.
Piazza Affari perde peso, il 2017 si apre con l'affanno
La Borsa di Milano chiude il 2016 con una perdita intorno al 10 per cento. L'indice Ftse Italia All Share e il Ftse Mib calano rispettivamente del 9,60% e del 9,68 per cento. Il peso di Piazza Affari si sgonfia rispetto al 2015: la capitalizzazione è scesa al 31,8% del Pil (era al 34,8% un anno fa). Cala anche l'impatto delle società quotate, che valgono complessivamente quasi 525 miliardi, meno di un terzo del Pil, (-7,5% rispetto al 2015). Questi dati, insieme al dimezzamento del numero delle Ipo, rendono evidente una perdita di appeal della quotazione in Borsa e della sua convenienza. Il 2017 si aprirà quindi con un importante gap da recuperare, soprattutto sul fronte bancario. Basta pensare che nel 2016 le banche italiane hanno bruciato 43 miliardi di euro di capitalizzazione a Piazza Affari.
La Borsa di Milano chiude il 2016 con una perdita intorno al 10 per cento. L'indice Ftse Italia All Share e il Ftse Mib calano rispettivamente del 9,60% e del 9,68 per cento. Il peso di Piazza Affari si sgonfia rispetto al 2015: la capitalizzazione è scesa al 31,8% del Pil (era al 34,8% un anno fa). Cala anche l'impatto delle società quotate, che valgono complessivamente quasi 525 miliardi, meno di un terzo del Pil, (-7,5% rispetto al 2015). Questi dati, insieme al dimezzamento del numero delle Ipo, rendono evidente una perdita di appeal della quotazione in Borsa e della sua convenienza. Il 2017 si aprirà quindi con un importante gap da recuperare, soprattutto sul fronte bancario. Basta pensare che nel 2016 le banche italiane hanno bruciato 43 miliardi di euro di capitalizzazione a Piazza Affari.
Banche tallone d’Achille, nessuna esclusa
Uno dei talloni d'Achille dell'economia italiana per il 2017 sarà sicuramente costituito dalle banche. Lo strascico del 2016 è pesantissimo, da ultimo con l’avvio del salvataggio pubblico di Mps, praticamente per due terzi nelle mani dello Stato. Ma l'anno era iniziato con una vicenda che ancora non è arrivata a soluzione finale: quella delle quattro banche (Etruria, Marche, Carife e CariChieti) fallite alla fine del 2015 e poi riattivate in nuova veste dal governo Renzi con un decreto che ha alimentato un vespaio di polemiche anche per le implicazioni politiche legate al ruolo del padre del di Maria Elena Boschi in Banca Etruria. Non solo. Molti dei 10.500 obbligazionisti coinvolti nell'operazione di azzeramento dei quattro istituti non sono stati rimborsati come speravano e il meccanismo di ristoro, messo in campo dal Governo, registra ancora numerose disfunzioni. Tra l'altro il destino delle quattro banche è stato incerto per tutto l'intero 2016. Solo negli ultimi mesi dell'anno, infatti, si è concretizzato l'interesse di Ubi a rilevare tre di queste banche, mentre CariFerrara andrà probabilmente incontro a una linea durissima sul fronte degli esuberi, con un piano che prevede l'esodo obbligatorio per 400 dipendenti sui circa 800 totali. L'impegno di Ubi è legato però a quello del Fondo Atlante, nato ad aprile proprio per affrontare uno dei problemi strutturali delle banche italiane, cioè lo smaltimento dei crediti deteriorati. E proprio il Fondo Atlante ha deliberato l'acquisto di una buona parte dei 3,6 miliardi di crediti deteriorati nei bilanci delle tre banche. Il tema centrale della crisi di una fetta del sistema bancario è la capacità di tenere testa alle sofferenze che ha in pancia e a sua volta a dover fare i conti con una capitalizzazione che va sempre più assottigliandosi, con la necessità di ricorrere ad Atlante, che non sarà appunto infinito, o ad altri strumenti, come le operazioni di ricapitalizzazione sui mercati, che non riescono a suscitare l'interesse degli investitori. Tre casi, su tutti, sono emblematici della difficoltà di alcune banche italiane di trovare investitori pronti a sottoscrivere nuovo capitale: l'ex Popolare di Vicenza, Veneto Banca e Mps. Le due banche venete hanno fallito l'aumento di capitale e Atlante è dovuta subentrare per sobbarcarsi il carico delle due ricapitalizzazioni. Il punto interrogativo è: queste banche riusciranno ora a ritornare appettibili sul mercato nel 2017? Sicuramente andranno incontro a pesanti ristrutturazioni perchè le gestioni non sempre impeccabili degli ultimi anni hanno fatto lievitare i costi e hanno eroso una larga fetta del patrimonio, ma il cambio di management e la cura di Atlante non sono di per sè elementi tali da assicurare un ritorno a un pieno appeal. Soffriranno, anche se in maniera diversa, le big, come ad esempio UniCredit. Nei primi sei mesi del 2016 ha bruciato il 55% del suo valore in Borsa. A Gae Aulenti è tempo di trovare risorse e di lanciare un aumento di capitale da 13 miliardi di euro. Ma non basta. Nel piano si prevedono ulteriori 6.500 esuberi netti entro il 2019, per una riduzione totale netta dei dipendenti a tempo pieno di circa 14.000 unità entro il 2019. Cosa ci dice la vicenda di UniCredit? Sostanzialmente che i risultati positivi raggiunti dalle big italiane in termini di ricavi e utile netto si annullano o quanto meno si attenuano quando si prende in considerazione il patrimonio, che risulta essere sempre meno solido. In una competizione europea fatta di regole dove il Cet1, cioè l'indice della solidità patrimoniale, la fa da regina, le banche italiane soffriranno ancora nel 2017.
Uno dei talloni d'Achille dell'economia italiana per il 2017 sarà sicuramente costituito dalle banche. Lo strascico del 2016 è pesantissimo, da ultimo con l’avvio del salvataggio pubblico di Mps, praticamente per due terzi nelle mani dello Stato. Ma l'anno era iniziato con una vicenda che ancora non è arrivata a soluzione finale: quella delle quattro banche (Etruria, Marche, Carife e CariChieti) fallite alla fine del 2015 e poi riattivate in nuova veste dal governo Renzi con un decreto che ha alimentato un vespaio di polemiche anche per le implicazioni politiche legate al ruolo del padre del di Maria Elena Boschi in Banca Etruria. Non solo. Molti dei 10.500 obbligazionisti coinvolti nell'operazione di azzeramento dei quattro istituti non sono stati rimborsati come speravano e il meccanismo di ristoro, messo in campo dal Governo, registra ancora numerose disfunzioni. Tra l'altro il destino delle quattro banche è stato incerto per tutto l'intero 2016. Solo negli ultimi mesi dell'anno, infatti, si è concretizzato l'interesse di Ubi a rilevare tre di queste banche, mentre CariFerrara andrà probabilmente incontro a una linea durissima sul fronte degli esuberi, con un piano che prevede l'esodo obbligatorio per 400 dipendenti sui circa 800 totali. L'impegno di Ubi è legato però a quello del Fondo Atlante, nato ad aprile proprio per affrontare uno dei problemi strutturali delle banche italiane, cioè lo smaltimento dei crediti deteriorati. E proprio il Fondo Atlante ha deliberato l'acquisto di una buona parte dei 3,6 miliardi di crediti deteriorati nei bilanci delle tre banche. Il tema centrale della crisi di una fetta del sistema bancario è la capacità di tenere testa alle sofferenze che ha in pancia e a sua volta a dover fare i conti con una capitalizzazione che va sempre più assottigliandosi, con la necessità di ricorrere ad Atlante, che non sarà appunto infinito, o ad altri strumenti, come le operazioni di ricapitalizzazione sui mercati, che non riescono a suscitare l'interesse degli investitori. Tre casi, su tutti, sono emblematici della difficoltà di alcune banche italiane di trovare investitori pronti a sottoscrivere nuovo capitale: l'ex Popolare di Vicenza, Veneto Banca e Mps. Le due banche venete hanno fallito l'aumento di capitale e Atlante è dovuta subentrare per sobbarcarsi il carico delle due ricapitalizzazioni. Il punto interrogativo è: queste banche riusciranno ora a ritornare appettibili sul mercato nel 2017? Sicuramente andranno incontro a pesanti ristrutturazioni perchè le gestioni non sempre impeccabili degli ultimi anni hanno fatto lievitare i costi e hanno eroso una larga fetta del patrimonio, ma il cambio di management e la cura di Atlante non sono di per sè elementi tali da assicurare un ritorno a un pieno appeal. Soffriranno, anche se in maniera diversa, le big, come ad esempio UniCredit. Nei primi sei mesi del 2016 ha bruciato il 55% del suo valore in Borsa. A Gae Aulenti è tempo di trovare risorse e di lanciare un aumento di capitale da 13 miliardi di euro. Ma non basta. Nel piano si prevedono ulteriori 6.500 esuberi netti entro il 2019, per una riduzione totale netta dei dipendenti a tempo pieno di circa 14.000 unità entro il 2019. Cosa ci dice la vicenda di UniCredit? Sostanzialmente che i risultati positivi raggiunti dalle big italiane in termini di ricavi e utile netto si annullano o quanto meno si attenuano quando si prende in considerazione il patrimonio, che risulta essere sempre meno solido. In una competizione europea fatta di regole dove il Cet1, cioè l'indice della solidità patrimoniale, la fa da regina, le banche italiane soffriranno ancora nel 2017.
Abbiamo una banca, ma in Europa la trattativa è in salita.
È stato un annus horribilis per Monte dei Paschi di Siena, la banca più antica del mondo. Dopo gli ultimi anni caratterizzati da numerose vicissitudini, a iniziare dalle operazioni azzardate sui derivati, Rocca Salimbeni ha registrato nel 2016 un capitombolo enorme. La capitalizzazione della banca, cioè il suo valore, è sceso anche sotto i 400 milioni di euro e le azioni in Borsa, dove il titolo ha subito una vera e propria mattanza dall'estate in poi, sono arrivate anche a quota 20 centesimi. Agli stress test di luglio, gli esami dell'Autorità bancaria europea sulla solidità delle banche in caso di scenari economici avversi, Mps è risultato il peggiore tra i 51 istituti presi in considerazione, registrando un Cet1, cioè un indice della solidità del capitale, addirittura negativo. Da qui la cura imposta dalla Bce, che doveva passare per un aumento di capitale da 5 miliardi e lo smaltimento di 27,7 miliardi di sofferenze lorde. C'è stato un cambio al vertice (da Fabrizio Viola a Marco Morelli), ma il restyling, sollecitato dietro le quinte sia dal Tesoro che dalle banche (JPMorgan e Mediobanca) a capo del consorzio di garanzia per l'aumento di capitale, non è bastato. A fallire è stato il piano a cui aveva pensato il cda della banca, quello cioè di recuperare i 5 miliardi necessari da un meccanismo ripartito tra mercato, investitori pesanti e il coinvolgimento degli obbligazionisti istituzionali. Il piano è andato in fumo, complice anche il peso della vittoria del No al referendum costituzionale del 4 dicembre che ha scoraggiato i grandi investitori, primo tra tutti il fondo del Qatar che si era affacciato alla finestra di Siena. L'unica strada possibile, non priva di complicazioni, è risultata essere quella del salvataggio pubblico. Ci penserà il Tesoro, insomma, a togliere le castagne dal fuoco, con un esborso di risorse pubbliche pari a 6,6 miliardi, che andranno ad appesantire il già consistente fardello del debito pubblico. Il conto totale per salvare Siena è salatissimo e lo ha stabilito la Vigilanza della Bce: 8,8 miliardi di euro. Questa ricetta, determinata appunto fuori dai confini nazionali, sarà al centro di una lunga trattativa tra Roma, Francoforte e Bruxelles. Riuscirà l'Italia a trascinare con sè l'Europa per modificare le regole in materia di vigilanza bancaria, che il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, ha recentemente definito "opache"?Un ragionamento, questo, che tira dietro tutte le implicazioni politiche che le banche giocano nel contesto europeo e soprattutto nei rapporti tra Italia e Germania. Le banche, infatti, sono state uno degli elementi che hanno di più inasprito i rapporti tra i falchi di Berlino e le colombe di Roma nel corso del 2016 e questo clima di tensione è destinato a riproporsi anche nel 2017.
È stato un annus horribilis per Monte dei Paschi di Siena, la banca più antica del mondo. Dopo gli ultimi anni caratterizzati da numerose vicissitudini, a iniziare dalle operazioni azzardate sui derivati, Rocca Salimbeni ha registrato nel 2016 un capitombolo enorme. La capitalizzazione della banca, cioè il suo valore, è sceso anche sotto i 400 milioni di euro e le azioni in Borsa, dove il titolo ha subito una vera e propria mattanza dall'estate in poi, sono arrivate anche a quota 20 centesimi. Agli stress test di luglio, gli esami dell'Autorità bancaria europea sulla solidità delle banche in caso di scenari economici avversi, Mps è risultato il peggiore tra i 51 istituti presi in considerazione, registrando un Cet1, cioè un indice della solidità del capitale, addirittura negativo. Da qui la cura imposta dalla Bce, che doveva passare per un aumento di capitale da 5 miliardi e lo smaltimento di 27,7 miliardi di sofferenze lorde. C'è stato un cambio al vertice (da Fabrizio Viola a Marco Morelli), ma il restyling, sollecitato dietro le quinte sia dal Tesoro che dalle banche (JPMorgan e Mediobanca) a capo del consorzio di garanzia per l'aumento di capitale, non è bastato. A fallire è stato il piano a cui aveva pensato il cda della banca, quello cioè di recuperare i 5 miliardi necessari da un meccanismo ripartito tra mercato, investitori pesanti e il coinvolgimento degli obbligazionisti istituzionali. Il piano è andato in fumo, complice anche il peso della vittoria del No al referendum costituzionale del 4 dicembre che ha scoraggiato i grandi investitori, primo tra tutti il fondo del Qatar che si era affacciato alla finestra di Siena. L'unica strada possibile, non priva di complicazioni, è risultata essere quella del salvataggio pubblico. Ci penserà il Tesoro, insomma, a togliere le castagne dal fuoco, con un esborso di risorse pubbliche pari a 6,6 miliardi, che andranno ad appesantire il già consistente fardello del debito pubblico. Il conto totale per salvare Siena è salatissimo e lo ha stabilito la Vigilanza della Bce: 8,8 miliardi di euro. Questa ricetta, determinata appunto fuori dai confini nazionali, sarà al centro di una lunga trattativa tra Roma, Francoforte e Bruxelles. Riuscirà l'Italia a trascinare con sè l'Europa per modificare le regole in materia di vigilanza bancaria, che il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, ha recentemente definito "opache"?Un ragionamento, questo, che tira dietro tutte le implicazioni politiche che le banche giocano nel contesto europeo e soprattutto nei rapporti tra Italia e Germania. Le banche, infatti, sono state uno degli elementi che hanno di più inasprito i rapporti tra i falchi di Berlino e le colombe di Roma nel corso del 2016 e questo clima di tensione è destinato a riproporsi anche nel 2017.
Il lavoro che non c'è. Lo sognano in 6,5 milioni
Nella ressa dei dati sull'occupazione e sulla disoccupazione, al centro di scontri politici e non solo, lo studio congiunto di Ministero del Lavoro, Istat, Inps e Inail di qualche giorno fa mette un po' di ordine tra i numeri. Cosa va e cosa invece non gira nel verso giusto? La crescita dell'occupazione, che si è avviata dall'inizio del 2015, ha beneficiato soprattutto degli sgravi fiscali previsti dalle ultime due leggi di stabilità. Meno forte l'impatto del Jobs act, la cui spinta si è esaurita nel corso del tempo. La crescita dell'occupazione si è stabilizzata nell'ultimo trimestre del 2016 grazie al miglioramento dell'occupazione dipendente: 543mila posti di lavoro in più nella media del terzo trimestre 2016 rispetto allo stesso periodo del 2015. Si è affievolita, invece, la propensione dei datori di lavoro a stipulare contratti a tempo indeterminato. Il saldo è positivo (+93mila posti di lavoro nel III trimestre), ma a contribuire a questo dato sono principalmente gli 83mila contratti a tempo determinato. Il mercato del lavoro italiano nel 2017 sarà caratterizzato ancora caratterizzato da alcune fragilità strutturali: la disoccupazione giovanile, in primis, che non dà tregua. 55mila posti in meno nel terzo trimestre tra i giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni. C'è chi un lavoro non lo ha, chi lo cerca, ma anche chi non lo cerca. E qui si inserisce un'altra falla del mercato del lavoro italiano o meglio della fase che è propedeutica al lavoro: i cosiddetti Neet, cioè i giovani che non studiano nè cercano un lavoro. Secondo un rapporto dell'Osce, pubblicato a ottobre, nel nostro Paese ci sono 2,5 milioni di giovani, di età compresa tra i 15 e i 29 anni, che non lavorano nè studiano. Il tasso dei Neet sul totale della popolazione giovanile era al 19,7% nel 2007: oggi è al 26,9 per cento. La media Osce è del 14,6% e la distanza che intercorre tra il dato italiano e quello medio la dice tutta su come questo sia una delle debolezze più gravi del sistema lavorativo italiano. La scommessa per il mercato del lavoro italiano nel 2017 passa per soluzioni strutturali che ancora non si intravedono. Sia il Jobs act, e in misura minore gli sgravi fiscali, hanno esaurito la loro spinta. Resta il nodo dell'accesso al mondo del lavoro e quello, ancora da stabilire, legato a un eventuale referendum sull'articolo 18 che potrebbe rimettere in discussione la normativa sui licenziamenti, creando nuovi disequilibri all'interno di un sistema che negli ultimi anni ha registrato due grandi riforme (Fornero prima, il Jobs act dopo) non prive di contraddizioni tra di loro.
Nella ressa dei dati sull'occupazione e sulla disoccupazione, al centro di scontri politici e non solo, lo studio congiunto di Ministero del Lavoro, Istat, Inps e Inail di qualche giorno fa mette un po' di ordine tra i numeri. Cosa va e cosa invece non gira nel verso giusto? La crescita dell'occupazione, che si è avviata dall'inizio del 2015, ha beneficiato soprattutto degli sgravi fiscali previsti dalle ultime due leggi di stabilità. Meno forte l'impatto del Jobs act, la cui spinta si è esaurita nel corso del tempo. La crescita dell'occupazione si è stabilizzata nell'ultimo trimestre del 2016 grazie al miglioramento dell'occupazione dipendente: 543mila posti di lavoro in più nella media del terzo trimestre 2016 rispetto allo stesso periodo del 2015. Si è affievolita, invece, la propensione dei datori di lavoro a stipulare contratti a tempo indeterminato. Il saldo è positivo (+93mila posti di lavoro nel III trimestre), ma a contribuire a questo dato sono principalmente gli 83mila contratti a tempo determinato. Il mercato del lavoro italiano nel 2017 sarà caratterizzato ancora caratterizzato da alcune fragilità strutturali: la disoccupazione giovanile, in primis, che non dà tregua. 55mila posti in meno nel terzo trimestre tra i giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni. C'è chi un lavoro non lo ha, chi lo cerca, ma anche chi non lo cerca. E qui si inserisce un'altra falla del mercato del lavoro italiano o meglio della fase che è propedeutica al lavoro: i cosiddetti Neet, cioè i giovani che non studiano nè cercano un lavoro. Secondo un rapporto dell'Osce, pubblicato a ottobre, nel nostro Paese ci sono 2,5 milioni di giovani, di età compresa tra i 15 e i 29 anni, che non lavorano nè studiano. Il tasso dei Neet sul totale della popolazione giovanile era al 19,7% nel 2007: oggi è al 26,9 per cento. La media Osce è del 14,6% e la distanza che intercorre tra il dato italiano e quello medio la dice tutta su come questo sia una delle debolezze più gravi del sistema lavorativo italiano. La scommessa per il mercato del lavoro italiano nel 2017 passa per soluzioni strutturali che ancora non si intravedono. Sia il Jobs act, e in misura minore gli sgravi fiscali, hanno esaurito la loro spinta. Resta il nodo dell'accesso al mondo del lavoro e quello, ancora da stabilire, legato a un eventuale referendum sull'articolo 18 che potrebbe rimettere in discussione la normativa sui licenziamenti, creando nuovi disequilibri all'interno di un sistema che negli ultimi anni ha registrato due grandi riforme (Fornero prima, il Jobs act dopo) non prive di contraddizioni tra di loro.
Da Almaviva a Ilva, i tavoli di crisi.
Il 2016 si chiude in modo amaro per i 1.666 dipendenti della sede romana di Almaviva: il call center ha chiuso i battenti e le lettere di licenziamento sono già tutte partite. Almaviva è una delle 145 storie di aziende in crisi e al centro di vertenze che sono in corso al ministero dello Sviluppo economico. Analizzando i dati di queste vertenze emerge come a pagare lo scotto maggiore della crisi sia l'industria pesante, seguita dalle telecomunicazioni, dall'elettronica e dal tessile. Ci sono crisi che non si è riusciti a risolvere, come appunto quella di Almaviva, e ci sono crisi che stanno precipitando come, ad esempio, quella delle ex acciaiere Lucchini di Piombino, che coinvolge 1.100 operai. Per gli operai le parole d'ordine sono diventate cassa integrazione, regime di solidarietà, banche che non erogano fondi. Difficile assicurare ora che la società possa andare oltre l'inizio del 2017 se non si sbloccherà il piano industriale ad oggi fermo. E poi ci sono crisi che sembrano risolte e poi riprecipitano di nuovo, come l’Alitalia, che torna a vedere lo spettro del default e riparte da nuovi piani di emergenza. Oppure l'Ilva. Non sono bastati nove decreti in cinque anni per risollevare le sorti del gigante dell'acciaio. Tra sequestri e processi, sblocchi di fondi e sostegno del Governo, l'Ilva e i suoi 15mila dipendenti sono ancora in bilico, ancora in attesa di conoscere chi, tra le due cordate che vorrebbero acquisirla, avrà la meglio. Molte delle 145 vertenze attive presentano un tratto comune, quello della delocalizzazione, cioè lo spostamento in altri Paesi di interi processi produttivi. Il trend è in crescita: un numero sempre maggiore di attività è destinato a spostarsi nel 2017 fuori dall'Italia con l'obiettivo di abbattere i costi, a iniziare da quelli della manodopera. C'è poi il fenomeno, destinato a crescere il prossimo anno, dei grandi marchi acquistati dagli stranieri.
Il 2016 si chiude in modo amaro per i 1.666 dipendenti della sede romana di Almaviva: il call center ha chiuso i battenti e le lettere di licenziamento sono già tutte partite. Almaviva è una delle 145 storie di aziende in crisi e al centro di vertenze che sono in corso al ministero dello Sviluppo economico. Analizzando i dati di queste vertenze emerge come a pagare lo scotto maggiore della crisi sia l'industria pesante, seguita dalle telecomunicazioni, dall'elettronica e dal tessile. Ci sono crisi che non si è riusciti a risolvere, come appunto quella di Almaviva, e ci sono crisi che stanno precipitando come, ad esempio, quella delle ex acciaiere Lucchini di Piombino, che coinvolge 1.100 operai. Per gli operai le parole d'ordine sono diventate cassa integrazione, regime di solidarietà, banche che non erogano fondi. Difficile assicurare ora che la società possa andare oltre l'inizio del 2017 se non si sbloccherà il piano industriale ad oggi fermo. E poi ci sono crisi che sembrano risolte e poi riprecipitano di nuovo, come l’Alitalia, che torna a vedere lo spettro del default e riparte da nuovi piani di emergenza. Oppure l'Ilva. Non sono bastati nove decreti in cinque anni per risollevare le sorti del gigante dell'acciaio. Tra sequestri e processi, sblocchi di fondi e sostegno del Governo, l'Ilva e i suoi 15mila dipendenti sono ancora in bilico, ancora in attesa di conoscere chi, tra le due cordate che vorrebbero acquisirla, avrà la meglio. Molte delle 145 vertenze attive presentano un tratto comune, quello della delocalizzazione, cioè lo spostamento in altri Paesi di interi processi produttivi. Il trend è in crescita: un numero sempre maggiore di attività è destinato a spostarsi nel 2017 fuori dall'Italia con l'obiettivo di abbattere i costi, a iniziare da quelli della manodopera. C'è poi il fenomeno, destinato a crescere il prossimo anno, dei grandi marchi acquistati dagli stranieri.
I 'gioielli' italiani sotto pressione straniera
Due esempi su tutti: Telecom e Mediaset. In entrambi i casi a mettere a repentaglio l'italianità di due tra le più grandi aziende nostrane è Vivendi, il colosso francese dei media guidato da Vincent Bolloré. Vivendi è salita nell'azionariato di entrambe le aziende in modo repentino, arrivando a quote capaci di insediare lo stesso controllo dell'azienda. In particolare dentro Mediaset, dove i francesi sono arrivati a detenere il 28,8% delle azioni, a un passo da quel 30% che obbligherebbe Bolloré a lanciare un'Opa per il controllo dell'intera società di Cologno monzese. Una partita, quella dei francesi, che si inserisce in una cornice più larga, quella costituita dall'integrazione, sempre più evidente, che caratterizza il sistema delle telecomunicazioni, dove l'infrastruttura gioca un ruolo importante e paritario a quello della struttura che produce contenuti. Al di là del controllo effettivo su Telecom e Mediaset, l'elemento che fa preoccupare è che le aziende italiane rischiano di diventare pedine di un gioco più grande, che si gioca fuori dai confini nazionali. I francesi di Vivendi, ad esempio, puntano a fare di Mediaset uno dei pezzi di un progetto paneuropeo che mira a contrastare l'avanzata del colosso Netflix. Un processo che sembra incontrovertibile e che sembra andare appunto nella direzione di un assorbimento dei gioielli italiani in progetti dove la cabina di regia è guidata da altri.
Due esempi su tutti: Telecom e Mediaset. In entrambi i casi a mettere a repentaglio l'italianità di due tra le più grandi aziende nostrane è Vivendi, il colosso francese dei media guidato da Vincent Bolloré. Vivendi è salita nell'azionariato di entrambe le aziende in modo repentino, arrivando a quote capaci di insediare lo stesso controllo dell'azienda. In particolare dentro Mediaset, dove i francesi sono arrivati a detenere il 28,8% delle azioni, a un passo da quel 30% che obbligherebbe Bolloré a lanciare un'Opa per il controllo dell'intera società di Cologno monzese. Una partita, quella dei francesi, che si inserisce in una cornice più larga, quella costituita dall'integrazione, sempre più evidente, che caratterizza il sistema delle telecomunicazioni, dove l'infrastruttura gioca un ruolo importante e paritario a quello della struttura che produce contenuti. Al di là del controllo effettivo su Telecom e Mediaset, l'elemento che fa preoccupare è che le aziende italiane rischiano di diventare pedine di un gioco più grande, che si gioca fuori dai confini nazionali. I francesi di Vivendi, ad esempio, puntano a fare di Mediaset uno dei pezzi di un progetto paneuropeo che mira a contrastare l'avanzata del colosso Netflix. Un processo che sembra incontrovertibile e che sembra andare appunto nella direzione di un assorbimento dei gioielli italiani in progetti dove la cabina di regia è guidata da altri.
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