sabato 12 marzo 2016

Oscar Giannino: «Denunciare i capi che rubano è una cosa da liberali»

Si chiama whistleblower e non è il classico spione. È una sentinella, non anonima, che rompe i rapporti malati tra aziende e regolatori. L’Italia ne ha un disperato bisogno. Ma serve un caso simbolo che cambi la testa del Paese

Russell Crowe interpreta un “whistleblower” nel film “Insider - Dietro la verità” (1999) diretto da Michael Mann e basato su una storia vera

12 Marzo 2016 - 07:31
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Né delatori né eroi: all’Italia servono sentinelle pubbliche, che denuncino quello che non va nelle aziende e nelle amministrazioni pubbliche. Possono anche essere pagati, perché quello che fanno, alla fine, produce valore per le aziende. A dirlo è Oscar Giannino, che ha una patente da liberale difficile da contestare e che da questa posizione difende i cosiddetti “whistleblower”. L’Accademia della Crusca non ha trovato un sinonimo in italiano per una figura che tra pochi mesi potrebbe entrare a pieno titolo anche in Italia. Il Ddl Businarolo (dalla deputata dell’M5s Francesca Businarolo) è passato alla Camera a gennaio ed è atteso in Senato. È stato votato da grillini e Pd, mentre da Forza Italia hanno parlato di “incitazione alla delazione" e da Fdi di qualcosa che si "avvicina agli schemi della Germania nazista e della Russia comunista”. Giannino invece non ha dubbi: «Con qualche distinguo ma avrei votato a favore. Perché è una figura di cui l’Italia ha bisogno».
Cominciamo dal voto di gennaio. Forza Italia ha rigettato il Ddl Businarolo sui whistleblower. Eppure questa figura piace ai liberali, in Italia e soprattutto negli Usa, tanto che uno dei suoi maggiori alfieri fu Ronald Reagan. Perché piace tanto ai liberali?
Se parliamo del mondo anglosassone, piace soprattutto ai liberali che hanno identificato un problema che rispetto alle semplificazioni del dibattito pubblico italiano è poco avvertito e notato.
Cioè?
Essere filomercato non significa affatto essere a favore delle big corporate, né tanto meno essere a favore del crone capitalism, cioè del mercato costruito sulle relazioni personali e sulle relazioni tra persone, regolatori e istituzioni. Al contrario: chi vuole davvero un mercato basato sulla fair competition combatte strenuamente contro qualunque idea e qualunque prassi di meccanismo relazionale, in cui la concorrenza viene a essere messa in secondo piano. Un liberale vero che vuole la concorrenza ha avuto decenni per riflettere sulle degenerazioni a cui il crone capitalism porta il mercato, che diventa semplicemente un campo nel quale chi ha i migliori strumenti per influenzare la sfera pubblica dispone di un maggior potere per fare quel che le pare.
Quindi il whistleblower rompe questo meccanismo. 
Il whistleblower rompe dal basso ogni ganglio vitale in cui passa un improprio flusso relazionale e non meritocratico e il circuito attraverso il quale si realizza questa tendenza collusiva, sia nella gestione di un’azienda sia nella regolazione del mercato.
«Chi vuole davvero un mercato basato sulla fair competition combatte strenuamente contro qualunque idea e qualunque prassi di meccanismo relazionale, in cui la concorrenza viene messa in secondo piano. Il “whistleblower” rompe dal basso questo meccanismo non meritocratico»
Vale anche dalle nostre parti?
Nella tradizione europea/continentale c’è un aspetto molto più pronunciato che riguarda la vita pubblica e non quella privata delle aziende e dei regolatori. Tanto è vero che, per rimanere nel campo italiano, i primi tentativi di dire “italiani, attivatevi per segnalare le cose che non vi convincono” sono stati in campo fiscale, perché fu Vincenzo Visco il primo a tentare un discorso di questo tipo. E lì sono sopravvenuti problemi.
Di che tipo?
La parte pubblica ha un po’ stravolto le caratteristiche fondamentali di che cosa deve essere il whistleblower, di come deve essere pubblica la sua azione, di quali debbano essere le tutele da prestargli. Tant’è vero che nella storia dell’utilizzo di questo strumento da parte del fisco italiano tante volte si è riproposto il problema su cui molti ancora oggi obiettano, e cioè che si inviti alla delazione anonima. Delazione anonima che poi, se si guardano i dati storici, ha prodotto una percentuale insignificante di di accertamenti e di identificazione imponibili sconosciuti allo Stato. Il punto è invece quello di unire le due sfere in cui il whistleblower è molto importante: quella del mercato e quella della vita pubblica, ponendo dei presidi che siano analoghi sull’identificazione delle caratteristiche della segnalazione civile, sulle tutele e così via.
Ora arriverà una legge.
Attenzione. Perché questo possa davvero avvenire in realtà occorre una rivoluzione culturale. Questo è l’aspetto più importante, delicato e secondo me sottovalutato. Nell’evoluzione della cultura d’impresa americana ci sono voluti decenni perché le segnalazioni dal basso di pratiche di promozione, retribuzione, discriminazione, soprattutto di genere, e poi le segnalazioni di improprie prassi negli organi esecutivi di gestione dell’azienda e nei rapporti col regolatore venissero introiettati come una parte fondamentale della Csr, cioè della responsabilità sociale d’impresa. Perché le resistenze sono state fortissime. Ci sono stati casi che hanno segnato la storia della giurisprudenza, l’evoluzione del costume delle imprese. Uno è stato reso famosissimo anche da un film (Insider - Dietro la verità, ndr) che è stato molto seguito: il caso di un dirigente di una multinazionale del tabacco che alla fine si sente in conflitto di coscienza rispetto a quello che gli chiedono di fare.
Anche negli Usa c’è quindi voluto del tempo.
Negli anni Sessanta e Settanta non sono state rose e fiori, anche dal punto di vista della giurisprudenza. Ma alla fine si è radicato un costume culturale che ha fatto di questo tipo di segnalazioni dal basso una vera e propria codificazione nello statuto delle imprese ed è diventata una parte essenziale degli anticorpi interni che devono esistere, devono essere riconosciuti e anche promossi dalle imprese come parte cruciale innanzitutto della credibilità del proprio brand e come una parte fondamentale del valore dell’impresa, in senso proprio tecnico e finanziario della questione. Quindi, c’è voluto tempo, non sono cose che si fanno dalla sera alla mattina.
«Negli Usa il whistleblowing è diventato una parte essenziale degli anticorpi interni che devono esistere, devono essere riconosciuti e anche promossi dalle imprese come parte cruciale innanzitutto della credibilità del proprio brand e come una parte fondamentale del valore dell’impresa»
E in Italia?
In Italia questo è complicato. Io non mi illudo minimamente che un’approvazione di una legge possa portarci dalla sera alla mattina, o da un anno all’altro, davvero a migliorare le cose, e lo dico perché sono innumerevoli gli esempi all’interno delle imprese private, come nella pubblica amministrazione, di reazione durissima all’emergere di situazioni di questo tipo.
Ce ne fa uno?
Da due anni alcuni bravissimi giornalisti con le loro inchieste coinvolgono una battaglia a proposito dei falsi e truffaldini sistemi di certificazione interna per le consegne della posta ordinaria del segmento più elevato commerciale da parte di Poste. È un meccanismo di certificazione in base a cui nel contratto di servizio universale Poste incassa 260 milioni di euro in base a quegli indicatori. Da due anni noi non siamo riusciti a ottenere né una risposta pubblica ufficiale di Poste in relazione all’indagine amministrativa interna e ai provvedimenti che ne sono stati scaturiti, né una risposta in Parlamento da parte della controparte pubblica che è firmataria del contratto di servizio universale e che dà i soldi: il Mise (ministero dello Sviluppo economico, ndr) non è mai andato in Parlamento a rispondere. Anzi, ci risulta che i dipendenti interni che hanno collaborato con le loro interviste anonime siano sottoposti a reazioni molto dure da parte dell’impresa. Ma di esempi di questi tipi ce ne sono infiniti.
«Io non mi illudo minimamente che un’approvazione di una legge sul whistleblowing possa portarci dalla sera alla mattina a migliorare le cose, e lo dico perché sono innumerevoli gli esempi, nelle imprese private e nella pubblica amministrazione, di reazione durissima all’emergere di situazioni di questo tipo»
Il testo alla Camera dice che le segnalazioni possono essere effettuate in forma anonima, sebbene solo se adeguatamente documentate. Si tutela quindi l’anonimato: è corretto o bisogna sempre evitare le denunce anonime?
 
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Questo punto è probabilmente uno dei più delicati dell’intera questione. La mia opinione è che quando si ha la certezza di aprire un capitolo che non è mai stato toccato prima, nel senso che non esistono tutele a questo tipo di segnalazioni nel nostro Paese, bisogna sapere che occorrono procedure “rafforzate”.
Cosa vuol dire?
Vuol dire che nel nostro Paese, perché questa cosa funzioni e si radichi all’inizio, bisognerebbe immaginare che le segnalazioni, tanto in un’impresa media, piccola, grande privata, quanto in un gruppo pubblico, abbiano come ricevente una organizzazione ad hoc presente nell’impresa, composta da indipendenti, e sottoposta a scrutinio di amministratori indipendenti. Immaginare organi di questo tipo significa poter fin dal primo momento attutire, anzi, annullare la possibilità di segnalazioni anonime. Le segnalazioni per essere verificate devono essere con identità esplicita.
Ma con tutela massima.
Ovviamente, perché ci sia una identità esplicita quello che occorre garantire è la tutela assoluta che quei nomi non vadano a chi amministra la società, sia esso un management privato o espresso dal privato o espresso dal governo o dal sindaco. Allora, se c’è un organo autonomo, indipendente di questo tipo, le denunce devono fin dal primo momento essere identificative e devono poter prevedere procedure tutelate fuori dalle aziende. Nell’attimo in cui l’organo indipendente le verificasse fondate, a quel punto dobbiamo immaginare un Paese in cui il cittadino segnalatore diventa pubblico e ipertutelato.
«Perché il whisteblowing si radichi bisognerebbe immaginare che le segnalazioni abbiano come ricevente un’organizzazione ad hoc presente nell’impresa, composta da indipendenti. Con organi di questo tipo si può fin dal primo momento annullare la possibilità di segnalazioni anonime»
Secondo Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità Anticorruzione, c’è il rischio che l’Anac tuteli l’identità per le segnalazioni che sta già ricevendo e che poi, quando la palla passa alle procure, notoriamente un colabrodo, la riservatezza sia violata. È un rischio concreto?
È un rischio più che concreto, è certo. Gli organi preposti, che bisogna introdurre nella gestione delle società, devono essere in grado di sviluppare indagini che non portino a delle conclusioni fino alla richiesta di provvedimenti esecutivi o all’archiviazione. Altrimenti, l’effetto paventato da Cantone è certo. E a quel punto addio ai whistleblower.
All’Agenzia delle Entrate hanno capito queste sottigliezze tra anonimato e riservatezza?
Temo di no e spero di essere smentito. Temo proprio di no perché sono radicalmente critico del fatto che l’Agenzia delle Entrate consideri la propria missione al servizio dell’incremento del gettito. L’Agenzia delle Entrate, se vuole avere una pretesa fondativa della propria organizzazione esterna alla pubblica amministrazione italiana, deve essere al servizio del cittadino e non dell’aumento del gettito. Questo significa che deve essere in grado di trattare segnalazioni nel modo già detto, cioè di non chiedere segnalazioni anonime, garantendo la riservatezza, e dall’altra parte deve essere in grado di capire che non può e non deve dire che al cittadino riserverà il lato oscuro della forza. Ogni cosa oscura è segno di un fisco autoritario.
In un’azienda va premiato chi denuncia? «Certo che sì, perché a quel punto contribuisce al valore dell’impresa»
In Italia una norma del genere si presterà ad abusi, a vendette, a protezioni improprie di posti di lavoro a rischio?
Il rischio c’è, è molto elevato, noi siamo un Paese stracolmo di microconflittualità. Bisogna sapere che all’inizio questo fenomeno ci sarà senza dubbio. Detto questo, se ben congegnata, la norma pone il problema a chi fa il “segnalatore civile” di essere ragionevolmente certo di quello che dice. Anche questo è questione di rivoluzione personale. 
È opportuno dare dei premi in denaro a chi fa il whistleblower, o si creano dei cacciatori di taglie?. Il Ddl lo prevede, mentre Cantone è contrarissimo, per lui il premio deve essere di tipo morale unito alla sicurezza di essere tutelati.
Distinguiamo i livelli. Se parliamo di dare un premio a chi identifica gli imponibili sconosciuti allo Stato, sono contrario anch’io, perché questo significa sostituirsi alla Guardia di Finanza e all’Agenzia delle Entrate. Cosa diversa è invece tutto l’amplissimo capitolo che riguarda il crone capitalism. Nel senso che in molti statuto delle imprese americani è entrato un meccanismo premiale.
In un’azienda va premiato chi denuncia?
Certo che sì, perché a quel punto contribuisce al valore dell’impresa. E quindi è logico che ci sia una sorta di premio per chi ha dato un apporto importante al miglioramento dell’efficienza, della trasparenza e della correttezza della gestione dell’impresa nel suo rapporto con i lavoratori. Quella è civiltà. Stiamo parlando di un mondo che misura, attraverso questi indicatori “etici” la creazione di valore.
«Noi abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale che riguardi tutti, non di eroi. Il whistleblowing deve diventare un ordinario. Finché l’idea che passa è che è un eroe chi fa questo, non ne verrà un apporto significativo per la trasparenza e l’efficienza del Paese»
In definitiva, questo Ddl Businarolo lei l’avrebbe votato?
Avrei fatto una battaglia su ciascuno di questi punti. Temo che non sarebbero stati accolti e temo, lo dico da filomercato, che nessuno si sarebbe voluto sporcare le mani con parti che riguardano le imprese. Perché viviamo in un Paese in cui a chiacchiere sono tutti contro gli eccessi del privato e dove, quando si tratta di entrare nel merito, tutti spariscono. A quel punto sarei rimasto con un problema di coscienza, che credo avrei risolto così: una dichiarazione di voto in cui avrei detto “meglio un passo avanti sulla cui attuazione vigilare, che ci consenta poi di correggere gli errori, piuttosto che sbattere la porta dicendo che non ne abbiamo bisogno”. Perché non è vero che non ne abbiamo bisogno.
Forse questo è un caso in cui abbiamo bisogno di eroi. 
No. Questo è il punto di fondo. Noi abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale che riguardi tutti, i lavoratori, le parti terze, i clienti, i fornitori, e tutti i cittadini del mondo pubblico. Deve diventare ordinario che esista la possibilità, se uno è ragionevolmente certo di quello che dice, di poter fare segnalazioni di questo tipo che verranno processate in maniera tutelata ma che poi diventano pubbliche perché questo significa costruire valore pubblico o valore di impresa. Non di eroi. È il contrario. Finché l’idea che passa è che è un eroe chi fa questo, significa che è uno sprezzante del rischio, del lavoro e della sopravvivenza. Allora in quel caso non ne verrà un apporto significativo per la trasparenza e l’efficienza del Paese.

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