mercoledì 16 marzo 2016

Elezioni Roma 2016, Giorgia Meloni e Matteo Salvini non saranno mai Donald Trump

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No, non sono impazziti. E dietro al tira e molla sulle candidature romane della destra non c'è solo il tema della sfida alla leadership berlusconiana, non solo quella che Ezio Mauro chiama «una contesa di eredità». Nel backstage di una destra governata sempre più dalle emozioni e sempre meno dal realismo politico, c'è l'ossessione di non perdere il treno dei movimenti populisti che avanzano in Europa, l'idea di poter essere se non il Front National francese o il Pis polacco, almeno l'Afd tedesco, e la convinzione che se la messe del voto di protesta, del voto anti-europeo e sovranista, del voto a dispetto, va al Cinque Stelle è perché la guida berlusconiana è troppo vecchia e stanca per interpretare quel mondo lì, e forse neppure lo vuole.
Si immagina Roma come il laboratorio della svolta lepenista italiana. E si immagina questa svolta come qualcosa di possibile, anzi inevitabile, qualcosa che si sente nell'aria e che viaggia sulle suggestioni di Del Debbio, le invettive di Feltri, le analisi apocalittiche della Magli e della Fallaci, oltreché sul tam tam dei social network e dell'esaltazione mistica sulle bacheche al grido di “Ruspe”. L'ultimo pezzo che si è incastrato nel puzzle è il successo di Donald Trump, che offre sponde addirittura superiori al superomismo sovranista di Vladimir Putin e consente (oltre al resto) di non rinnegare lo schema occidentalista che è nel Dna della destra italiana. Se lui vince parlando di muri, di pistole, di stupratori messicani, perché noi no? Perché dovremmo restare attaccati allo schema più o meno civile di una destra di governo se è palese che non governeremo mai più?
Questa è la domanda. E la risposta è questo caotico laboratorio romano dove il maggior affollamento di candidati sta nella fetta più piccola della torta elettorale – quella dell'estremismo di destra, 8/10 per cento nel 2013 – con la convinzione che quello spicchio sia destinato ad allargarsi a dismisura se ci sarà l'offerta giusta, e possa addirittura diventare un'onda altissima come è successo in Francia, in Germania, e soprattutto come sta succedendo in America.
Questa destra innamorata di Trump è però poco attenta alla storia e alla cronaca, e non si rende conto che i suoi modelli d'oltreconfine e d'oltreoceano hanno un vantaggio competitivo che né Giorgia Meloni né Matteo Salvini né altri di quell'area lì potranno mai esibire: la verginità politica, l'essere nuovi, il non aver mai gestito né città, né Regioni, né tantomeno governi centrali, la coscienza senza apparente macchia degli outsider ai quali nessuno potrà mai chiedere “perché non l'hai fatto quando eri al potere tu?”. Ma non solo. Come ai pugili, per essere davvero cattivi sul ring, serve “la fame”, ai politici che cercano il successo nell'emozione populista servono dosi di cinismo ai limiti della crudeltà che nessun italiano (per fortuna) possiede e che in Italia non funzionerebbero. Salvini può dire “ruspe” ma neanche lui riuscirebbe a stracciare le foto dei profughi infangati al confine greco dicendo “Non fatevi ricattare dagli occhi dei bambini” come ha fatto la tedesca Frauke Petry. Storace può fare battute sui ristoratori indiani, ma neanche lui potrebbe chiedere (come ha fatto Trump coi musulmani) la chiusura totale delle frontiere agli indù. La Meloni può parlare contro il rischio del terrorismo islamista, ma neanche lei arriverebbe a proporre di interdire internet ai ragazzi dei Paesi a rischio (sempre Trump).
La spregiudicatezza senza limiti che muove il successo dell'estrema destra americana ed europea non è pane per i denti di questi epigoni italiani, persone che hanno avuto la loro parte in tempi anche recenti, abituate più al comodo tran tran dei talk show che alla sfida di piazza, ben vestiti, ben nutriti, anche antropologicamente lontani dalla severità quasi monastica di Marine Le Pen e dal rigore calvinista della Petry, figlia e moglie di un pastore protestante, cresciuta nella Germania Est, 4 figli a quarant'anni e mai il vezzo neppure di una camicetta colorata. Non hanno “la fame” dei pugili esordienti, non vengono dalla strada ma da carriere parlamentari lunghe un trentennio, con più bouvette che marciapiedi nell'ultimo tratto.
Questa destra che si vorrebbe estrema ed estremista ma è borghese e imborghesita da un pezzo, può trovare sintonia con spicchi sociali più o meno estesi, ma difficilmente riuscirà a intercettare gli stati d'animo del mondo più vasto dei perdenti della globalizzazione, cioè il vero nocciolo duro dell'inaspettato successo di Trump, ma anche di Sanders, o del Front National, ma anche di Podemos. Può parlare al ceto medio impoverito, alle partite Iva spaventate dalla crisi, ma non all'enorme bacino italiano del non voto, che avrebbe bisogno di ben altri personaggi e suggestioni per tornare ai seggi, e che è al momento la sola area che potrebbe determinare sorprese elettorali. La destra del Terzo Stato, insomma, quella della revolution bourgeoise del '94, non può riproporsi vent'anni dopo come interprete del Quarto, e pretendere che quelli gli credano. 

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