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Questo articolo è tratto dal numero del ''Venerdì" in edicola

Il 23 luglio 2004 al Tour si corre una tappa, la diciottesima, che sembra di puro trasferimento. Montagna dura il giorno prima, cronometro impegnativa il giorno dopo. I campioni si risparmiano. Gli altri, chi vuole e chi può, cercano la fuga buona. Probabile che il gruppo non vada in caccia. Una vittoria al Tour vale come minimo un rinnovo di contratto, e poi si entra nell’albo d’oro. Non è soddisfazione da poco. Si va da Annemasse a Lons-le-Saunier, 166 chilometri. Dopo una trentina parte una fuga che può essere quella buona. Sono in sei: Flecha, Fofonov, Mercado, Joly, Garcia Acosta e Lotz. Quando il loro vantaggio è di un minuto dal gruppo esce una maglia bianconera, della Domina Vacanze, numero 198. È Filippo Simeoni che ci riprova. Ci aveva già provato nella tappa di Guéret: 122 km di fuga col basco Landaluze, ripresi a 80 metri dal traguardo. Volata a Mc Ewen. Ma stavolta alla ruota di Simeoni c’è la maglia gialla, il numero 1, Lance Armstrong. Quel che succede dopo non s’era mai visto, sulle strade del ciclismo. Dopo 14 km d’inseguimento, e tira solo Simeoni, la strana coppia raggiunge i primi.

"Bravo Simeoni, bel numero, mi dice Armstrong per sfottere. Poi va a parlottare con gli altri, in particolare con Garcia Acosta che è il più anziano. E poi Garcia Acosta si lascia scivolare al mio fianco: se Armstrong resta qui la nostra fuga è condannata. Lui dice che se ti stacchi tu si stacca anche lui, il gruppo vi ripiglia e a noi ci lascia andare. Mi sono staccato per non danneggiare dei colleghi, è finita che ha vinto Mercado e il gruppo è arrivato a 11 minuti. Potevo vincere io, o almeno provarci, e Armstrong me l’ha impedito. Questo, nel film, emerge poco".

Il film è The program, diretto da Stephen Frears. Racconta la parabola di Armstrong, da giovane campione del mondo a malato di cancro, da malato guarito a vincitore di sette Tour de France, ma con l’aiuto del doping. Simeoni è andato a vederlo con una certa curiosità. "Quella che può avere chi ha già vissuto la realtà sulla propria pelle. È un film crudo, racconta bene quel che succedeva in quegli anni in certe squadre, quelle che avevano più quattrini e più tecnologia, ma anche più coperture dall’alto, così da permettersi un doping d’élite. Che ci fosse l’ombrello dell’Uci sulla testa di Armstrong il film lo fa capire chiaramente. Nemmeno coi suoi gregari si poteva competere. Se prima, ai tempi dell’Epo, c’era chi si dopava non per vincere ma per tenere le ruote, il dopo-Epo ha portato rassegnazione, almeno nelle grandi corse a tappe. Le sacche di sangue per le trasfusioni rappresentavano un doping a cinque stelle, di lusso, per pochi".

Simeoni lavora dietro al bancone del bar aperto nel 2010 in società con il cognato. "Any bar, Any sarebbe Annalisa mia moglie. Bar tabaccheria ricevitoria lotto, d’estate gelateria con giochi per bambini all’aperto. Tabacchi, mi viene da ridere. A scuola ero il terrore dei miei compagni, gli spezzavo le sigarette prima che le accendessero. Non fumate, fa male. Adesso le vendo, e qualcuno me lo rinfaccia". Come Armstrong gli rinfacciò di aver testimoniato contro il dottor Ferrari, prima lo definì un totale mentitore in un’intervista a Le Monde, poi dovette incassare la querela di Simeoni. Questo per chiarire la situazione che pesava su quel 23 luglio. "Una volta che ci eravamo staccati, Armstrong mi disse che avevo sbagliato due volte, mettendo in mezzo Ferrari e poi querelando lui per diffamazione. “Ho tanti soldi e tanti bravi avvocati, posso rovinarti quando voglio”. E poi, quando il gruppo ci riprese, mi fece il gesto della bocca cucita. Ma non è questo che mi ha fatto più male. Sono stati gli insulti pesantissimi dei colleghi italiani. Guerini s’è scusato quasi subito, Nardello dopo un po’, Pozzato mai. Servi dell’imperatore, questo sono stati. Quella sera ho pensato di ritirarmi, poi ci ho ripensato. Ero la vittima, non il colpevole. E ho il mio orgoglio: nell’ultima tappa, quella sì di trasferimento per tradizione, ho attaccato quando Armstrong stava facendo le foto coi bicchieri di Champagne, in testa al gruppo. E i suoi si sono tirati il collo per venirmi a prendere. Poi Ekimov mi ha fatto il gesto delle corna, ma io ero soddisfatto, la provocazione era riuscita. Ci ho provato anche dopo, sui Campi Elisi, sempre per provocare, per far vedere che ero vivo, ma sapevo che per me ci sarebbe stato disco rosso".

Non l’ultimo, vedremo più avanti. Per chiudere con quel 23 luglio, va precisato perché una cosa del genere non si era mai vista. Perché un Coppi, un Anquetil, non sarebbero mai intervenuti in prima persona e in maglia gialla su un fuggitivo non pericoloso in classifica. Avrebbero stroncato prima l’iniziativa del corridore sgradito, o avrebbero mandato avanti un loro gregario a dettare le condizioni. Il gesto di Armstrong, mafioso oltre che antisportivo (ma nemmeno sanzionato dalla giuria, il che la dice lunga sulla sua intangibilità d’allora) voleva essere una pubblica umiliazione del reprobo Simeoni, ma si rivelò un boomerang perché portò molti a chiedersi i veri motivi d’un gesto tanto sproporzionato. Invece di chiudere la vicenda, Armstrong fece così accendere i riflettori sui suoi rapporti col dottor Ferrari. Grave errore. Se ne accorse due giorni dopo, quando disse a un giornalista della Gazzetta "ho fatto una cazzata". Ma ormai era tardi.

Non è tardi, parlando con Simeoni, per capire cosa spinge un ciclista "pulito" verso il doping e poi in direzione opposta: pentimento, collaborazione con la giustizia, belle vittorie ottenute senza doping, emarginazione dal grande ciclismo con relative amarezze ma ancora speranze in un altro ciclismo. A Sezze è presidente onorario dei Pirati (in memoria di Pantani e in omaggio a Pantani, "che era il più bravo e ha pagato per tutti"). Età massima 13 anni. Sono una sessantina. "Corre anche Simone, il primo dei miei due figli, ma non l’ho spinto io. L’altro, Antonio, è ancora piccolo".

Maglia gialloblu. Da questi colori parte il racconto. "Le maglie gialloblu le vedevo dalla finestra, a Seregno. Erano quelle della Salus. Ero un bambino, Abitavamo vicino allo stadio Ferruccio. Mio padre da Sezze s’era trasferito in Lombardia, dove per i muratori a cottimo il lavoro era garantito. Di nove figli era l’unico maschio. Due sorelle, zia Cenzina e zia Maria, dopo avere spedito le foto, come nel film di Sordi, erano andate a sposarsi in Australia. A 9 anni mi tessero. Quando ne ho 12 la famiglia torna a Sezze. Mio padre lavora la campagna, mia madre apre un negozio di alimentari. Per me il ritorno è un trauma. Non ho amici, non conosco nessuno. Parlo con accento milanese, i compagni mi considerano un alieno e me ne fanno di tutti i colori. Fortuna che c’è Fabrizio, grande e grosso, anche lui figlio di emigranti, padre minatore in Belgio. Mi protegge da due-tre bulli che poi hanno fatto una brutta fine. A scuola vado bene, in camera ho il poster di Hinault, continuo a sognare che un giorno vincerò il Giro d’Italia, la corsa che mi affascina di più. Mi diplomo ragioniere, ho due fratelli laureati in Economia e commercio, ma la passione per il ciclismo è troppo forte. Vado a correre per la Sic di Jesi, tre anni fuori casa, anni belli perché a Jesi mi hanno trattato come un figlio. Nell’ultimo anno da dilettante mi accorgo che qualcosa non quadrava. Mi battevano corridori che fino a pochi mesi prima battevo. Vado in Abruzzo dal dottor Santuccione e mi faccio spiegare come funziona l’Epo. Me lo spiega, ma resisto alla tentazione. Passo professionista con la Carrera di Pantani e Chiappucci. E le cose quadrano ancora meno. A fine ‘96 mi decido e vado dal dottor Ferrari, che in gruppo chiamano dottor Mito, il più bravo allievo del professor Conconi. Molto celebrati anche dalla stampa. Ferrari mi dice che non ha tempo da perdere con quelli scarsi, può assistermi solo se supero alcuni test, in pratica valuta la mia cilindrata. Supero i test, posso accedere al trattamento. Ferrari è un grande, nel suo campo. Affascina. Prima del Giro del Trentino e dopo adeguati trattamenti mi dice che posso finirlo nei primi cinque. Finisco quinto. Al Giro d’Italia vado forte ma per una tendinite mi devo ritirare quando sono diciassettesimo in classifica".

Nessun rimorso? "No, facevo quello che facevano in tanti, probabilmente tutti. E come tutti vedevo l’Epo come medicina, non come doping. Veniva a costare sui 10 milioni l’anno, allora non c’era l’euro, più 5 o 6 in farmaci. L’Epo funziona a patto di allenarsi intensamente e seguire una dieta ferrea. Una terapia. Non percepivo né l’inganno che attuavo né i pericoli che correvo. Molte morti sospette di giovani corridori, nel sonno, in quegli anni. La molla mi è scattata nel ‘99, quando hanno perquisito la casa del dottor Ferrari e poi, in base alle cartelle cliniche, le case dei corridori che si erano rivolti a lui. Anche la mia, all’alba. Carabinieri che rovistano nel frigorifero, aprono i cassetti, mia madre agitata che mi dice: Filippo, cos’hai combinato? Non mi hanno trovato medicinali, solo appunti su taccuini. Avrei potuto cavarmela come altri, ma ho capito che sbagliavo e non si poteva continuare su quella strada. Al processo ho confermato la testimonianza, mi hanno squalificato per nove mesi, poi ridotti a quattro. Con chi mi conosceva non ho avuto problemi, ma per il gruppo ero diventato l’infame, la spia, quello che sputa nel piatto dove ha mangiato. Devo ringraziare Vincenzo Santoni, che mi ha permesso di tornare a correre e di cavarmi qualche soddisfazione. Vincere senza doping, due tappe alla Vuelta e, a 37 anni, il campionato italiano. Ma a quella vittoria è legata l’amarezza più grande: la Gazzetta, che organizza il Giro d’Italia, mi ha escluso da campione d’Italia preferendo invitare una squadretta galiziana. Una carognata. Sarà un caso, ma Armstrong aveva annunciato il suo ritorno alle corse proprio in quel Giro. Ed è col suo ritorno che si sono scoperti gli altarini. Ho scritto a Berlusconi, che era premier, e non mi ha risposto. Avrei dovuto scrivere a Napolitano. Sono andato in federazione e ho restituito polemicamente la maglia tricolore. E per questo mi hanno squalificato tre mesi. Nel 2009 ho chiuso".

Bilanci. "Ho dato al ciclismo 29 anni di vita e ho dato più di quanto ho ricevuto. Ma qualcosa mi ha dato: un sacco di sogni, ricordi di ogni tipo, gioie e dolori, mi ha formato il carattere, mi ha fatto girare il mondo. Avrei potuto correre fino a 40 anni, ma psicologicamente ero devastato. Ogni tanto qualcuno mi chiede se, a distanza di anni, mi sono pentito di avere testimoniato al processo di Bologna. Se non volevo rogne, era meglio tacere. Ma in un certo senso mi sentivo costretto a parlare, a mandare un segnale forte. E non ho fatto nomi di corridori, solo di medici. Ad Armstrong hanno tolto tutto, ma non ne sono felice. Nella vicenda tra lui e me nessuno ha vinto, tutti hanno perso. Più che con lui, ce l’ho con chi ha governato il ciclismo e gli ha permesso di fare quello che ha fatto. Da quando Riccardo Viola è presidente Coni del Lazio, giro per le scuole medie, porto un dvd che riassume la mia carriera e insisto sulle quattro colonne, per me, dello sport a giovani: sacrificio, impegno, allenamento e studio. Mi chiedono se il ciclismo è più pulito rispetto a quando correvo e dico di sì, ci voleva poco. Ma quanto è pulito? Non lo so, lo vedo in tv, so che se tornassi nel mondo del grande ciclismo ci entrerei a testa alta e molti dovrebbero abbassare gli occhi. Ma non ho voglia di tornarci. Il mio ciclismo sono questi ragazzini, i Piratini. E gli raccomando di sognare, di continuare a sognare finché possono. A smettere, c’è sempre tempo".