martedì 28 aprile 2015

Riceviamo e pubblichiamo.

Ichino: «Aprirsi agli investimenti esteri vale 3 punti di Pil all’anno»

Parla il giuslavorista, da poco rientrato nel Pd: «La Cgil di Lama era molto più aperta di quella della Camusso»
La nuova skyline di Milano, quartiere Porta Nuova (Credits: GABRIEL BOUYS/AFP/Getty Images)

La nuova skyline di Milano: gran parte dei grattacieli di Porta Nuova è stato acquistato da un fondo del Qatar (Credits: GABRIEL BOUYS/AFP/Getty Images)

   
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«Ero liberal-democratico anche quando ero un deputato del Partito Comunista». A volerla sintetizzare in una frase, non ce n'è una migliore di questa per raccontare il percorso intellettuale e politico di Pietro Ichino, coerente con le sue idee, pur avendole perseguite attraverso diverse appartenenze politiche: del resto, ricorda «la fuga dal diritto del lavoro», con la nascita del precariato, «è avvenuta a metà degli anni ’70», come conseguenza della nascita dello Statuto dei Lavoratori e del suo articolo 18. Oggi Ichino, incassato il Jobs Act, guarda oltre: semplificare il mercato del lavoro non è che il primo passo per «portare nuovi investimenti esteri in Italia» e riallinearla alla media europea. Questo, a suo dire, potrebbe portare in Italia 50-60 miliardi di Pil aggiuntivo, pari a circa 3 punti percentuali all’anno.
Professor Ichino, che sensazione le fa tornare nel partito da cui se n’era andato tre anni fa?
Come il ritorno in una casa abitata per molto tempo, dopo un viaggio di studio. Alcune cose nuove da sistemare al posto di alcune vecchie. Ma dal punto di vista delle ragioni del mio impegno politico, ora non è cambiato nulla rispetto ai due anni di Scelta Civica, così come in quei due anni non era cambiato nulla rispetto a prima: gli obiettivi sono rimasti sempre gli stessi.
Allora lei se ne andò in polemica con Bersani e Fassina, che guidavano il Pd. Oggi a minacciare la scissione sono loro...
Nel dicembre 2012 non sono uscito dal Pd solo per un dissenso rispetto alla linea di chi lo guidava, ma perché da un paio d'anni, dentro il partito, ero trattato come un corpo estraneo. In ogni città in cui venivo invitato, talvolta anche da circoli Pd, a tenere una relazione o una conferenza, veniva promossa subito prima o subito dopo una contro-iniziativa pubblica ufficiale per impedire o limitare il "contagio". Nel novembre 2011, quando Mario Monti manifestò l'intendimento che io fossi il suo ministro del Lavoro, un alto dirigente del Partito Democratico (l'attuale presidente Matteo Orfini ndr) disse che questa sarebbe stata «una provocazione» e avrebbe condannato il Governo a morire prima ancora di nascere.
E se la sinistra Pd ”rottamasse” Renzi? Non teme la restaurazione, la fine del jobs act, il ritorno all'articolo 18?
No. Non è accaduto in passato per le grandi svolte compiute dalla nostra politica del lavoro sul part-time, sul monopolio statale del collocamento, sul lavoro temporaneo tramite agenzia, sulla scala mobile, sulla struttura della contrattazione collettiva. Nonostante la vecchia sinistra avesse fatto le barricate su ciascuno di questi capitoli, la caduta di ciascuno di quei tabù è stata digerita da tutti prestissimo e nessuno si è mai sognato di rivendicare un ritorno indietro. Avverrà la stessa cosa per l’articolo 18.
«Non c’era bisogno della sfera di cristallo: bastava guardare ciò che accadeva in Paesi che erano avanti rispetto a noi di due o tre decenni, senza il paraocchi del provincialismo della nostra vecchia sinistra, per la quale “in Italia è diverso, quelle cose non si possono fare”»
Lei combatteva le rigidità del mercato del lavoro già negli anni '70, quando era deputato del Pci e lavorava per la Cgil. Da dove nasce questa sua avversione?
Quel che mi ha mosso è sempre stato il confronto con quello che avveniva nei Paesi anglosassoni e in quelli scandinavi: vedevo quanto le cose funzionavano meglio in quei mercati del lavoro, dal punto di vista del benessere e della sicurezza dei lavoratori. E avevo la percezione che da noi fossero proprio alcuni pezzi del nostro sistema di protezione del lavoro a produrre effetti gravemente dannosi: in particolare, le mie prime due battaglie della fine degli anni ‘70, quella per il riconoscimento del part-time e quella per il superamento del monopolio statale del collocamento, nascevano dallo studio diretto dell’esperienza britannica e di quelle olandese e svedese. Non c’era bisogno della sfera di cristallo: bastava guardare ciò che accadeva in Paesi che erano avanti rispetto a noi di due o tre decenni, senza il paraocchi del provincialismo della nostra vecchia sinistra, per la quale “in Italia è diverso, quelle cose non si possono fare”.
Il Pci di allora raccoglieva anche i liberal-democratici. E la Cgil di Luciano Lama era molto più aperta di quanto lo sia la Cgil di Susanna Camusso.
Era già liberal-democratico quando lavorava nella Cgil e veniva eletto in Parlamento dal Pci, quindi?
Sì: il Pci di allora raccoglieva anche i liberal-democratici. E la Cgil di Luciano Lama era molto più aperta di quanto lo sia la Cgil di Susanna Camusso. D’altra parte, non occorreva molto neanche allora per capire che questo è l’unico vantaggio dell’essere un Paese arretrato: poter sfruttare parassitariamente le esperienze affinate in decenni di sperimentazioni d’avanguardia da parte dei Paesi più avanzati. Il problema era che la cultura dominante nel Pci nutriva una sorta di snobismo sprezzante nei confronti di quelle esperienze, che squalificava come “socialdemocratiche”; ma i “miglioristi” – i Lama e i Napolitano – c’erano già allora.
Poi, dalla fine degli anni ’80, è stata la volta della battaglia contro il dualismo fra lavoratori protetti e non protetti, con una quindicina d’anni di anticipo sulle polemiche da sinistra contro la legge Biagi...
Sì, si è arrivati a sostenere che la legge Biagi del 2003 avrebbe introdotto in Italia 50 tipi di contratti precari, per consentire l’elusione delle protezioni fondamentali del lavoro a tempo indeterminato. In realtà la legge Biagi non ha introdotto nel nostro ordinamento neppure una sola forma di rapporto di lavoro precario che non esistesse già prima, salvo rinominarla e dettarne una nuova disciplina, comunque non più permissiva della precedente. La realtà è che la fuga dal diritto del lavoro, che io incominciai a denunciare con un saggio dell’89, era già incominciata nella seconda metà degli anni ’70 e si avvaleva principalmente di un tipo di contratto riconosciuto dalla legge fin dagli anni ’50: la collaborazione autonoma coordinata e continuativa. Poi negli anni ’80 incominciarono a essere utilizzati anche il contratto di formazione e lavoro, che era sostanzialmente una forma di apprendistato, il contratto di associazione in partecipazione, conosciuto già nel codice civile del 1865, e il lavoro cooperativo. Ma quella dei 50 tipi di contratto di lavoro è solo una leggenda metropolitana: i tipi di contratto non superano la dozzina.
Il Jobs Act nasce per eliminare questo tipo di dualismi nel mercato del lavoro, ma in realtà ne crea di nuovi, ad esempio quello tra lavoratori "pre" e "post" riforma...
Quando si modifica la disciplina di un contratto di durata, cioè di un contratto che ha per oggetto una prestazione protratta nel tempo, è inevitabile che ci si trovi di fronte alla scelta tra applicare le nuove norme anche ai vecchi rapporti intervenendo su equilibri negoziali già costituiti, modificando il contenuto di posizioni giuridiche già esistenti, oppure limitarne l’applicazione ai nuovi rapporti, dando luogo a una transitoria disparità di trattamento fra vecchi e nuovi. Resta comunque il fatto che, nel caso delle nuove norme in materia di licenziamento, la disparità di disciplina tra vecchi e nuovi è destinata a essere superata nel giro di pochi anni, per effetto del turnover della forza-lavoro.
Ok, ma se domani c'è un licenziamento collettivo, i lavoratori collettivi pre-Jobs Act, muniti di articolo 18, possono essere reintegrati, gli altri no...
Nella grande maggior parte dei casi, i nuovi assunti nel vecchio regime non avevano neppure un contratto regolare a tempo indeterminato e potevano essere lasciati a casa senza alcuna procedura o indennizzo. Quando poi avevano la fortuna rara di essere assunti a tempo indeterminato, la vera discriminazione ai loro danni, nel licenziamento collettivo, era semmai costituita dal criterio di scelta last in first out, “l’ultimo a entrare è il primo a essere licenziato”, che li penalizzava sistematicamente a priori. Chi oggi accusa di incostituzionalità la riforma non ha mai versato una lacrima né speso una parola contro questa regola. La disparità fra vecchi e nuovi portata dalla riforma è comunque cosa ben diversa dal regime di apartheid che è stato in vigore fin qui fra protetti e non protetti: d’ora in poi ci sarà la giustapposizione di un regime di protezione vecchia maniera, basato sull’ingessatura del posto di lavoro, e un regime di protezione nuovo, basato soprattutto sulla sicurezza economica e professionale del lavoratore nel mercato. I giovani che si affacciano sul mercato del lavoro sanno bene che oggi è meglio quest’ultimo.
«L’unico modo per affrontare il problema degli escusi dal mercato del lavorto è riaprire il Paese agli investimenti esteri»
Basta il Jobs Act, quindi, per eliminare il dualismo del mercato del lavoro?
Luca Ricolfi sostiene da tempo che in realtà ci sono non due, ma tre Italie: quella dei garantiti, quella dei produttori che rischiano e quella degli esclusi. L’effetto immediato della riforma è di rimettere in comunicazione tra loro il mondo dei garantiti e quello di chi rischia, trasformando profondamente il sistema della “garanzia” per aprirlo a tutti i lavoratori che entrano nel tessuto produttivo regolare da qui in avanti. In questo consisterà l’abbattimento del diaframma che divide l’“Italia dei garantiti” dall’“Italia di quelli che rischiano”. La questione dei dieci milioni di esclusi, posta da Luca Ricolfi, riguarda invece i disoccupati di lunga durata e tutti gli italiani che vorrebbero avere un’occupazione professionale ma rinunciano persino a cercarla in un mercato del lavoro nel quale considerano impossibile trovarla.
Markus Spiske/Flickr

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Come si può fare a chiudere questa forbice?
L’unico modo per affrontare seriamente questo problema consiste nel puntare, da un lato, a un ampliamento della base produttiva del Paese, con l’aumento della domanda di lavoro, soprattutto attraverso la riapertura del Paese agli investimenti diretti esteri; dall’altro a un aumento della partecipazione al mercato del lavoro da parte degli italiani, soprattutto delle italiane, dei giovani e dei cinquanta-sessantenni, attraverso la riduzione selettiva della pressione fiscale sul lavoro e con l’attivazione di un sistema servizi nel mercato che consenta di individuare le occasioni di lavoro e di dotare le persone delle capacità necessarie.
D'accordo, ma il Governo sembra totalmente assorbito in battaglie di retroguardia industriale come Indesit, Terni, Electrolux. Altro che investimenti esteri...
Se solo riuscissimo ad allineare l’Italia alla media UE per capacità di attrarre investimenti stranieri, cioè a portarla da un flusso annuo inferiore all’uno per cento del PIL a un flusso pari al 4,5 per cento, questo significherebbe l’ingresso in Italia di 50 o 60 miliardi di euro ogni anno, accompagnati da piani industriali capaci di valorizzare il lavoro degli italiani mediamente meglio di come sono valorizzati nelle aziende a capitale e management indigeni.
«In Italia gli investimenti diretti esteri sono pari a meno dell’uno per cento del Pil, la media europea è attorno al 4,5%«
Se lei ha ragione, ci spiega perché la politica - sia a destra, sia a sinistra - è così refrattaria all’arrivo delle multinazionali estere?
È vero, si è registrata sempre una vera e propria ostilità bi-partisan. Da destra per un drammatico ritardo nel superare le istanze nazionaliste e autarchiche del ventennio, da sinistra per una sostanziale incapacità di liberare la propria cultura dall’idea della multinazionale rapace, capace solo di spolpare le aziende e il territorio circostante per poi andarsene lasciando povertà e devastazione. Fatto sta che, dalla vendita dell’Alfa Romeo alla Fiat invece che alla Ford in poi, è stata una sequenza continua di barriere opposte indifferentemente da governi di centrosinistra o di centrodestra: contro AT&T che voleva investire su Telecom, contro Abertis per Autostrade, contro ABN Amro per Antonveneta, contro Air France-KLM per Alitalia, contro i tedeschi e gli svizzeri in difesa dei monopoli di FF.SS. e Poste Italiane, contro Lactalis per Parmalat, e l’elenco potrebbe continuare.
Milano, quartiere Bicocca

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Perfetto, ci ha convinto. bisogna puntare sull’attrazione di capitali e imprese estere. Ora però ci deve spiegare come fare...
Occorre agire principalmente su cinque leve: riduzione della pressione fiscale su imprese e lavoro, maggiore efficienza delle amministrazioni pubbliche, incominciando da quella della giustizia, allineamento del costo dell’energia agli standard degli altri Paesi europei maggiori, efficientamento del mercato del lavoro e allineamento del diritto del lavoro ai migliori standard dei Paesi industrializzati. In genere, quando si parla di queste ultime due leve i sindacalisti sollevano l’obiezione “benaltrista”, riferendosi alle prime tre. Ma occorre agire contemporaneamente su tutte e cinque. E mi sembra che sia quello che cerca di fare il Governo Renzi, anche se non sempre con la stessa incisività ed efficacia.
Lei parla spesso di cosa non dovrebbe fare il sindacato. Proviamo a ribaltare i termini della questione: cosa dovrebbe fare?
Come ho spiegato nel mio libro, intitolato per l'appunto “A cosa serve il sindacato”, dovrebbe riscoprire la propria vocazione originaria al servizio dei lavoratori nel mercato, prima ancora che nel luogo di lavoro. Ma dovrebbe anche incominciare a svolgere il ruolo di guida dei lavoratori per la ricerca nel mondo globalizzato dell’imprenditore migliore, di quello che ha il piano industriale migliore e la capacità di realizzarlo, per poi ingaggiarlo negoziando a 360 gradi i termini della scommessa comune. È quello che fecero benissimo i metalmeccanici inglesi di Sunderland con la Nissan nel 1985. Ed è quello che fecero malissimo i dipendenti di Alitalia nel 2008 respingendo Air France-Klm e preferendo una italianissima cordata di imprenditori che non avevano mai fatto volare un aereo in vita loro.
Come ci si iscrive, perché, quanto costa e quali servizi offrono i sindacati. La puntata della guida al lavoro de Linkiesta e Adapt dedicata al sindacato

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A proposito di aerei che stanno per decollare: che cosa le piace di più e cosa meno, del Jobs Act?
Sul piatto buono della bilancia metto la nuova disciplina dei licenziamenti, la nuova assicurazione universale contro la disoccupazione, l’istituzione del contratto di ricollocazione, come nuovo strumento per un’assistenza di qualità a chi perde il lavoro per ritrovarlo, l’impegno per il varo entro l’anno del Codice semplificato del lavoro. Sul piatto cattivo della bilancia metto il fatto che la sperimentazione del contratto di ricollocazione e dei nuovi servizi per l’impiego avrebbe potuto e dovuto partire già all’inizio del 2014, mentre è ancora al palo, per le resistenze convergenti dall’interno della struttura ministeriale e da una parte delle organizzazioni sindacali.
Il prossimo tabù che deve cadere è quello della paura dell’“uomo solo al comando”, che è in sostanza la paura di un Governo capace di prendere decisioni e attuarle in tempi relativamente rapidi
Fino a poco tempo fa, in Italia si diceva che era più facile sciogliere il vincolo del matrimonio che non un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Nel giro di pochi mesi, abbiamo assistito a una piccola rivoluzione in entrambi gli ambiti. È solo una coincidenza?
No: in entrambi i casi è l’effetto della maggiore laicità che il Governo Renzi ha iniettato nel nostro sistema politico e di riflesso nel nostro ordinamento, nel senso dell’emancipazione dai tabù conservatori imposti da curie di diversa natura. Questo ha consentito alla politica di mettere a fuoco e soddisfare le nuove esigenze di una società civile e di un sistema economico che evolvono rapidamente. Il prossimo tabù che deve cadere è quello della paura dell’“uomo solo al comando”, che è in sostanza la paura di un Governo capace di prendere decisioni e attuarle in tempi relativamente rapidi: quello che l’Italia si è negata dopo la Liberazione per l’incombere di dittature di diversa natura, ma di cui oggi ha urgente bisogno.
Senato della Repubblica Italiana (Credits: FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)

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Oggi le categorie novecentesche di “destra” e “sinistra” sembrano superate e lo stesso Renzi sembra sfuggire ad una classificazione standard. Non è che questo alla lunga può diventare un limite? Quanto manca a Renzi un ideologo, uno che gli dia la direzione, come fu Anthony Giddens per Tony Blair?
Manca. Però capisco la sua riluttanza a riproporre acriticamente la contrapposizione destra-sinistra. Perché oggi lo spartiacque fondamentale della politica italiana non è questo, bensì quello che divide chi vuole davvero il processo di integrazione dell’Italia nell’UE e chi lo teme, o lo considera impossibile, o addirittura lo considera come la fonte di tutti i nostri problemi. Solo se guardiamo gli eventi politici alla luce di questo schema possiamo capire il fatto che, per un verso, un pezzo del centro-destra appoggi il Governo Renzi, mentre sul fronte opposto si allineano su posizioni sostanzialmente molto simili nei contenuti concreti circa le questioni decisive Vendola, Salvini, Gasparri, Meloni e Grillo.
Oggi lo spartiacque fondamentale della politica italiana non è questo, bensì quello che divide chi vuole davvero il processo di integrazione dell’Italia nell’UE e chi lo teme
Parliamo di Milano, Professore. Ha un identikit per il prossimo sindaco? Qualche consiglio da dargli?
Progettare un’alleanza con il Governo centrale e con le organizzazioni sindacali e imprenditoriali per combattere insieme la battaglia della globalizzazione. Che consiste nel riuscire ad attirare da tutto il mondo i professori e gli studenti migliori nei nostri nove atenei; ma anche nel selezionare gli imprenditori con i piani industriali migliori e riuscire a “ingaggiarli” e portarli qui, per valorizzare al meglio il lavoro dei “milanesi” attuali e potenziali.
Un’ultima domanda. Trenta anni fa lei ha avuto la capacità di intuire le linee evolutive del mercato del lavoro italiano nella sua interazione con l’economia globalizzata, l’Europa e la struttura sociale. Se oggi dovessimo proiettarci in avanti di trenta anni, quale Italia si immagina nel 2045?
Vedo due Italie future possibili, a seconda che quella attuale riesca, oppure no, a realizzare l’insieme di riforme che indichiamo sinteticamente con l’espressione “riforma europea”. Nel primo caso sarà un’Italia molto più simile di quanto non lo sia oggi alle società del nord-Europa, quindi con cittadini – soprattutto i più giovani – molto più mobili e meno ancorati al clan di origine, con un tasso di occupazione femminile intorno ai due terzi invece che alla metà, e tassi di occupazione dei giovani e dei cinquanta-sessantenni intorno alla metà invece che a un terzo. Se invece il processo di integrazione dovesse interrompersi, vedrei fra trent’anni un’Italia ancora legata al “modello mediterraneo”, con i suoi tassi di occupazione bassi, il suo welfare centrato sui servizi forniti informalmente dalla famiglia allargata, il raggio corto di mobilità delle nuove generazioni rispetto alla residenza dei genitori e dei nonni. In questo secondo scenario, però, che è uno scenario di bassa produttività media e bassa crescita, non mi è chiaro quale possa essere la sorte del nostro debito pubblico.

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dipocheparole     venerdì 27 ottobre 2017 20:42  82 Facebook Twitter Google Filippo Nogarin indagato e...