(© Getty Images) Una pattuglia dell'esercito israeliano al confine con la Striscia di Gaza.
Mi sarei aspettato di più dalla prima visita del vicepresidente della Camera dei deputati Luigi Di Maio in Israele e Palestina. E in ogni caso non mi sarei aspettato che riuscisse a inquinarla con un’imbarazzante quanto strumentale polemica riguardante il permesso di ingresso a Gaza.
Stava andando tutto piuttosto bene negli incontri precedenti; bene nel senso che non era mai andato oltre una certa convenzionale banalità di concetti.
Eppure materia di dibattito e di confronto ve ne era tanta in questa fase caratterizzata da una convergente attenzione alla possibilità di riprendere le fila di un “nuovo processo di pace” dopo il fallimento del piano del segretario di Stato Usa Kerry all’inizio del 2014.
Fila che rendono del tutto obsolete affermazioni del tipo «se il Movimento 5 Stelle va al governo riconoscerà lo Stato Palestinese» e la stessa semplicistica condanna di Hamas.
IL DIBATTITO SULLA CONFERENZA. Mi riferisco all’orizzonte segnato dalla Conferenza internazionale di pace per Israele e Palestina che la Francia sembra fermamente intenzionata a realizzare sulla scia della sessione preparatoria tenutasi nel giugno scorso a Parigi scorso, alla quale hanno partecipato i rappresentanti di una trentina di paesi e organizzazioni internazionali tra cui anche le Nazioni Unite, l’Unione Europea e la Lega Araba, mentre ne sono rimasti fuori i diretti interessati, cioè Israele (che vi si oppone) e l’Autorità palestinese.
Mi riferisco in quel contesto alla riesumazione del “piano saudita” del 2002 approvato da tutti i Paesi arabi, che prevede il riconoscimento di Israele a cambio del ritiro dei Territori occupati dal 1967 e che, nell’attuale, positivo clima dei rapporti tra Riad e Tel Aviv, sembra non del tutto indigesto al premier Netanyahu.
LA LUNA DI MIELE PUTIN-NETANYAHU. Mi riferisco alla proposta di mediazione avanzata dal presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi sempre sulla scia di quel piano di pace, che sembra aver trovato una certa accoglienza anche da parte dall’ultra conservatore ministro della Difesa israeliano Lieberman, che vede nel leader del Cairo un importante punto di riferimento strategico.
Mi riferisco alle prospettive strategiche della vera e propria luna di miele esibita da Putin e Netanyahu e ai suoi prevedibili riflessi anche sui rapporti tra Tel Aviv e Ramallah e Gaza.
Mi riferisco alla posizione del governo italiano, confermata anche poche settimane addietro dal ministro degli Esteri Gentiloni che Di Maio avrebbe potuto fare propria, non foss’altro che per contribuire a rafforzare il profilo del suo Paese all’estero e in quella regione, visto che nella sostanza non sembra discostarsene.
Stava andando tutto piuttosto bene negli incontri precedenti; bene nel senso che non era mai andato oltre una certa convenzionale banalità di concetti.
Eppure materia di dibattito e di confronto ve ne era tanta in questa fase caratterizzata da una convergente attenzione alla possibilità di riprendere le fila di un “nuovo processo di pace” dopo il fallimento del piano del segretario di Stato Usa Kerry all’inizio del 2014.
Fila che rendono del tutto obsolete affermazioni del tipo «se il Movimento 5 Stelle va al governo riconoscerà lo Stato Palestinese» e la stessa semplicistica condanna di Hamas.
IL DIBATTITO SULLA CONFERENZA. Mi riferisco all’orizzonte segnato dalla Conferenza internazionale di pace per Israele e Palestina che la Francia sembra fermamente intenzionata a realizzare sulla scia della sessione preparatoria tenutasi nel giugno scorso a Parigi scorso, alla quale hanno partecipato i rappresentanti di una trentina di paesi e organizzazioni internazionali tra cui anche le Nazioni Unite, l’Unione Europea e la Lega Araba, mentre ne sono rimasti fuori i diretti interessati, cioè Israele (che vi si oppone) e l’Autorità palestinese.
Mi riferisco in quel contesto alla riesumazione del “piano saudita” del 2002 approvato da tutti i Paesi arabi, che prevede il riconoscimento di Israele a cambio del ritiro dei Territori occupati dal 1967 e che, nell’attuale, positivo clima dei rapporti tra Riad e Tel Aviv, sembra non del tutto indigesto al premier Netanyahu.
LA LUNA DI MIELE PUTIN-NETANYAHU. Mi riferisco alla proposta di mediazione avanzata dal presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi sempre sulla scia di quel piano di pace, che sembra aver trovato una certa accoglienza anche da parte dall’ultra conservatore ministro della Difesa israeliano Lieberman, che vede nel leader del Cairo un importante punto di riferimento strategico.
Mi riferisco alle prospettive strategiche della vera e propria luna di miele esibita da Putin e Netanyahu e ai suoi prevedibili riflessi anche sui rapporti tra Tel Aviv e Ramallah e Gaza.
Mi riferisco alla posizione del governo italiano, confermata anche poche settimane addietro dal ministro degli Esteri Gentiloni che Di Maio avrebbe potuto fare propria, non foss’altro che per contribuire a rafforzare il profilo del suo Paese all’estero e in quella regione, visto che nella sostanza non sembra discostarsene.
Impreparazione, supponenza o calcolo?
Luigi Di Maio del Movimento 5 stelle.
E invece no. Ha sorvolato su tutto ciò, per impreparazione, per supponenza, oppure per calcolo, ritenendo che, per sfruttare appieno l’occasione di aggiungere un’importante tessera al mosaico della sua legittimazione internazionale offertagli dall’invito israeliano, fossero sufficienti alcune frasi-simbolo e l’impiego di quella tecnica polemica di marca prettamente nostrana di cui è ormai maestro.
Da qui la stigmatizzazione del cosiddetto “ impedimento” opposto dal governo israeliano alla delegazione guidata dal vicepresidente della Camera di recarsi nella Striscia di Gaza per visitare il progetto di un’organizzazione non governativa italiana pagato con i soldi dei nostri cittadini.
UNA FRASE CHE LASCIA PERPLESSI. Stigmatizzazione condensata nella frase: «Questo è un cattivo segnale non tanto per il Movimento 5 Stelle ma soprattutto per quello che è l’approccio dello stesso esecutivo israeliano rispetto alla situazione nella Striscia di Gaza e della pace nella regione».
Si tratta di una frase che lascia perplessi: perché certamente Di Maio era al corrente da tempo che non gli sarebbe stato permesso entrare nella Striscia di Gaza se non dopo una specifica procedura che evidentemente non ha potuto o voluto seguire.
PIATTA RETORICA NAZIONALISTICA. Di Maio doveva sapere che gli israeliani su queste cose non scherzano e che sono poco sensibili all’ossequio preteso da chi si crede tanto importante da poter superare le regole che governano le loro “ragioni di sicurezza”; perché correlare l’impedimento alla visita di un progetto «pagato con i soldi dei cittadini italiani» è stato peccare di piatta retorica nazionalistica e sfuggire ad un giudizio sulle pesanti criticità politiche e sulle asfissianti condizioni di vita della popolazione della striscia di Gaza.
Il tutto appesantito dall’estemporanea sortita che «se il Movimento 5 Stelle va al governo riconoscerà lo Stato Palestinese».
UN RISULTATO IRRITANTE. Il risultato è stato un irritante intervento di cui poteva fare a meno o che poteva argomentare in maniera più articolata. E che non è stato certo cancellato dalla cortesia formale con la quale è stato accolto alla Knesset, dove Di Maio ha tenuto a far sapere in perfetto politichese di aver parlato con tutti gli esponenti del parlamento israeliano e di essersi soffermato in particolare sull’importanza che l'Unione Europea non faccia passi indietro (senza specificare rispetto a che cosa) e sia presente come soggetto capace di svolgere un ruolo chiave (senza dire in quale direzione). Assicurando circa la disponibilità del Movimento 5 stelle a «insistere in tal senso».
Da qui la stigmatizzazione del cosiddetto “ impedimento” opposto dal governo israeliano alla delegazione guidata dal vicepresidente della Camera di recarsi nella Striscia di Gaza per visitare il progetto di un’organizzazione non governativa italiana pagato con i soldi dei nostri cittadini.
UNA FRASE CHE LASCIA PERPLESSI. Stigmatizzazione condensata nella frase: «Questo è un cattivo segnale non tanto per il Movimento 5 Stelle ma soprattutto per quello che è l’approccio dello stesso esecutivo israeliano rispetto alla situazione nella Striscia di Gaza e della pace nella regione».
Si tratta di una frase che lascia perplessi: perché certamente Di Maio era al corrente da tempo che non gli sarebbe stato permesso entrare nella Striscia di Gaza se non dopo una specifica procedura che evidentemente non ha potuto o voluto seguire.
PIATTA RETORICA NAZIONALISTICA. Di Maio doveva sapere che gli israeliani su queste cose non scherzano e che sono poco sensibili all’ossequio preteso da chi si crede tanto importante da poter superare le regole che governano le loro “ragioni di sicurezza”; perché correlare l’impedimento alla visita di un progetto «pagato con i soldi dei cittadini italiani» è stato peccare di piatta retorica nazionalistica e sfuggire ad un giudizio sulle pesanti criticità politiche e sulle asfissianti condizioni di vita della popolazione della striscia di Gaza.
Il tutto appesantito dall’estemporanea sortita che «se il Movimento 5 Stelle va al governo riconoscerà lo Stato Palestinese».
UN RISULTATO IRRITANTE. Il risultato è stato un irritante intervento di cui poteva fare a meno o che poteva argomentare in maniera più articolata. E che non è stato certo cancellato dalla cortesia formale con la quale è stato accolto alla Knesset, dove Di Maio ha tenuto a far sapere in perfetto politichese di aver parlato con tutti gli esponenti del parlamento israeliano e di essersi soffermato in particolare sull’importanza che l'Unione Europea non faccia passi indietro (senza specificare rispetto a che cosa) e sia presente come soggetto capace di svolgere un ruolo chiave (senza dire in quale direzione). Assicurando circa la disponibilità del Movimento 5 stelle a «insistere in tal senso».
Di Maio alla ricerca di legittimazione internazionale
(© Ansa) Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu.
Debbo confessare che di fronte a questa prima prova d’autore, ho provato un intimo moto di soddisfazione nel leggere l’apprezzamento nei riguardi dell’impegno svolto dall’Italia a favore della ripresa del dialogo di pace per la Siria da diverse testate arabe.
Impegno specificamente collegato agli incontri avuti lunedì 11 luglio dal nostro ministro Gentiloni con l’Inviato speciale delle Nazioni Unite Staffan de Mistura e con Riad Hijab, coordinatore dell’Alto Comitato negoziatore dell’opposizione siriana (Hnc) proveniente da Mosca.
LE ASPERITÀ DEL CONFRONTO. Intendiamoci, lungi da me ritenere quest’impegno decisivo ai fini di quel defatigante negoziato dove le maggiori potenze coinvolte stentano a trovare utili punti di convergenza almeno tattica; ma penso pure che sarebbe sbagliato svalutarne apoditticamente la portata.
Non solo per la coerenza che lo ha contraddistinto finora, ma anche per l’assenza di quelle ombre di opacità d’agenda di altri partner del Gruppo di supporto alla Siria e per il lavorio mirante a smussare le maggiori asperità del determinante contrasto politico-settario regionale che vede Iran e Arabia saudita, e relativi sodali, l’un contro l’altro armato.
Cominciando dal consolidamento della tregua, chiedendo di più alla Russia e all’Iran, propiziando un’uscita pilotata di Bashar al Assad, sostenendo in maniera più decisa le forze di opposizione “legittimate” e sollecitando un effettivo coordinamento tra Mosca e Washington nella lotta all’Isis e ad Al Qaeda.
Strada impervia ma che ci vede ben posizionati, almeno su questo teatro, per capacità di visione, pragmatismo e attenzione ai nostri interessi di fondo.
Si tratta di una ricetta che suggerirei caldamente al nostro vicepresidente della Camera nella sua giusta ricerca di legittimazione internazionale.
Impegno specificamente collegato agli incontri avuti lunedì 11 luglio dal nostro ministro Gentiloni con l’Inviato speciale delle Nazioni Unite Staffan de Mistura e con Riad Hijab, coordinatore dell’Alto Comitato negoziatore dell’opposizione siriana (Hnc) proveniente da Mosca.
LE ASPERITÀ DEL CONFRONTO. Intendiamoci, lungi da me ritenere quest’impegno decisivo ai fini di quel defatigante negoziato dove le maggiori potenze coinvolte stentano a trovare utili punti di convergenza almeno tattica; ma penso pure che sarebbe sbagliato svalutarne apoditticamente la portata.
Non solo per la coerenza che lo ha contraddistinto finora, ma anche per l’assenza di quelle ombre di opacità d’agenda di altri partner del Gruppo di supporto alla Siria e per il lavorio mirante a smussare le maggiori asperità del determinante contrasto politico-settario regionale che vede Iran e Arabia saudita, e relativi sodali, l’un contro l’altro armato.
Cominciando dal consolidamento della tregua, chiedendo di più alla Russia e all’Iran, propiziando un’uscita pilotata di Bashar al Assad, sostenendo in maniera più decisa le forze di opposizione “legittimate” e sollecitando un effettivo coordinamento tra Mosca e Washington nella lotta all’Isis e ad Al Qaeda.
Strada impervia ma che ci vede ben posizionati, almeno su questo teatro, per capacità di visione, pragmatismo e attenzione ai nostri interessi di fondo.
Si tratta di una ricetta che suggerirei caldamente al nostro vicepresidente della Camera nella sua giusta ricerca di legittimazione internazionale.
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