IL CASO
L'imprenditore Michele Luccisano:
"La 'ndrangheta vuole la mia azienda"
Negli ultimi anni il frantoio di Michele Luccisano ha subito sette furti. E lui stesso è stato vittima degli usurai, che ha fatto finire in galera. Mentre continuano intimidazioni e strani 'segnali', è convinto che le cosche vogliano costringerlo a chiudere, ma non vuole cedere
di Consolato Minniti
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«Ho dovuto imparare a guardare in faccia la ‘ndrangheta. I clan vogliono la mia azienda. So come parlano, so come ragionano. Ma non ho intenzione di cedere, nonostante lo Stato mi abbia lasciato solo dopo le mie denunce».
Una mattina d’aprile del 2009, Michele Luccisano riceve una telefonata. Nel frantoio che la sua famiglia gestisce da quasi 200 anni a Cittanova, nella Piana di Gioia Tauro, sono entrati i ladri. Non è la prima volta che accade, l’hanno già fatto in passato. Ma quando si presenta davanti al cancello dell’azienda, l’imprenditore trova un’amara sorpresa: i malviventi sono andati via chiudendo tutto con un lucchetto. Un loro lucchetto. Michele è costretto a contattare un fabbro per poter accedere al frantoio. Il messaggio è chiaro: quell’azienda non deve essere più della famiglia Luccisano, perché da quel momento è “cosa loro”. E “loro” sono la ‘ndrangheta.
A distanza di quasi cinque anni, all’alba del 16 gennaio scorso, Michele riceve l’ennesima telefonata che lo inquieta: qualcuno si è intrufolato di nuovo nella sua azienda, portando via almeno 3 tonnellate di olio e devastando il suo ufficio. Sì, perché i furti nello stabilimento della “Verdiana” hanno sempre un comune denominatore: la stanza di Michele è messa a soqquadro. Documenti, computer, agende, foto, arredamento: tutto devastato. E la centralina dell’allarme, abilmente staccata dal locale attiguo, viene poggiata sulla scrivania. È la settima volta che accade.
Sette furti in pochi anni, sette messaggi intimidatori nei confronti di un imprenditore che ha avuto il coraggio di denunciare un manipolo di usurai che lo ha portato sul lastrico. «Nel 2006 – racconta Luccisano – decido d’impegnarmi in un progetto di ricerca sull’olio d’oliva, riguardante l’abbattimento dei perossidi. Qualcosa di rivoluzionario, che andava fatto con la collaborazione dell’università di Salerno. Per ottenere i soldi necessari mi rivolgo alla mia banca che si mostra disponibile a concedere un finanziamento. Prendiamo un appuntamento alla presenza del funzionario del Ministero competente, ma il rappresentante della banca non si presenta. Deluso ed arrabbiato, mi sfogo con un amico. Anzi, con una persona che credevo fosse amica.
Mi prospetta la possibilità di ricevere un prestito. Mi fido di lui e da lì comincia il calvario».
I soldi arrivano. Luccisano ottiene 100mila euro, la somma necessaria per affrontare le spese per il suo progetto. Ma sono quattrini macchiati dalla piovra dell’usura. «Il tasso d’interesse viene fissato al 10 percento mensile. Restituisco 185mila euro e me ne chiedono altri 335mila. Solo dopo un’estenuante opera di convincimento, riesco ad abbassare la cifra a 100mila euro. All’improvviso, uno di loro mi contatta affermando di aver bisogno di “uscire” da questa storia e ne chiede altri 50mila». Luccisano sente di essere entrato in un vortice che lo annienterà. E scopre qualcosa di strano: quando sul suo conto bancario viene accreditata una somma di denaro, gli usurai lo contattano. «A volte, a distanza di soli 20 minuti dal bonifico, mi telefonavano», ricorda Michele.
Nel 2008, proprio mentre l’imprenditore deve far fronte alle richieste degli strozzini, il suo frantoio viene nuovamente preso di mira dai ladri. Ma accade un fatto strano. Nonostante nella stanza vi siano dei computer all’avanguardia, ancora imballati e facili da portar via, i malviventi concentrano la loro attenzione su un vecchio laptop, proprio quello su cui Luccisano tiene i conti dell’azienda di famiglia. «È chiaro – rimarca Michele – che fossero interessati solo all’andamento economico dell’attività». Lui non collega mai direttamente i furti e le intimidazioni all’usura. «Non ho prove certe per dimostrarlo», ripete quasi con ossessività. Ma la sua idea è chiara: ci deve essere una matrice comune.
Nel 2010, affossato dal denaro avuto a strozzo, denuncia gli usurai alla magistratura. In sei finiscono in manette, tre vengono denunciati a piede libero. Il processo, per quattro di loro, termina nel dicembre scorso con la condanna definitiva in Cassazione con pene fino a 8 anni e 6 mesi di reclusione. Ma per Michele questa storia non è ancora finita. «Uno dei miei usurai – sussurra fissando il vuoto – è ritenuto un affiliato alla cosca Molé di Gioia Tauro». Si tratta di uno dei clan più potenti della ‘ndrangheta, che controlla i traffici illeciti nel porto della Piana e fa affari in tutto il mondo grazie ai soldi ricavati dalla droga.
Per questo, Luccisano non ha dubbi: «Io la ‘ndrangheta l’ho vista in faccia. So come parla, so come si muove. E spesso parla per allusioni, altre volte è assai diretta. So anche cosa mi potrebbe accadere e mi auguro solo che decidano di non farlo». Non abbassa mai lo sguardo, Michele. Mai, tranne quando gli si chiede che aiuto abbia ricevuto dallo Stato, dopo la sue denunce. «Niente, nessun sostegno. Ho fatto richiesta per accedere al fondo di solidarietà per le vittime dell’usura e adesso, dopo tre anni, è stato adottato il primo provvedimento. È una miseria rispetto alle ingenti difficoltà avute tra i soldi dati a strozzo ed i 500mila euro persi per danni da furti ed intimidazioni. Questo non può essere il sistema di uno Stato etico che vuole combattere la mafia. Se il cittadino fa la propria parte, denunciando, lo Stato deve mantenere gli impegni. E così non è stato. Oggi posso dire con certezza che l’unica istituzione che mi è stata accanto è la procura della repubblica di Palmi. Gli altri non li ho mai visti». La tentazione di andar via dalla Calabria è forte, «ma poi penso che la mia azienda dà lavoro ad otto persone, che con quello stipendio fanno vivere le loro famiglie». E così si decide di andare avanti, nonostante la solitudine.
Anche l'ultima volta alla “Verdiana srl” si è lavorato per ripulire il pavimento dall’olio cosparso dai ladri. Nella mente di Michele, tuttavia, si trascina indelebile l’immagine di quel lucchetto fissato al cancello del frantoio: «So che vogliono impadronirsi della mia azienda. Ma sia chiaro: non apporrò mai il cartello “chiuso per mafia”. La mia vittoria sulla ‘ndrangheta sarà continuare a lavorare».
Una mattina d’aprile del 2009, Michele Luccisano riceve una telefonata. Nel frantoio che la sua famiglia gestisce da quasi 200 anni a Cittanova, nella Piana di Gioia Tauro, sono entrati i ladri. Non è la prima volta che accade, l’hanno già fatto in passato. Ma quando si presenta davanti al cancello dell’azienda, l’imprenditore trova un’amara sorpresa: i malviventi sono andati via chiudendo tutto con un lucchetto. Un loro lucchetto. Michele è costretto a contattare un fabbro per poter accedere al frantoio. Il messaggio è chiaro: quell’azienda non deve essere più della famiglia Luccisano, perché da quel momento è “cosa loro”. E “loro” sono la ‘ndrangheta.
A distanza di quasi cinque anni, all’alba del 16 gennaio scorso, Michele riceve l’ennesima telefonata che lo inquieta: qualcuno si è intrufolato di nuovo nella sua azienda, portando via almeno 3 tonnellate di olio e devastando il suo ufficio. Sì, perché i furti nello stabilimento della “Verdiana” hanno sempre un comune denominatore: la stanza di Michele è messa a soqquadro. Documenti, computer, agende, foto, arredamento: tutto devastato. E la centralina dell’allarme, abilmente staccata dal locale attiguo, viene poggiata sulla scrivania. È la settima volta che accade.
Sette furti in pochi anni, sette messaggi intimidatori nei confronti di un imprenditore che ha avuto il coraggio di denunciare un manipolo di usurai che lo ha portato sul lastrico. «Nel 2006 – racconta Luccisano – decido d’impegnarmi in un progetto di ricerca sull’olio d’oliva, riguardante l’abbattimento dei perossidi. Qualcosa di rivoluzionario, che andava fatto con la collaborazione dell’università di Salerno. Per ottenere i soldi necessari mi rivolgo alla mia banca che si mostra disponibile a concedere un finanziamento. Prendiamo un appuntamento alla presenza del funzionario del Ministero competente, ma il rappresentante della banca non si presenta. Deluso ed arrabbiato, mi sfogo con un amico. Anzi, con una persona che credevo fosse amica.
Mi prospetta la possibilità di ricevere un prestito. Mi fido di lui e da lì comincia il calvario».
I soldi arrivano. Luccisano ottiene 100mila euro, la somma necessaria per affrontare le spese per il suo progetto. Ma sono quattrini macchiati dalla piovra dell’usura. «Il tasso d’interesse viene fissato al 10 percento mensile. Restituisco 185mila euro e me ne chiedono altri 335mila. Solo dopo un’estenuante opera di convincimento, riesco ad abbassare la cifra a 100mila euro. All’improvviso, uno di loro mi contatta affermando di aver bisogno di “uscire” da questa storia e ne chiede altri 50mila». Luccisano sente di essere entrato in un vortice che lo annienterà. E scopre qualcosa di strano: quando sul suo conto bancario viene accreditata una somma di denaro, gli usurai lo contattano. «A volte, a distanza di soli 20 minuti dal bonifico, mi telefonavano», ricorda Michele.
Nel 2008, proprio mentre l’imprenditore deve far fronte alle richieste degli strozzini, il suo frantoio viene nuovamente preso di mira dai ladri. Ma accade un fatto strano. Nonostante nella stanza vi siano dei computer all’avanguardia, ancora imballati e facili da portar via, i malviventi concentrano la loro attenzione su un vecchio laptop, proprio quello su cui Luccisano tiene i conti dell’azienda di famiglia. «È chiaro – rimarca Michele – che fossero interessati solo all’andamento economico dell’attività». Lui non collega mai direttamente i furti e le intimidazioni all’usura. «Non ho prove certe per dimostrarlo», ripete quasi con ossessività. Ma la sua idea è chiara: ci deve essere una matrice comune.
Nel 2010, affossato dal denaro avuto a strozzo, denuncia gli usurai alla magistratura. In sei finiscono in manette, tre vengono denunciati a piede libero. Il processo, per quattro di loro, termina nel dicembre scorso con la condanna definitiva in Cassazione con pene fino a 8 anni e 6 mesi di reclusione. Ma per Michele questa storia non è ancora finita. «Uno dei miei usurai – sussurra fissando il vuoto – è ritenuto un affiliato alla cosca Molé di Gioia Tauro». Si tratta di uno dei clan più potenti della ‘ndrangheta, che controlla i traffici illeciti nel porto della Piana e fa affari in tutto il mondo grazie ai soldi ricavati dalla droga.
Per questo, Luccisano non ha dubbi: «Io la ‘ndrangheta l’ho vista in faccia. So come parla, so come si muove. E spesso parla per allusioni, altre volte è assai diretta. So anche cosa mi potrebbe accadere e mi auguro solo che decidano di non farlo». Non abbassa mai lo sguardo, Michele. Mai, tranne quando gli si chiede che aiuto abbia ricevuto dallo Stato, dopo la sue denunce. «Niente, nessun sostegno. Ho fatto richiesta per accedere al fondo di solidarietà per le vittime dell’usura e adesso, dopo tre anni, è stato adottato il primo provvedimento. È una miseria rispetto alle ingenti difficoltà avute tra i soldi dati a strozzo ed i 500mila euro persi per danni da furti ed intimidazioni. Questo non può essere il sistema di uno Stato etico che vuole combattere la mafia. Se il cittadino fa la propria parte, denunciando, lo Stato deve mantenere gli impegni. E così non è stato. Oggi posso dire con certezza che l’unica istituzione che mi è stata accanto è la procura della repubblica di Palmi. Gli altri non li ho mai visti». La tentazione di andar via dalla Calabria è forte, «ma poi penso che la mia azienda dà lavoro ad otto persone, che con quello stipendio fanno vivere le loro famiglie». E così si decide di andare avanti, nonostante la solitudine.
Anche l'ultima volta alla “Verdiana srl” si è lavorato per ripulire il pavimento dall’olio cosparso dai ladri. Nella mente di Michele, tuttavia, si trascina indelebile l’immagine di quel lucchetto fissato al cancello del frantoio: «So che vogliono impadronirsi della mia azienda. Ma sia chiaro: non apporrò mai il cartello “chiuso per mafia”. La mia vittoria sulla ‘ndrangheta sarà continuare a lavorare».
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