Locomotiva cercasi, disperatamente. Il bollettino della Banca d'Italia, le previsioni della Banca mondiale, l'allarme del Fondo monetario, la cauta preoccupazione di Mario Draghi, l'ultima profezia di George Soros: un’implacabile sequenza di docce fredde ha spento gli entusiasmi. Sei anni dopo lo scoppio della crisi, il motore dell’economia mondiale sbuffa, ma non parte. E non si sa chi può girare la chiavetta d’accensione, né come. Secondo la World Bank, quest'anno il prodotto lordo globale aumenterà del 3,2%, quello dei paesi sviluppati del 2,2 e l’Europa ancora più fiacca, mentre i paesi emergenti faranno registrare in media più 5,3 punti percentuali. L'Italia è pressoché piatta, con una crescita dello 0,7%. Non si può dire che sia una ripresa forte, certo non abbastanza da colmare la disoccupazione creata dalla lunga recessione e assorbire le nuove forze di lavoro, in particolare nel sud del mondo.
Dunque, l’orologio si è rotto e i pessimisti dicono che si sia rotto per sempre. Eppure, le nuove tecnologie ci sono, nuove e dirompenti come mostra un rapporto di McKinsey Global. I capitali abbondano, girano come trottole da New York a Londra, da Shangai a Tokio, via Sidney e Città del Capo in attesa di buone occasioni. Quanto al lavoro, certo non manca e oggi è disposto a essere impiegato a condizioni peggiori di prima. Il punto è che i fattori chiave della produzione non si combinano insieme in modo virtuoso e nel frattempo spunta un nuovo mostro: potremmo chiamarlo stag-deflation per fare il verso alla stag-flation (stagnazione più inflazione) degli anni ‘70.
Christine Lagarde, direttore generale del Fondo Monetario internazionale, ne ha parlato apertamente: una riduzione generalizzata dei prezzi che s’accompagna a bassa crescita, è dietro l’angolo. Larry Summers, eminente economista e segretario al Tesoro nella seconda amministrazione Clinton, batte sul tasto della “stagnazione secolare”, evocando una espressione di Alvin Hansen che si riferiva al grande timore nato alla fine degli anni ’30, quando si vide che il New Deal, efficace nel fronteggiare l’emergenza, non riusciva a mettere in moto gli investimenti di lungo periodo. Ad aggravare le nostre angosce ci si mette anche Soros secondo il quale la Cina sta per scoppiare a meno che Xi e Li non avviino riforme radicali, ad alto rischio politico per il regime.
Scelte monetarie coraggiose (americane, ma anche europee) hanno impedito che la grande recessione diventasse una grande depressione. Adesso, però, si vede che le banche centrali da sole non riescono ad avviare un nuovo ciclo di sviluppo. Quanto alle politiche fiscali, sono alla frutta. Se è così, ci aspetta un futuro dominato da spinte negative: popolazione in calo, aspettative crescenti e risorse calanti, mancanza di un acceleratore della forza e pervasività dell’elettronica, e soprattutto di un paradigma forte come la rivoluzione liberista che ha risposto al cambiamento dei termini di scambio provocato dall’aumento improvviso e fortissimo del petrolio e delle materie prime. Teoria e prassi allora si mossero all’unisono, in questo modo ebbero un ruolo importante, anzi determinante. Oggi non è così anche se la forza delle cose riporta in auge la mano pubblica come alternativa ai fallimenti della mano invisibile del mercato.
Il ritorno dello stato, in realtà, non appare un passo avanti, ma semmai due passi indietro ed è tutto giocato sul breve periodo; nessuno può più pensare che un governo possa gestire l’automobile, l’acciaio, le telecomunicazioni. Tanto meno nell’era web. Internet è il moderno monumento alla libertà individuale e al mercato. Chi come i 5 Stelle idolatra la rete e lo statalismo, non s’accorge di essere intrappolato in una contraddizione di fondo.
Il driver, dunque, non può essere il governo. Anche perché non è possibile fare il keynesismo in un solo paese: era vero quando c’erano le frontiere nazionali è ancor più vero oggi. Lo sanno anche i keynesiani i quali, infatti, chiedono qualche forma di controllo sui capitali o di tassazione alle attività finanziarie. Con il rischio di un grave effetto boomerang: il libero scambio delle merci e dei capitali è sempre stato (fin dall’Ottocento) la chiave della crescita mondiale e il ristagno odierno s’accompagna a un inaridirsi delle fonti di finanziamento e degli investimenti. Il flusso tra le economie del G20 era pari al 20% del prodotto totale nel 2007, con la recessione è sceso al 4,3%.
Paul Krugman (economista e premio Nobel, ndr) sostiene che il limite delle attuali politiche di deficit spending è che non si è speso abbastanza, i nuovi keynesiani, in altre parole, non sono puri e duri come i vecchi. Eppure, è chiaro che ormai nemmeno il governo degli Stati Uniti il quale tradizionalmente ha sempre avuto minori vincoli esterni, può spendere e spandere quanto vuole. Il signoraggio del dollaro come lo chiamava il generale de Gaulle s'è ridotto. Persino negli anni del boom il mercato non riusciva a finanziare i consumi e gli investimenti degli americani i quali si sono messi nelle mani dei cinesi; figuriamoci adesso. E anche se ci fosse un governo mondiale, non sarebbe mai in grado di controllare il gran gioco dello scambio, come lo chiamava Fernand Braudel. E per fortuna.
La ricerca di una risposta tutta politica, insomma, è destinata a finire in un vicolo cieco. Tuttavia la politica può fare da catalizzatore. Durante la crisi si sono messe in moto molte energie positive. Gli ultimi sviluppi tecnologici stanno creando nuove opportunità. Si pensi alle stampanti 3Do al terremoto provocato dallo shale gas. Una terza rivoluzione industriale è in fieri. L’Economist questa settimana spiega come le tecnologie informatiche stanno trasformando gli uffici dopo aver riplasmato le fabbriche. Non è solo distruzione, naturalmente, perché il modo di lavorare sta cambiando. Lo stesso impatto sull’occupazione non è scontato che sia negativo, come sostiene un ceto determinismo tecnologico, dipende da una serie di condizioni per le quali sono determinanti le scelte politiche. Quali?
La discussione è aperta anche se non con la necessaria profondità. Intanto, la lezione della crisi suggerisce almeno tre grandi campi d’intervento:
1. La politica monetaria che a questo punto dovrebbe puntare non più sul sostenere le attività esistenti, ma nel promuovere le nuove; la Bank of England ha varato il funding for lending, cioè prestiti per favorire nuove iniziative, la Banca centrale europea ha lanciato l’idea di finanziarie direttamente le piccole e medie imprese, la Federal Reserve sotto la guida di Janet Yellen potrebbe spostare, non ridurre, il programma di acquisto di titoli privati, dagli immobili agli investimenti produttivi.
2. L’austerità è servita ad avviare la riduzione dei debiti, pubblici in Europa, privati negli Stati Uniti, partendo dall’assunto che un sistema altamente indebitato spiazza gli investimenti. La sostenibilità fiscale, come scrive lo storico dell’economia Gianni Toniolo, resta un punto di riferimento per l’impiego dei capitali, quindi per la crescita. Ma a questo punto occorrono due correzioni fondamentali: a) le tasse vanno semplificate e ridotte, cominciando con il disboscare la giungla delle agevolazioni per arrivare a pagare meno, pagare tutti e pagare tutto; b) debbono essere spinti gli investimenti pubblici, a cominciare da quelli in infrastrutture (in senso lato dalle autostrade alla banda larga); nei paesi dell’area euro occorre che non entrino a far parte del vincolo di bilancio, dunque va rivisto il fiscal compact secondo un criterio meno “stupido” (come Romano Prodi definì il patto di stabilità).
3. Lo stato sociale: l’impatto della globalizzazione sui redditi privati e sui bilanci pubblici, la curva demografica, la riduzione dei salariati, l’aumento del lavoro autonomo (tendenze in atto in tutti i paesi industriali), impongono una revisione profonda del “patto socialdemocratico” creato nel secondo dopoguerra in società il cui prodotto lordo era formato dall’industria di massa. Ciò aprirebbe spazi ulteriori alla politica fiscale. Ma per non provocare un crollo del benessere e della tenuta sociale, occorre passare ad altri modi di organizzare, finanziare, distribuire il welfare. Vasto programma, però da qui non si scappa. Lo aveva capito Tony Blair anche se la sua shareholder's society è rimasta incompiuta. Hanno fatto passi avanti Gerhard Schröder in Germania e Göran Persson in Svezia, ma hanno corretto il vecchio modello, non ne hanno creato o nuovo. In Italia sembra averlo intuito Matteo Renzi, tuttavia il segretario del Pd non ha con sé il partito, per non parlare dell'intera sinistra.
Nessuna di queste scelte è una panacea, sia chiaro. La locomotiva non può che venire dagli animal spirits i quali, in ogni caso, non si muovono nel vuoto: oggi hanno bisogno di nuovi binari, di strade larghe, diritte, ben illuminate lungo le quali, con una buona spintarella, tornare a correre. Fino alla prossima crisi, naturalmente, che richiederà altri cambiamenti. Perché ormai dovremmo aver imparato un’altra lezione: l’economia è ciclica e chi diceva il contrario durante il ventennio dorato, era solo un incantatore di serpenti.
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