venerdì 8 luglio 2016

la Kyenge aveva ragione ed ha ragione.

Kyenge: “Mi definirono ‘Orango’, la politica ha sottovalutato”

Razzismo
Cecile Kyenge, ministro dell'Integrazione, durante la presentazione dei programmi Romed2 e Romact, volti a promuovere l'inclusione dei Rom e dei Sinti a livello locale, 18 gennaio 2014, a Milano. ANSA / MATTEO BAZZI
L’eurodeputata Pd ricorda il caso Calderoli e ora chiede una strategia contro il razzismo che coinvolga tutti i livelli della società
 
È stata una certa politica a far passare il messaggio che gli insulti razzisti sono accettabili. A lanciare l’accusa è l’ex ministro per l’Integrazione ed eurodeputata Pd, Cécile Kyenge, che nel 2013 è stata definita «un orango» dall’allora vicepresidente del Senato, il leghista Roberto Calderoli. Solo uno dei tanti insulti ricevuti per il colore della sua pelle da quando è diventata ministro. Oggi Kyenge, che al Parlamento europeo è relatrice del rapporto sull’immi – grazione, quando è in Italia è costretta a muoversi con una scorta. Lei continua a seguire i casi di razzismo ma, spiega, le leggi esistenti sono sconosciute e applicate raramente. Per la morte di Emmanuel Chidi Namdi si costituirà parte civile.
Il caso di Emmanuel Chidi Namdi è isolato o il sintomo di un fenomeno più grande? 
In questo episodio c’è sicuramente un fattore di razzismo. Questo per me è un fattore abbastanza importante. La politica non ha saputo dare delle risposte concrete e questo si è visto anche con quello che è successo con il caso Calderoli. Il messaggio che è arrivato alla popolazione è che questo insulto, che è praticamente la stessa cosa perché riporta la persona alle sue origini, al Paese di provenienza e al suo aspetto fisico, sia normale o che questo tipo di stereotipi e atteggiamenti siano una cosa di routine. È chiaro che le persone poi utilizzano questo linguaggio e gli effetti sono devastanti, come quello a cui abbiamo assistito in questo caso. Ne pagano il prezzo le vittime, che si sentono indifese, anche perché la legge non viene quasi mai applicata. Bisogna fare attenzione a tre aspetti: innanzitutto la politica deve pesare le parole, perché oggi è necessario accompagnare anche culturalmente una società che è in trasformazione e che deve riconoscere e istituzionalizzare la diversità, ma anche valorizzarla. Il secondo punto riguarda le leggi, che ci sono e vanno applicate, perché gli insulti razzisti sono punibili, ma noi li sottovalutiamo. Le vittime non conoscono i loro diritti, non sanno dove devono andare. Le persone si sentono in balia di qualsiasi pazzo che passa per la strada. Il fatto stesso che io oggi abbia una scorta vuol dire che sono in pericolo perché le persone sul territorio ti percepiscono come un pericolo per il colore della tua pelle. Il terzo punto è la società civile: io devo ringraziare tutte le associazioni che hanno lavorato sul razzismo perché si sono sempre costituite parte civile in tutti i processi che si sono svolti. Nel mio caso sono state le associazioni ad essere puntualmente presenti. Bisogna però lavorare sull’educazione, sulla cultura e sulla s cuola.
Anche nello sport ci sono spesso episodi di razzismo…. 
Serve una strategia contro il razzismo con una politica integrata, che vuol dire che dovrebbe interessare tutti i livelli, dallo sport alla scuola alla sanità ecc. Bisogna guardare alle buone pratiche che esistono in Italia, che possono servire da accompagnamento culturale per far capire alle persone che le diversità ci sono e quando vengono gestite bene diventano una ricchezza per il Paese. Al Parlamento europeo abbiamo creato un intergruppo sul razzismo per chiedere ad ogni Paese di varare un piano strategico contro le discriminazioni.
Dal punto di vista giuridico cos’è che non funziona? 
La legge Mancino (legge n.205 del 1993 che sanziona e condanna gesti, azioni e slogan legati all’ideologia nazifascista, e aventi per scopo l’incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali, ndr) è poco conosciuta. Da tre anni mi arrivano convocazioni a casa ogni uno o due mesi perché sono parte civile in molti processi. Quando arriva io e il mio avvocato siamo costretti a segnalare che la prassi che si sta utilizzando è quella sbagliata. D’altra parte le persone non conoscono nemmeno l’applicazione di quella legge. Ci sono delle parole che sono considerate razziste e parte d’ufficio la convocazione. Le parole di Calderoli ad esempio erano condannabili già d’ufficio, non c’è bisogno di fare altri passi. Ma siccome il contenuto di questa legge è sconosciuto ci sono diverse interpretazioni che mettono in difficoltà le vittime. Noi dovremmo fare sapere che queste parole sono sanzionate. Una persona può essere condannata per insulti razzisti. Il problema è che la legge viene applicata in pochissimi casi. Se si vanno a vedere concretamente non superano la dozzina quelli condannati in base alla legge Mancino. Eppure i casi sono tantissimi.
La legge sullo ius soli cambierà qualcosa? 
Una legge di per sé non basta, serve un cambiamento culturale. Ma si tratta di una riforma giusta e che bisogna fare. E’ importante arrivare fino in fondo nella riforma della cittadinanza perché è il più forte strumento di integrazione, il primo. Il messaggio che diamo ai giovani è quello delle pari opportunità. Se passa così com’è al Senato sarà la legge più inclusiva a livello europeo, anche più di quella tedesca considerata la migliore fino ad ora.

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