lunedì 22 maggio 2017

Salvini umilia Bossi, che pena la politica che non rispetta i padri (e la Storia)

La contestazione "salvinista" a Umberto Bossi al congresso leghista è qualcosa di più di un episodio isolato di cattivo gusto. È il sintomo di un modo, liquidatorio e sprezzante di fare politica. Che non è né costruttivo, né intelligente

TIZIANA FABI / AFP

22 Maggio 2017 - 07:07
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Ne abbiamo viste di rottamazioni di vecchi leader, ma mai così plateali e violente come quella toccata a Umberto Bossi. Il video dell'anziano fondatore della Lega, col suo eloquio appannato dalla malattia, la sua postura sbilenca, cacciato a furor di fischi dal palco del Congresso di Parma, resterà come metafora della crudeltà della nuova politica e della cattiveria con cui si libera di chi non gli serve più, a prescindere dal suo ruolo, dai suoi meriti e dai suoi errori.
Anche i partiti “di una volta” avevano il problema dei Grandi Vecchi da pensionare, spesso critici nei confronti delle evoluzioni del loro mondo di riferimento – pensiamo a Pietro Ingrao o a Giorgio Almirante – ma la tendenza era quella a trasformarli in monumenti, a tollerarne i moniti e comunque a riconoscerne il valore fondativo anche in nome del legame sentimentale coltivato nei loro confronti da larga parte dei militanti e degli elettorati.
Oggi il “Vae Victis” è assicurato, e generalmente viene espresso dando via libera alle platee più turbolente: il “fuori fuori” contro Pierluigi Bersani alla Leopolda del novembre scorso, i fischi contro Gianfranco Fini ai funerali di Pino Rauti, gli ululati contro Rosy Mauro nella “notte delle scope”, sono tutti capitoli della stessa storia. Ma la cacciata del Senatùr rappresenta un salto di qualità in questa vicenda di cinismo. Perché Bossi è molto anziano, 76 anni. Perché ha avuto un ictus, parla con difficoltà e non può difendersi verbalmente. Perché la contestazione era palesemente organizzata, con i cartelli “Salvini premier” tirati fuori all'unisono da una parte della platea e subito seguiti dalle urla delle ultime file.
La contestazione a Bossi, il “fuori fuori” contro Pierluigi Bersani alla Leopolda del novembre scorso, i fischi contro Gianfranco Fini ai funerali di Pino Rauti, gli ululati contro Rosy Mauro nella “notte delle scope”, sono tutti capitoli della stessa storia
Chiedersi perché Matteo Salvini, giovane leader rampante e idolo delle tv e dei social, abbia avuto bisogno di una pubblica umiliazione del fondatore del partito, è del tutto inutile.
È lo spirito del tempo, l'idea che non solo si deve avere l'assoluto controllo del partito ma anche dimostrarlo in modo plateale. Una bizzarra sindrome Kim Jong-Un che ha sostituito i consueti valori della mediazione e della rappresentanza plurale coltivati dai grandi leader. L'umiliazione di Bossi serve a dire a Berlusconi “qui comando io, punto”. A Maroni e a Zaia, “chi mi tocca muore”. A Renzi, “quando tratti con me tratti con tutta la Lega”. Ma, oltre ogni utilità politica, è la naturale evoluzione del culto della personalità che soprattutto a destra ha sostituito le normali dinamiche della politica. Il celebrato “uomo forte” si dimostra tale anche così, e la mancanza di ogni reazione avversa nella platea di Parma dimostra che la base apprezza le maniere rudi usate contro chi si mette di traverso, fosse pure un vecchio politicamente inoffensivo.
Con tutte le siderali distanze dal Senatùr, stavolta si ha voglia di solidarizzare con lui. Intercettò la questione del Nord quando nessuno ne parlava. Costruì un partito, gli diede riferimenti di spessore affidando a Gianfranco Miglio la costruzione di un'idea federalista che non si limitasse solo agli slogan. Fece di quel partito forza di governo.

Gli regalò un vocabolario e una mitologia – Padania, Pontida, Alberto da Giussano, il Dio Po – che hanno fatto sorridere molti ma erano più complessi ed evocativi della parola “ruspe”. Ridusse all'obbedienza persino Berlusconi, che dopo lo scherzetto del 1994, con la mozione di sfiducia che pose fine al primo governo del Cavaliere, mai più osò sfidarlo o rifiutargli concessioni. Ora esce di scena malamente, non solo pensionato (lo era già da oltre un decennio) ma sepolto dagli schiamazzi del suo stesso popolo. «Me ne vado, inutile aizzare gli animi». Una brutta scena, un brutto e ingeneroso epilogo.

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