venerdì 26 maggio 2017

La deriva grillina di Mdp. Ora è D’Alema a somigliare alla Guzzanti

Sinistra
Pierluigi Bersani e Massimo D'Alema alla Camera in una foto d'archivio. ANSA/ALESSANDRO DI MEO
A tre mesi dalla nascita il progetto sembra fallito
 
A tre mesi dalla sua nascita è legittimo chiedersi se l’operazione Articolo 1-Mdp sia già fallita. 
Se l’ambizione era quella di dare vita ad un partito capace di raccogliere dissensi e malumori in casa Pd a livello di massa e non solo di ceto politico, allora sì, l’operazione è fallita. Se il disegno era quello di creare una nuova forza politica più nettamente di sinistra ma con vocazione di governo, ancora una volta: sì, l’operazione è fallita. Purtroppo è così.
C’è da domandarsi se Mdp serva ad altro se non a coltivare uno spazietto politico-parlamentare per un pezzo di ceto politico. 
Non avanza grandi idee, si limita a fare interdizione a quelle dell’odiato Pd. Non svolge una grande azione sul territorio, non suscita particolari movimenti né di massa né di élites. Non partecipa granché alle discussioni sui grandi temi – dall’economia all’Europa. Non vengono alla ribalta nuovi leader, siamo sempre a Bersani e D’Alema.
Qualche volta ci azzecca, essendo i suoi parlamentari gente di una qualche esperienza, come sui voucher. Successi di un giorno, effimeri.
Il problema strategico di Mdp è di non avere uno sguardo lungo. Finisce così imprigionato nella mera protesta di breve periodo: ma lì è incommensurabilmente più forte Grillo. Scivola su posizioni estremiste antigovernative: ma lì sono più tosti i compagni di Sinistra Italiana. E, stringi stringi, la scissione al Pd ha fatto poco danno, in termini politici e, a guardare i sondaggi, anche elettorali. Se hanno provato ad avere qualche peso nelle primarie, il risultato si è visto.
Possibile che uomini come Bersani e D’Alema non si rendano conto di coltivare un’impresa politicamente sterile? Possibile che, per il bene della sinistra e delle loro idee, non comprendano che servirebbe un maggiore livello di pensiero e una più coerente azione di massa?
I due leader rischiano di essere la palla al piede del Movimento. Di frenare la formazione di un giovane gruppo dirigente meno assetato di vendette e pervaso di spirito rancoroso. Di diventare – ed è la cosa che più impressiona – una caricatura del grillismo.
Infatti loro praticano la strada breve del no a tutto. Come sulla legge elettorale. Un giorno criticano un progetto che non prevede cartelli elettorali, il giorno dopo vogliono la coalizione con gente che disprezzano, un altro giorno ancora vogliono il tedesco ma in realtà sperano che lo sbarramento non ci sia.
Vogliono che Gentiloni duri ma minacciano di farlo cadere, cercano Pisapia ma intuiscono che Pisapia gli sottrarrebbe visibilita e voti. Ma  la più bella in assoluto è: sì all’intesa col Pd ma non Renzi (confermato segretario del Pd da un mese, ndr).
La solita sindrome della “cespuglite” guida i comportamenti di Mdp. Un bertinottismo ma senz’anima. Lotta per la sopravvivenza più che per la testimonianza.
Nella confusione, è davvero stupefacente leggere un D’Alema – sul Corriere della Sera – ironizzare su “Renzusconi” – roba che nemmeno una Paola Taverna – proprio lui che in nome della Politica con Berlusconi cercò per anni un’intesa prima di essere regolarmente messo nel sacco. Adesso è D’Alema che somiglia a Sabina Guzzanti – quella vera.
Sembra incredibile che un leader cresciuto a pane e Togliatti (al IX Congresso del Pci, 1960, dodicenne diede i fiori al Migliore) esalti un partito del 3% come il suo, che si senta a suo agio nell’avvoltolarsi nella più banale propaganda neo-gruppettara (ah, quanto sono lontani gli anni della battaglia contro l’estremismo!), accostandosi forse inconsapevolmente alla sottocultura girotondina (ah, quell’epica assemblea a Firenze duellando con Paul Ginsborg!) e persino travagliesca – le stantie frecciate alla Boschi.
Inebriato dalla vittoria del 4 dicembre, nella quale egli assegna a se medesimo un ruolo strategico, D’Alema ha evidentemente voglia di tornare a calcare le scene nazionali da protagonista – malcelando questa ambizione con il solito “non sono candidato a nulla” – forse perché è in scadenza il suo incarico di presidente della Feps (l’organizzazione delle Fondazioni dei partiti socialisti europei): a fine giugno al suo posto potrebbe andare un socialdemocratico svedese della Fondazione Olaf Palme.
Può darsi – anzi è probabile – che nel Mdp si aprirà a un certo punto una discussione che sfoci in un forte rinnovamento generazionale e ad un ripensamento della funzione di un piccolo partito di sinistra. È l’unica speranza. L’alternativa è nota: fare la triste fine di tutti i gruppi minoritari.

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