venerdì 10 febbraio 2017

Questo è proprio un grande giornalista. Mai sentito parlare o scrivere su Renzi dicendo che ha fatto una sola cosa buona. E pensare che i grillini fanno le liste di proscrizione dei giornalisti. E Renzi cosa dovrebbe fare?

Direzione Pd, ansia da blitz elettorale: diario di solitudine e smania di Renzi, lontano dal Nazareno (con le casse senza un euro)

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RENZI
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Nell’immagine, evocativa, c’è tutto: “Blitz Kongress”, così lo chiamano nella cerchia stretta di Renzi. Congresso lampo, subito, di qui a maggio. Poi voto a giugno: il 21 la data cerchiata in rosso. Al massimo a settembre, il 24, altra data segnata in rosso e spifferata oggi come più probabile, nello stesso giorno in cui si gioca il destino di Angela Merkel nelle elezioni tedesche. Per convocare il congresso subito, l'ex premier ha intenzione di presentarsi dimissionario alla direzione di lunedì. Da giorni l'ipotesi è sul tavolo ma, secondo Unità.tv, la decisione sarebbe pressoché presa. 
Conta l’animus, in queste ore. Prima di tutto. Ed è il sogno e, al tempo stesso, l'incontenibile pulsione verso la blitzkrieg, una guerra lampo: "Non ci sto a fare il bersaglio per mesi". Renzi la immagina e la pianifica, questa guerra, anche lontano da occhi indiscreti. A Roma sta poco, sempre meno. Il vero quartier generale è a Firenze. Da qualche settimana ha allestito un nuovo ufficio, molto lussuoso e sorvegliato (con discrezione) in uno storico palazzo di Borgo Pinti, vicino il Four Season, luogo molto amato dall’amico Marco Carrai e dove alloggiò Benjamin Netanyahu nel corso della sua visita in Italia. Quelli del partito sono a Roma, con le loro lentezze, gli uffici polverosi, che tanto lo innervosiscono. Pare che l’ex premier non ami il secondo piano del Nazareno, dove è l’ufficio del segretario, con tutto quel via vai di dipendenti che vanno a prendere il caffè alle macchinette. Anche a Roma vorrebbe un ufficio appartato e con l’accesso per pochi, al terzo piano. Le stanze sono state identificate: sono quelle dove faceva i suoi conti l’ex tesoriere Luigi Lusi. 
Lotti, Bonifazi, pochi altri entrano a borgo Pinti. Dove si parla di liste elettorali e di facce nuove. E di come fare una nuova campagna elettorale, nel senso di risorse, soldi, perché una campagna senza soldi è come andare in guerra senz’armi. E le casse del Pd sono vuote, anzi svuotate. Da due anni alle federazioni non viene girato il famoso due per mille. Perché quello del 2015 è stato usato per l’Unità, quello del 2016 per il referendum con la sua dispendiosissima campagna. Ora non c’è un euro. Anche gli inesauribili granai emiliani si stanno svuotando: cassa integrazione per i dipendenti a Modena e Ferrara, Bologna tiene ma con i salti mortali. E chissà, pensano i maliziosi, se c’è qualche nesso tra le casse vuote e gli articoli di giornali ispirati su Sposetti e il patrimonio del Pd. 
L’animus racconta questo. Rancore, ansia di rivalsa, astinenza da potere. Nelle ultime ore, in parecchi hanno chiamato o mandato messaggi a Bonifazi, con la domanda: “quale è la linea?”. La risposta è stata fulminea, come il blitz immaginato. Risposta in tre punti: 1) elezioni a giugno, perché non si può usurare l’unico leader che abbiamo; 2) non è in atto nessun tentativo serio su legge elettorale e dunque le prossime due settimane servono a certificare incapacità Parlamento a trovare accordo; 3) presa di distanza dal governo che con manovrina su accise ci fa perdere il consenso. 
Ecco, il Pd vissuto come un fardello, il governo come figlio di nessuno, l’Italia meno frequentata del Four Season. Quando un sondaggio ha dato Gentiloni più su di Renzi, l’ex premier ha chiesto a fedele Fanucci di fare la lettera critica sul Tesoro, per criticare la prossima manovrina. In privato, lo chiama così, con un certo fastidio per una fotocopia che pensa non gli somigli per niente: “Il governo Gentiloni-Padoan-Calenda”. Ha fatto capire insomma che, se ci prova, Gentiloni rischia il trattamento Letta. Poi ha invitato Padoan in direzione, o meglio alla kermesse di lunedì, per fargli illustrare i risultati del governo, il precedente non l'attuale, tanto per ribadire chi comanda.
Frenetico, rapporto quasi compulsivo con il telefono, incapace di staccare. L'ex premier chiama, mentre va a prendere i figli a scuola, per dire che “sì, chissenefrega, devo sbattermene delle correnti, torno a fare Renzi, alzo il livello, giro l’Europa, parlo con Macron, nel frattempo facciamo una legge elettorale e si vota nel 2018”. Poi, quando a Roma vede il nuovo cerchio magico Rosato-Guerini-Orfini, indossa i panni del notaio dei capi-corrente. E, dopo una giornata di riunioni, va al Tg1 su una linea concordata, finendo in un servizio in mezzo tra l’apertura su Gentiloni e la reazione di Speranza. “Un panino! Vi rendete conto! È finito in un panino” bofonchiava Anzaldi in Parlamento, sempre più critico sulla comunicazione gestita dai suoi allievi, che però non hanno superato il maestro: “A me Rutelli m’avrebbe cacciato se fosse finito in un panino”.
Tattiche, strategie, politicismo puro. Con Orfini dice che questa legge o quella per me pari sono, l’importante è fare presto. Oppure no, dice a Orlando e Franceschini, ho capito che la forzatura è impossibile, andiamo più avanti così mi rimetto in sintonia col paese. L’unica certezza è il congresso subito, per fregare la sinistra. Una trappola, così la imbriglia nel congresso, e così quando tenta il blitz ha sterilizzato la scissione, perché a quel punto diventa incomprensibile. I sindaci si sono attaccati a telefono sul numero del Nazareno: “Come facciamo a fare le amministrative e le liste con un congresso tra i piedi?”. La risposta è: non vi preoccupate, a maggio è finito.
Perché la verità è che, poiché conta l’animus più di tutto, l’animus rivela una insofferenza profonda per la sinistra. Per D’Alema, Bersani, Speranza, anche Emiliano: “Dopo le elezioni gli faremo vedere” dicevano i renziani prima del 4 dicembre. Ha vinto il No, e il film non è stato proiettato. Uomo solo senza comando, Renzi sta toccando con mano che, tutto sommato, il mondo – di cui si è sentito il centro – va avanti senza di lui. Il governo piace più del precedente, al voto non ci vuole andare neanche Grillo, che ha abbassato molto i toni e nemmeno il grosso del Pd. Anche nei ristoranti di Roma, fedeli indicatori dello stato del potere di turno, i posti a tavola dei renziani diminuiscono. Fino a dicembre si vedevano tavolate con venti persone, bicchieri in mano con un bianco freddo a piazza di Pietra. Ora attorno a Lotti i commensali, rimasti fedelissimi in Parlamento si contano sulle dita di una mano: Magorno, De Menec, Morani. Mentre agli ordini della Boschi sono rimasti Donati, Fanucci, la Fregolent, Marco Di Maio. Per gli altri, la fedeltà in verità si chiama paura, perché i capilista sono rimasti bloccati. E le liste vere si fanno a Borgo Pinti.

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