Il grande attacco di Trump a diritti civili, media e trasparenza finanziaria
Sotto accusa finiscono pure i media che non rispondono allo schema previsto dall’amministrazione Trump
“La demonizzazione di intere nazioni e delle loro popolazioni ci ricorda in modo spaventoso gli orrori che possono verificarsi quando lasciamo che degli ignoranti ci conducano nelle tenebre dell’odio. La morte di mia figlia non verrà utilizzato per promuovere questa folle persecuzione di innocenti”. Si è espressa in questi termini Rosie Ayliffe, in una lettera aperta al capo della Casa Bianca, riferendosi alla politica anti-islamica messa in atto dal presidente americano Donald Trump in nome della sicurezza nazionale. Rosie è la madre di uno dei due giovani – Mia Ayliffe-Chung, 21 anni, et Tom Jackson, 30 anni – uccisi in Australia lo scorso agosto da un francese, Smail Ayad, la cui appartenenza a gruppi estremisti islamici o la sua eventuale radicalizzazione, sono state del tutto escluse dalle autorità australiane. Eppure il crimine è stato inserito dall’amministrazione Trump tra quelli attribuibili al terrorismo e in qualche modo nascosto dai media di tutto il mondo (in una lista di 78 casi) accusati di nascondere notizie legate al terrorismo.
Rosie Ayliffe ha contestato la strumentalizzazione fatta dalla Casa Bianca della tragica fine delle figlia e allo stesso tempo numerosi mezzi d’informazione, agenzie di stampa, quotidiani, hanno risposto a Trump mostrando come a numerosi degli episodi compresi nella lista, era stato dato ampio risalto. La storia, tuttavia, indica un clima generale: la Casa Bianca punta a mettere in moto una macchina propagandistica il cui obiettivo è quello di diffondere a piene mani una ‘narrazione’ in cui l’insicurezza, la paura, l’idea stessa del conflitto in corso, prevalgano nell’immaginario collettivo. Per questo sotto accusa finiscono pure i media che non rispondono allo schema previsto dall’amministrazione Trump. In tale contesto, tuttavia, risposte come quella di Rosie Ayliffe sono come il classico granello di sabbia che manda in tilt l’ingranaggio. Tuttavia lo scontro per il controllo dell’informazione è appena iniziato: sotto il profilo propagandistico, infatti, i prossimi obiettivi dell’offensiva lanciata dalla galassia Trump, sono le elezioni che si svolgeranno in Europa, dalla Francia alla Germania, dall’Olanda all’Italia.
Intanto, nelle prossime ore, comunque entro la fine della settimana, la corte federale d’appello di San Francisco dovrà decidere se dare ragione al governo che chiede il ripristino del “muslim ban”, ovvero del decreto con il quale il presidente ha chiuso le frontiere ai cittadini provenienti da sette nazioni musulmane del Medio Oriente per ragioni di sicurezza nazionale, oppure se confermare la sospensione stabilita da un giudice di Seattle per il quale la decisione presa dalla Casa Bianca non aveva fondamento concreto.
In sostanza gli stati che si oppongono al provvedimento sostengono che questo sia immotivato – e in effetti l’avvocato del governo non ha portato prove convincenti davanti ai tre giudici della corte d’appello di San Francisco per illustrare i rischi terrorismo connessi al bando – mentre sono stati sollevati dalla difesa i problemi derivanti dell’esclusione senza ragione di studenti e residenti di lunga durata, delle famiglie separate d’improvviso, del caos nei voli e nei visti, provocati dal “muslim ban”. E però l’argomento più delicato avanzato dai legali di alcuni Stati – fra cui quello di Washington – schieratisi contro il decreto presidenziale, è quello relativo alla violazione della “libertà religiosa”. Di fatto il “muslim ban”, sostengono, sarebbe un provvedimento restrittivo contro popolazioni di fede islamica senza nessun’altra motivazione di fondo. Si tratta di un punto fondamentale, poiché tocca un aspetto chiave delle libertà civili negli Stati Uniti e dei diritti umani universali.
E’ anzi sorprendente come in poche settimane, l’amministrazione Trump sia subito arrivata ad aprire conflitti ideologici di tale portata. Dietro quello che sta avvenendo, d’altro canto, s’intravede la mano e il pensiero del principale ispiratore del trumpismo, ovvero di quel Steve Bannon, abile manovratore del consenso attraverso il suo sito “Breitbart news”, capace di costruire campagne denigratorie degli avversari politici e di manipolare l’informazione, oltre ad essere il promotore numero uno di una sorta di neo-fondamentalismo bianco. Per altro Bannon non nasconde le sue idee che anzi diffonde a piene mani; i punti fermi della sua visione sono: rivendicazione delle radici giudaico-cristiane, nazionalismo, capitalismo libero e selvaggio. A ciò si aggiunge il classico odio per gli anni ’60 della cosiddetta controcultura e di converso il richiamo al patriarcato, alla modestia, alla religione in un ritorno a una sorta di tradizionalismo moralistico con venature razziste tipiche del ‘Tea Party’, il movimento di estrema destra che ha scosso e alla fine travolto lo stesso partito repubblicano.
Fra i grandi nemici di Trump-Bannon ci dovevano tuttavia essere anche le grandi banche, quelle che nel 2008 hanno gettato sul lastrico migliaia di piccoli risparmiatori e sono state poi salvate – nella narrazione trumpiana – dall’intervento dello Stato, dall’establishment democratico nemico del popolo. Le banche responsabili della crisi dovevano fallire, ha sostenuto a lungo Bannon, fautore di un liberismo che volendo fare a meno di qualsiasi intervento pubblico sembrava disposto a punire anche i grandi speculatori finanziari incapaci di fare il loro lavoro. Ma il populismo capitalista, è scomparso d’incanto il giorno dopo che Donald Trump si è insediato alla Casa Bianca. Il presidente ha infatti già firmato alcuni decreti esecutivi in base ai quali verrà assestato il classico colpo di spugna alle leggi che regolamentavano l’attività speculativa delle banche d’affari approvate dall’amministrazione di Barack Obama nel 2010, ovvero all’indomani della crisi del 2008 e del colossale fallimento di Lehman Brothers (normativa “Dodd Frank”).
Di fatto si tratta di una serie di leggi in ragione delle quali venivano stabiliti controlli accurati sui grandi istituiti, quelli il cui fallimento potrebbe comportare un collasso sistemico; altre norme vigilavano da allora sull’erogazione di mutui e quindi puntavano a tutelare i consumatori. “Va ricordato, infatti – osservava qualche giorno fa il Sole24 Ore – che una delle pratiche utilizzate dalla banche d’affari durante la crisi dei subprime era quella del cosiddetto ‘predatory lending’. Vale a dire: l’erogazione mirata di mutui con clausole complesse (od opache) a fasce deboli, o con una basso livello di scolarizzazione, in modo da potere aumentare le commissioni legate all’erogazione stessa”. E d’altro canto l’amministrazione Trump vede, come mai è avvenuto in passato, la presenza nei posti chiave di comando del governo, dal Dipartimento di Stato all’economia, di esponenti dell’alta finanza internazionale, delle multinazionali petrolifere, della speculazione finanziaria. Un quadro ben diverso da quel quel fondamentalismo puritano dell’America profonda sul quale Trump e i suoi hanno costruito il loro consenso
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