Odio, fake news e populismo: ecco come funziona il franchising della post-verità
“Ciò che è virale è vero”, torniamo sempre lì. Quello dell’informazione è diventato il campo di battaglia decisivo
“Ciò che è virale è vero“, teorizzava anni fa Gianroberto Casaleggio, leader discusso e prematuramente scomparso del Movimento 5 Stelle. Non importa se una notizia sia vera, verificata e attendibile. L’importante è che sia in qualche modo verosimile, che venga veicolata tramite i canali giusti e soprattutto che entri nel circuito perverso che si autoalimenta sul web e sui social. Questa è sicuramente l’eredità più importante che Casaleggio ha lasciato ai suoi seguaci.
Un motto (“ciò che è virale è vero“) che è diventato una linea politica, non solo per il Movimento 5 Stelle. Il cui grande merito, innegabile, è stato quello di aver iniettato, prima di altri, il virus della post-verità nel dibattito pubblico. Chissà se Casaleggio non sia stato, a modo suo, anche una fonte di ispirazione per i tanti che oggi “violentano” il web e la comunicazione politica per plasmarlo al fine di creare facile consenso. Sicuramente è stato un precursore.
Parallelamente a ciò che Casaleggio e Grillo facevano in Italia, però, nel mondo questa pratica si è trasformata in una gigantesca macchina elettorale. Ne abbiamo avuto la dimostrazione più drammatica negli Stati Uniti, con la clamorosa elezione di Donald Trump. Una campagna basata su idee radicali, violenza verbale, guerra dichiarata all’establishment, individuazione di nemici e bersagli collettivi, interpretazione (e alimentazione) delle paure più recondite dei cittadini: il populismo, insomma.
Accanto a questo, però, a fare la differenza è stata l’incredibile capacità di mettere in piedi uno stupefacente esercito di creatori e diffusori di notizie, false e diffamanti, volte sostanzialmente a far crescere la rabbia e il pregiudizio nelle persone, per poi raccoglierne i frutti dentro le urne. Una meccanismo facile da pensare, diabolico, ma tutt’altro che scontato da mettere in pratica. Dietro tutto questo c’è l’eminenza “nera” che oggi affianca Trump alla Casa Bianca: Steve Bannon, ideologo del suprematismo bianco, militante della destra radicale antisemita e xenofoba, discusso animatore del sito Breibart News, un vero e proprio hub internazionale dell’odio razziale e anti-establishment, pronto a scrivere e diffondere qualsiasi cosa pur di ottenere l’obiettivo di infangare gli avversari politici.
Se a tutto questo sommiamo il comprovato apporto degli ormai mitologici hacker russi, ecco che la miscela esplosiva assume dimensioni e potenzialità finora inesplorate.
L’esperimento (riuscito) americano ha dato vigore al franchising della post-verità, sbarcata in breve tempo anche in Europa con il dichiarato obiettivo di condizionarne gli equilibri, dietro deliranti suggestioni di rivoluzioni politiche. America First, On est chez nous, Padroni a casa nostra, e potremmo andare avanti. Come si fa per le aziende che funzionano, o per i programmi televisivi di successo, il format è esportabile, modulabile, applicabile in tutte le realtà territoriali. A supporto di tutto, una galassia di siti e produttori di news, di immagini, di video, di gif animate e di meme che ingolfano le newsfeed di Facebook e le timeline di Twitter.
E’ un caso che Breibart abbiamo sviluppato d’un tratto le sue mire espansionistiche sulla Francia e sulla Germania proprio nell’anno delle elezioni? E’ un caso che gli hacker russi si siano già messi al lavoro per sfrugugliare sulle vite private dei candidati democratici (a partire dal francese Emmanuel Macron), i veri nemici dell’internazionale populista che vuole mettere le mani sul mondo?
Nei giorni scorsi abbiamo avuto un esempio chiarissimo di come funzioni il sistema. Geert Wilders, il candidato xenofobo e anti-islamico alle prossime elezioni olandesi (15 marzo prossimo) pubblica su Twitter una foto di uno dei suoi principali avversari politici, Alexander Pechtold, leader del movimento progressista Democrats66, con un cartellone recante la scritta “L’Islam dominerà il mondo“, attorniato da altri manifestanti nel corso di una dimostrazione di cittadini filo-Hamas.
In pochi minuti la foto entra nel circuito dell’odio e in poche ore fa il giro del web e dei social. Poche ore dopo (non abbastanza poche, purtroppo) la verità viene a galla. La foto fatta girare da Wilders è in realtà un banale fotomontaggio.
Il povero Pechtold protesta, dice che questo episodio segna un punto di non ritorno nei rapporti tra i Dem66 e il PVV (il partito di Wilders), ma ciò che è davvero sconvolgente è quello che succede dopo. Il candidato dell’estrema destra non fa alcun passo indietro, non chiede scusa, anzi, rincara la dose. Accusa ancora Pechtold di essere stato insieme ai manifestanti con le bandiere palestinese e gli dà dell’ipocrita. Cornuto e mazziato, diremmo noi.
Ecco, il meccanismo funziona così. Semplice no? E i risultati sono garantiti. E’ grazie a questa certezza che Wilders non si è sentito in dovere di scusarsi, grazie al fatto che sa benissimo che il fotomontaggio è arrivato sul computer e sugli smartphone di centinaia di migliaia di persone, che non sapranno mai che si tratta di un falso. La foto ha fatto il giro del web grazie alla macchina dell’odio, la smentita di Pechtold l’hanno letta in pochi. E non sarà certo Wilders, riconoscendo di aver fatto una “porcata”, ad aiutare a ristabilire la verità.
“Ciò che è virale è vero“, torniamo sempre lì. Quello dell’informazione è diventato il campo di battaglia decisivo. Il crinale che divide il bene dal male. Non capirlo (e non agire subito) vorrebbe dire consegnare il mondo – molto in fretta – all’internazionale populista.
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