La Corte d'Appello di San Francisco ha rigettato le tesi del Dipartimento di Giustizia che difendeva l'ordine esecutivo emanato da Trump il 27 gennaio. Ora il Presidente potrà ricorrere alla Corte Suprema ma le possibilità di una vittoria sono davvero poche
Il Presidente Trump ha perso la causa intentata davanti alla Corte d’Appello federale di San Francisco dove gli avvocati del Dipartimento di Giustizia chiedevano che venisse ripristinato l’ordine esecutivo emanato il 27 gennaio scorso noto come “muslim ban” o “travel ban” che impediva l’accesso nel Paese ai cittadini provenienti da sette paesi a maggioranza musulmana e chiudeva le porte degli USA ai rifugiati. I tre giudici di San Francisco all’unanimità hanno deciso che le sentenze che hanno bloccato il travel ban sono valide e che non sussistono i motivi d’urgenza per renderlo nuovamente operativo.
Il Presidente parla di sentenza politica
Donald Trump ha immediatamente reagito dichiarando che si tratta di una “decisione politica” e pubblicando sul suo profilo Twitter personale (ma non su quello di @POTUS ovvero quello ufficiale del Presidente USA) un tweet dove annunciava quello che era del resto ampiamente prevedibile ovvero il ricorso alla Corte Suprema, l’ultimo grado di giudizio nell’ordinamento giuridico statunitense. Trump ha ribadito che ad essere a rischio è la sicurezza nazionale, che era anche uno degli argomenti utilizzati dai legali del Dipartimento di Giustizia. Argomentazione che però è stata rigettata dai giudici di San Francisco che hanno detto che lo Stato non è stato in grado di fornire prove a favore della tesi secondo la quale il travel ban avrebbe impedito l’accesso di pericolosi terroristi sul suolo statunitense e non ha fornito prove di una diretta e precisa minaccia terroristica proveniente dai sette paesi (Iraq, Siria, Iran, Libia, Somalia, Sudan e Yemen) della lista e non è stato riconosciuto il carattere di urgenza nella richiesta di ripristinare il divieto d’accesso. I giudici non si sono invece espressi sull’accusa riguardante il fatto che l’ordine esecutivo emanato da Trump fosse fortemente discriminatorio nei confronti di gruppi etnici e religiosi. Ma la cosa più importante è che la Corte d’Appello ha ritenuto contraria all’ordine costituzionalel’affermazione della difesa che sosteneva che gli ordini esecutivi emanati dal Presidente non potessero essere sottoposti ad una revisione da parte della magistratura.
Quali saranno i prossimi passi di Trump?
Per il momento quindi il “muslim ban” rimane sospeso ma potrebbe essere ripristinato qualora il Presidente vincesse la causa davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Il problema è che attualmente – dopo la morte del giudice Antonin Scalia – la Corte ha un giudice in meno (otto invece che i nove previsti). Spetta a Donald Trump nominare il sostituto ma la nomina non avverrà in tempi brevi. Al momento però la Corte Suprema è divisa a metà (quattro giudici su posizioni democratiche e liberali altri quattro invece sono vicine ai repubblicani e ai conservatori) e allo stato attuale per raggiungere un verdetto sarebbe necessario almeno un voto di cinque contro tre. Cosa che in molti ritengono altamente improbabile (seppur possibile a livello teorico) dal momento che è dato per certo che i quattro giudici più liberali difficilmente sosterrebbero le ragioni di Trump. Secondo alcuni non è nemmeno certo che anche tutti i quattro giudici vicini alle posizioni dei repubblicani siano d’accordo con il travel ban. In caso la Corte Suprema non riuscisse ad emettere un verdetto allora l’ordinamento USA prevede che si faccia riferimento alla sentenza emanata dalla corte inferiore, in questo caso quella di San Francisco che ha dato ragione a chi sosteneva che il divieto d’accesso – seppur temporaneo – non fosse legale.
Il tempo è un fattore cruciale perché l’ordine di divieto d’accesso emanato da Trump rimarrà in vigore solo per 120 giorni. In alternativa, spiega l’Economist, Trump potrebbe chiedere che il caso venga presentato nuovamente alla Corte d’Appello di San Francisco ma questa volta non davanti ad un panel ristretto di tre giudici ma a tutti i membri della corte, che sono in totale venticinque. Teoricamente il verdetto emanato durante quella che è chiamata en banc session potrebbe ribaltare il pronunciamento di ieri ma si dà il caso che 18 dei 25 giudici siano di nomina democratica e quindi un verdetto favorevole a Trump è nuovamente poco probabile. Come puntualizza il Washington Post il problema del fallimento dell’ordine esecutivo però sta tutto nelle sue premesse: prima di emanarlo infatti Trump non ha seguito quella che è la prassi in procedure del genere ad esempio non ha consultato i leader del partito repubblicano e pare non abbia coinvolto nella decisione né il Dipartimento della Sicurezza Nazionale (Homeland Securiy) né il Dipartimento di Giustizia ovvero i due organi che avrebbero dovuto poi applicare l’ordine presidenziale.
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