sabato 24 settembre 2016

«Il tesserino non serve a niente, il vero giornalismo si fa con coraggio e onestà»

Una chiacchierata con Claudio Fava, giornalista, politico, vice presidente della Commissione d'inchiesta sulla mafia e autore del libro Comprati e venduti (Add Editore), un viaggio nella storia torbida del giornalismo siciliano, tra editori senza scrupoli e piccoli grandi giornalisti abbandonati

AFP PHOTO / GIULIO NAPOLITANO

23 Settembre 2016 - 11:40
245
advertisement
106 Fava Comprati Venduti Cover WEB 1
“Non esiste luogo d'Europa i cui siano stati uccisi tanti giornalisti come in Sicilia. Otto in poco meno di vent'anni: tutti per mano mafiosa”. Inizia così, levandosi subito un bel macigno dalla scarpa e sbattendolo in faccia al lettore, l'ultimo pamphlet di Claudio Fava, giornalista e politico italiano, figlio di Giuseppe, detto Pippo, giornalista anche lui, ucciso da Cosa Nostra il 5 gennaio del 1984. pubblicato da Add Editore. A dire la verità già con la scelta del titolo — Comprati e venduti. Storie di giornalisti, editori, padrini e padroni — Fava non fa nulla per addolcire la pillola, un'amarissima pillola che in un centinaio scarso di pagine ci dà l'esatto sapore della solitudine di chi il lavoro del giornalista lo fa in terra di Mafia senza contratti e senza nemmeno l'ordine a riconoscerne la professionalità.
È un giornalismo difficile, pericoloso, che troppo spesso è costato la vita di chi lo ha portato avanti e che, anche ora che la Mafia ha smesso di uccidere, richiede troppo spesso a chi lo fa un prezzo altissimo: la solitudine, l'isolamento, la marginalità. Il viaggio in cui Fava accompagna il lettore, tra editori collusi senza scrupoli e giornalisti tanto impegnati quanto emarginati, non è né semplice né piacevole. Si parla di un giornalismo che è quasi sparito, seppellito dalle convenienze e dalla pavidità di alcuni, ma anche dalla cappa della cosiddetta Oggettività che qualcuno ha infilato a forza addosso a un mestiere che, al contrario, neutrale non è per niente.
Perché il giornalismo non può essere considerato neutrale?
Perché il giornalismo è un mestiere in cui ti devi schierare rispetto alla verità. Devi fare una scelta di campo, devi farlo con onestà intellettuale e devi saperlo che non sei mai al di sopra dei fatti che racconti».
Che significa?
«Che è sempre espressione di un tempo, di un luogo, di una società. Nessun giornalista si può considerare alla stregua di un notaio o di un passacarte. Le cose che scrivi passano per forza attraverso la tua esperienza, la tua vita. Purtroppo a volte l'errore di considerarlo un lavoro da amanuensi è stato fatto. È stato considerato un lavoro come tanti altri, rischiando di rimanere astratto, distante, privo di empatia e, in fondo, senza capire che spesso il nostro lavoro e i nostri racconti hanno una importanza sociale straordinaria. Certo, parlo soprattutto di luoghi e tempi in cui il giornalismo è stato di frontiera, ma vale per ogni campo.
Chi ha interesse a che sia considerato neutrale?
Chi ha paura della buona informazione, chi ha bisogno di avere intorno a sé un giornalismo impigrito, distratto, benedicente e benevolente. E quindi anche privo di autorevolezza. E non vuol dire per forza che ci debbano essere peccati da nascondere o segreti da tacere. Solo che ci sono dei contesti sociali, politici o civili in cui l'assenza di buona informazione è una garanzia di impunità a tutti i livelli. Per cui si lavora con meno controlli, con più spregiudicatezza. Ci sono campi in cui, in Italia, si costruiscono carriere senza doversi mostrare agli occhi dell'opinione pubblica. Per questo un giornalismo impigrito certamente fa comodo.
Quanto è pigro il giornalismo di oggi rispetto a quello di trent'anni fa?
Certamente di più. Un po' perché da parte dei giornalisti ho l'impressione che si sia perso il piacere dell'indagine, della scoperta e del racconto, anche perché l'informazione in tempo reale prodotta attraverso i nuovi media ha almeno in parte tolto ai lettori il vecchio gusto di un'informazione che non si fermava alla superficie delle cose, alla prima domanda, ma che voleva andare oltre. In parte anche perché in passato l'informazione si è nutrita di eventi emotivi che oggi mancano.
Dal suo libro emerge un mestiere diviso profondamente in due: da una parte i giornalisti inquadrati nelle redazioni, dall'altra i precari...
Sì, è così. Non è soltanto un problema di regole dell'Ordine o di regole d'ingaggio del mestiere, è anche un problema dei giornalisti. È innegabile infatti che quella parte di giornalisti che stanno dentro un sistema di riconoscimenti e di formalità si sentono di far parte di una casta. E lo dico venendo da questo mondo. In tanti considerano tutto ciò che sta fuori frutto di improvvisazione, precarietà e, per così dire, periferia della professione. Ma è proprio lì, nelle periferie dell'Italia e della professione stessa, che sta venendo il miglior giornalismo. Il miglior giornalismo oggi lo produce chi non ha un contratto sicuro in tasca, chi non ha quindici mensilità garantite. Lo produce gente che mette a rischio la propria faccia, la propria pelle, ma anche il proprio lavoro. Perché lavorare in stato di precarietà assoluta vuol dire non avere difese, vuol dire avere molte più difficoltà ad andare avanti. Ma spesso sono proprio questi giornalisti ad aver tirato fuori le storie più dure e dolorose.
Perché quasi tutte le vittime delle mafie di cui parla nel suo libro fanno parte di questa categoria?
Perché sono più deboli e più soli. Ma per essere un buon giornalista, per fare bene questo mestiere non occorrono tesserini rossi, né esami dell'ordine. Puoi essere un pessimo giornalista ed avere il tesserino da professionista e puoi essere uno straordinario narratore e cronista e non essere nemmeno iscritto all'albo.
Come Impastato e Rostagno?
Sì, ragazzi che sono stati uccisi perché facevano giornalismo di altissimo impatto, qualità e valore civile. Questo atteggiamento della mafia è anche un po' il segno della maturità dei nostri nemici, laggiù in Sicilia.
In che senso?
Nel senso che Cosa Nostra non si è mai posta il problema del fatto che chi scriveva fosse o meno iscritto all'ordine. Il problema è sempre stato se davano fastidio o meno. Per un assurdo e grottesco paradosso, quindi, ci sono giornalisti il cui valore è stato riconosciuto solo dopo il loro assassinio, come se il patentino glielo avesse dato la mafia uccidendoli.
Un giornalismo precario può essere libero?
Un giornalismo precario è un giornalismo a rischio, sia professionale che personale. Da un canto il bisogno di fatturare e di scrivere per guadagnare portano ad abbassare la qualità, a scrivere di più, peggio, e a non poter rischiare di pestare i piedi dei potenti. Dall'altra, il fatto di essere fondamentalmente da soli, espone certamente a pericoli più grossi. Se il prezzo di un giornalismo realmente libero è il fatto che sia un giornalismo senza padroni, ma anche senza soldi, allora forse è un prezzo troppo alto da pagare. Poi, chiariamo, esistono anche grandi storie di giornalismo che non sono corsare e precarie, ma sono sempre di meno. È per questo che in commissione antimafia ci stiamo battendo da anni per rendere più tutelata la figura del freelance.
In parlamento c'è la volontà effettiva di cambiare lo stato della professione?
Direi che in parlamento c'è una buona sensibilità, ma non posso dire che ci sia una straordinaria volontà a cambiare la situazione.
Perché?
Perché, in fondo, alla politica fa comodo una stampa di questo tipo. Perché consente di non sentire il suo fiato sul collo troppo spesso.
L'ultimo giornalista ucciso dalla mafia che lei cita nel libro è Beppe Alfano, morto l'8 gennaio del 1993. Non ce ne sono stati altri nel frattempo? Significa che la mafia ha cambiato strategia o che il giornalismo non le dà più alcun fastidio?
Il giornalismo c'è. Ce ne sono tanti di giornalisti che, anche contro le difficoltà di cui abbiamo parlato prima, continuano a fare egregiamente il lavoro di quelli che non ci sono più. È la mafia che ha cambiato strategia. Ha capito che il prezzo che ha pagato per aver ucciso magistrati, politici e giornalisti è stato troppo alto in confronto ai benefici. Ora cerca vie diverse, che non è detto che siano meno dolorose degli omicidi
Perché ci ricordiamo di coloro che combattono la mafia quando quando sono morti e li lasciamo soli da vivi?
È più semplice parlare dei morti. Perché parlare di vivi significa anche esporsi e parlare di se stessi. I morti fanno meno male. I martiri fanno più comodo degli eroi.

Nessun commento:

dipocheparole     venerdì 27 ottobre 2017 20:42  82 Facebook Twitter Google Filippo Nogarin indagato e...