Turchia, Erdogan alza il tiro contro gli Usa: Gulen come Bin Laden. L'esercito si sfila dal golpe
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Diecimila arresti, oltre 35mila insegnanti sospesi, richiesta di dimissioni di tutti i 1.577 Rettori del Paese, epurazioni anche tra gli imam e nei servizi segreti, giro di vite sull'informazione. Il pugno duro del presidente turco Recep Tayyip Erdogan per smontare la rete di Fethullah Gulen, ritenuta la mente del golpe militare che venerdì scorso ha gettato la Turchia nel caos, si fa sempre più consistente e assume i contorni della rappresaglia.
Erdogan alza la posta in gioco e non sembra farsi intimidire dalle dure condanne che continuano ad arrivare dall’Occidente all’indomani delle immagini choc, che hanno fatto il giro del mondo, della repressione nei confronti degli ufficiali dell’esercito, accusati di essere i traditori. Centinaia di uomini mezzi nudi, ammanettati e ammassati in una palestra, pestaggi a colpi di bastone, calci e pugni. Il numero degli arrestati continua a crescere, arrivando a quota 9.322, come riferito dal vicepremier e portavoce del governo di Ankara, Numan Kurtulmus. Inoltre la presidenza turca per gli Affari religiosi (Diyanet), massima autorità islamica che dipende dallo Stato, ha annunciato di aver allontanato 492 dipendenti - tra cui imam e docenti di religione - per il sospetto di legami con la rete di Gulen. Ritorsione anche sugli insegnanti sospettati di legami con Gulen: sono stati sospesi in oltre 35mila, tra pubblici e privati, mentre l'organizzazione dell'intelligence ha sospeso cento persone, la maggior parte delle quali non erano agenti attivi, sempre per un presunto collegamento con il predicatore. La mano dura non ha risparmiato neppure l'informazione: l'Rtuk, il Supremo Consiglio per la radio e la televisione, ha annullato totalmente le licenze di trasmissione rilasciate a suo tempo alle "emittenti che hanno appoggiato i cospiratori del Feto", indicati come gli autori del fallito colpo di Stato, o che comunque "mantengono rapporti o vincoli" con questa organizzazione.
La prova di forza del presidente turco si esplica non solo dentro il Paese, ma anche nei confronti dell’Occidente, Stati Uniti in primis, e passa per una ferita che ancora brucia per l’America: l’11 settembre e la figura simbolo del terrore che nel 2001 sconvolse il Paese e il mondo intero, Osama Bin Laden. Pur di avere sotto il proprio controllo Gulen, Erdogan è pronto a tutto. Alla provocazione, innanzitutto, quando afferma: “Alcuni media internazionali hanno visitato la Pennsylvania (dove risiede Gulen ndr). Ora io vorrei chiedere a questi media: se avessero intervistato Bin Laden quando le torri gemelle sono state attaccate, cosa avreste pensato?”. E poi quelle che vengono ritenute le prove: quattro dossier, inviati a Washington, per ottenere l’estradizione “del capo terrorista”. L’obiettivo è chiaro e risiede nelle parole utilizzate oggi dal premier turco, Binali Yildirim: rimuovere il movimento di Gulen “dalle radici”.
La sfida agli Stati Uniti su Gulen è solo una delle frecce dell’arco che Erdogan sta puntando contro l’Occidente. Un’altra è la reintroduzione della pena di morte in Turchia, tema caldissimo nei rapporti già precari tra Ankara e l’Unione europea. "La pena di morte c'è negli Stati Uniti, in Russia, in Cina e in diversi Paesi nel mondo. Solo in Europa non c’è. In Turchia era stata eliminata, ma non ci sono statuti irrevocabili”, ha detto Erdogan parlando davanti a una folla a Istanbul.
Il Sultano prova a fare quadrato intorno alla sua strategia enfatizzando gli avvenimenti della lunga notte turca del 15 luglio e giocando la carta del rischio personale scampato solo all’ultimo minuto utile: “Se fossi rimasto” nel resort di Marmaris “10 o 15 minuti in più, sarei stato ucciso o catturato”, ha detto nel corso di un’intervista televisiva. Intanto le Forze armate si tirano fuori da qualsiasi coinvolgimento nel golpe. In una dichiarazione pubblicata sul suo sito, infatti, lo stato maggiore dell’esercito afferma che la maggior parte dei membri delle forze armate turche non aveva niente a che fare con il tentativo fallito del golpe. Un comunicato duro, dove si ribadisce l’accusa a Gulen e dove si fa sponda con la visione di Erdogan nel passaggio in cui si sottolinea che è stata data “la necessaria risposta” alle “serpi nel nostro seno” grazie alla collaborazione tra il potere politico, le forze di sicurezza e il popolo. Per rafforzare il loro ragionamento le Forze armate rivelano che i servizi segreti turchi informarono i vertici dell’esercito sulla preparazione del golpe alle 4 di venerdì pomeriggio, diverse ore prima del suo inizio, e che lo stesso esercito avvertì le autorità competenti di quello che sarebbe successo di lì a poche ore.
Di fronte alla linea dura del Sultano, Stati Uniti e Europa provano a reagire. Tra domani e dopodomani il Segretario di Stato americano, John Kerry, e il ministro degli Esteri di Ankara, Mevlut Cavusogl, parleranno a Washington proprio dell’estradizione di Gulen. Gli Usa vogliono “prove” e non “accuse”, ha sottolineato ieri Kerry a Bruxelles. Erdogan ha risposto oggi con l’invio dei quattro dossier. L’Europa, dal canto suo, prova a trovare una posizione di equilibrio tra il ‘no’ senza se e senza ma alla reintroduzione della pena di morte e la necessità di dialogare, come ha sottolineato il Commissario Ue all’allargamento, Johannes Hahn, che ha ricordato come la Turchia è il sesto partner commerciale per la Turchia, ma per Ankara l’Europa è “di gran lunga” il primo.
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