domenica 20 settembre 2015

I conti dei sindacati italiani.

Le organizzazioni sindacali non sono tenute a pubblicare  bilanci aggregati che rappresentino la loro effettiva rilevanza economica. Eppure il fatturato dell’universo sindacale probabilmente supera i due miliardi annui (anche grazie a sovvenzioni pubbliche). Le molteplici fonti di finanziamentosindacale e l’assenza di trasparenza fanno emergere alcune contraddizioni interne.
In Italia i sindacati sono associazioni di fatto, in quanto si sono sempre rifiutati di chiedere il riconoscimento da parte dello Stato: uno status che li sottrae ad una serie di vincoli, tra cui l’obbligo di trasparenza sui propri conti. Pertanto ogni sigla può comportarsi in materia di bilancio come meglio ritiene: poiché la trasparenza contabile non rientra nel dna italico, i bilanci ufficiali dei sindacati italiani (grandi e piccoli indifferentemente) assomigliano molto a meri rendiconti non rappresentativi della loro reale potenza economica.
Oggi è possibile tracciare solo un quadro di massima delle principali fonti di finanziamento sindacale, distinguendole fra finanziamenti diretti (le quote associative degli iscritti) e indiretti (distacco dei lavoratori per lo svolgimento di attività sindacale durante l’orario di lavoro e tramite soggetti giuridici che svolgono attività para-sindacale, come i patronati o i Caf): dai dati ufficiali e ufficiosi in circolazione emerge che il fatturato diretto del movimento sindacale si avvicina e potrebbe addirittura superare i due miliardi di euro ogni anno, a cui si aggiungono cospicui fondi pubblici e privati affidati in gestione o co-gestione.
IL FINANZIAMENTO DEGLI ISCRITTI
In tabella si riporta il numero degli iscritti dichiarati dalle tre maggiori confederazioni suddivisi in lavoratori attivi e pensionati, riportati a margine di un recente articolo pubblicato sul Corriere della Sera (http://www.corriere.it/economia/14_maggio_08/ma-quanto-valgono-cgil-cisl-uil-12-miliardi-euro-317cab44-d697-11e3-b1c6-d3130b63f531.shtml).
          Gli iscritti ai maggiori sindacati italiani
LAVORATORIPENSIONATIALTROTOTALE
CGIL2.716.5192.996.1235.712.642
CISL2.311.2762.006.51554.4894.372.280
UIL1.345.323582.147288.9732.216.443
TOTALE6.373.1185.584.78512.301.365
Fonte: Cgil, Cisl, Uil (dati 2013)
Il contributo di ogni iscritto è versato in percentuale sulla retribuzione o sulla pensione. Non esistono dati certi sugli incassi da tesseramento, ma una cifra indicativa può essere ottenuta attribuendo un versamento medio pro capite di 100-130 euro per un lavoratore e di 50-60 euro per un pensionato: il che si tradurrebbe in contributi annui minimi per i primi tre sindacati intorno i 900 milioni di euro (almeno 630 milioni dai lavoratori e 270 milioni dai pensionati ed altri iscritti). Si può affermare che quasi certamente i proventi da tesseramento superano abbondantemente il miliardo di euro per l’intero movimento sindacale italiano (che include le confederazioni minori Ugl e Confsal e le varie sigle autonome). Secondo gli stessi sindacati questa sarebbe la loro maggior componente di fatturato, di origine interamente privata.
E’ il caso qui di accennare ad una ulteriore opacità, che complica non poco il calcolo dei contributi diretti dei lavoratori ai sindacati: l’inattendibilità del numero degli iscritti dichiarati dalle sigle. Poiché il peso di un sindacato in sede di trattativa dipende dai tesserati e non esistendo a tutt’oggi un sistema oggettivo di certificazione delle iscrizioni reali, è forte il sospetto che i numeri siano gonfiati rispetto alla realtà. Infatti il numero dei pensionati sindacalizzati è certo, visto che gli enti previdenziali (che effettuano i versamenti dei contributi) attestano poco più di 5,6 milioni di trattenute (su un totale di poco più di 17 milioni di prestazioni previdenziali), ma la somma delle adesioni dichiarate dalle sigle ammonta a quasi 7 milioni. Dati oggettivi esistono anche sui dipendenti pubblici sindacalizzati, al contrario di quanto accade per i lavoratori privati (che sono ben 19-20 milioni, sommando dipendenti e autonomi/a progetto): in particolare sui dipendenti privati, che costituiscono l’insieme di gran lunga più numeroso di lavoratori (stimati tra i 14 e i 15 milioni), le cifre degli effettivi iscritti a movimenti sindacali non possono avere alcun riscontro oggettivo (si rimanda al link http://www.confsaluniversita.it/files/all_1_not_24_con_tabelle.pdf
 per un’analisi delle iscrizioni ai sindacati). Il problema della scarse attendibilità delle cifre si sarebbe dovuto risolvere a seguito dell’applicazione dell’Accordo sulla rappresentanza sindacale fra Confindustria e le maggiori confederazioni dei lavoratori, siglato il 28 giugno 2011, aggiornato il 31 maggio 2013 e novato il 10 gennaio scorso: fatto sta che sinora nulla di sostanziale è cambiato per fare chiarezza sull’effettiva consistenza dell’adesione sindacale (tra l’altro un ruolo di certificazione è stato attribuito al Cnel, ente pubblico che il governo Renzi vuole sopprimere). E’ chiaro che se gli iscritti reali fossero di molto inferiori a quanto auto-dichiarato dai sindacati, il fatturato del tesseramento ne risulterebbe notevolmente ridotto.
I FINANZIAMENTI INDIRETTI PUBBLICI
Nel 2012 il governo Monti ha commissionato all’ex Presidente del Consiglio Giuliano Amato uno studio sul finanziamento pubblico diretto e indiretto ai sindacati, con l’obiettivo di verificare se vi fossero i presupposti per attuare la spending review anche in questo ambito. Nella relazione finale vennero indicate in particolare tre voci di finanziamento indiretto: i distacchi sindacali nel pubblico impiego, le sovvenzioni ai patronati e quelle ai Caf. Secondo Amato dei margini per tagli ai contributi pubblici erano presenti solo sui distacchi nel pubblico impiego: non a caso uno dei punti della recente proposta di riforma della Pubblica amministrazione del governo Renzi riguarda il dimezzamento dei distacchi. Sui patronati e i Caf la relazione riconosceva una funzione socialmente rilevante (per i patronati ribadita anche dalla Corte Costituzionale) ed evidenziava che entrambi avevano già subito un taglio dei contributi negli anni precedenti.
Esaminiamo sinteticamente alcuni numeri sul finanziamento pubblico ai sindacati.
Distacchi sindacali. Nel 2012 la Corte dei Conti, nella nota di sintesi alla relazione sul costo del lavoropubblico, ha quantificato il costo dei permessi sindacali a carico del settore pubblico sulla base dei dati 2010.Secondo la magistratura contabile la somma dei diversi istituti esistenti (aspettative retribuite, permessi, distacchi, …) utilizzati dalle sigle equivale all’assenza dal servizio per un intero anno lavorativo di ben 4.569 dipendenti, uno ogni 550 in servizio: applicando a tale massa il costo medio di un dipendente pubblico la Corte ha stimato un costo complessivo per l’Erario pari a 151 milioni di euro (“al netto degli oneri riflessi”). La forma di assistenzialismo pubblico di gran lunga più pesante è il distacco dei dipendenti pubblici presso le sigle sindacali: secondo la relazione Amato sono 3.665 i dipendenti delle Pa che lavorano a tempo pieno per i sindacati. Visto che il loro stipendio (compresi contributi, premi di produttività, buoni pasto, …) viene pagato dalle Pa, tale  “prestito gratuito” di lavoratori ha un costo quantificato in poco più di 110 milioni annui.
Patronati. Sono strutture che assistono e tutelano i cittadini italiani (e  stranieri) sui servizi in materia di sicurezza sociale e di immigrazione/emigrazione erogati da amministrazioni/enti pubblici, da enti di previdenza complementare o da Stati esteri nei confronti di cittadini italiani: una riserva di attività molto ampia, che arriva, ad esempio, a comprendere la gestione delle pratiche per la cassa integrazione o dei sussidi di disoccupazione, oltre tutto ciò che può riguardare la previdenza pubblica. Data la rilevanza sociale dell’attività, lo Stato assegna ai patronati almeno lo 0,226% dei contributi obbligatori incassati da Inps e Inail: secondo la relazione Amato si tratta di circa 430 milioni di euro annui di origine pubblica, suddivisi fra circa 30 soggetti riconosciuti e ripartiti in base all’attività svolta (le strutture di Cgil, Cisl e Uil sono i maggiori, ma esistono enti promossi dai sindacati minori e dalle associazioni datoriali, link http://www.lavoro.gov.it/AreaPrevidenza/Vigilanza/Vigilanza/Pages/Sistema_Patronati.aspx). Va evidenziato che gli incassi dei patronati vanno oltre il finanziamento pubblico: alcune prestazioni devono essere gratuite (proprio in ragione dei contributi pubblici percepiti), altri servizi sono a pagamento per il richiedente (per esempio il rinnovo dei permessi per gli immigrati). Non esistono dati sull’effettivo fatturato annuo di provenienza privata, ma  il numero delle pratiche complessive lavorate è in ascesa da anni e supera di molto i dieci milioni. Da notare che l’attività di interfaccia con l’amministrazione previdenziale, riservata per legge a pochi soggetti, ha una valenza strategica per i sindacati: i patronati, infatti, sono utilissimi per reclutare nuovi iscritti tra i pensionati o fra gli autonomi (per cui consentono di incrementare gli introiti diretti da tesseramento).
Caf. I Centri di assistenza fiscale svolgono varie attività attinenti alle dichiarazioni dei redditi dei cittadini, dall’invio di comunicazioni ai sostituti d’imposta e all’amministrazione finanziaria all’assistenza ai cittadini nella compilazione. I Caf assorbono risorse pubbliche per circa 170 milioni, ripartiti fra un’ottantina di soggetti autorizzati: il 45% dell’attività è svolta dalle strutture sindacali, il resto dalle altre associazioni (datori di lavoro, professionisti, organizzazioni cattoliche). In passato sui Caf esisteva una riserva di esclusività a favore dei sindacati: nel 2006 una sentenza della Corte di Giustizia europea ha aperto il settore anche ai professionisti abilitati (dottori commercialisti, esperti contabili e consulenti del lavoro), rompendo almeno sulla carta (e solo per la presentazione delle dichiarazioni dei redditi) il precedente oligopolio sindacale. Anche i Caf possono chiedere compensi ai fruitori privati: ad esempio la lavorazione di un modello 730 non pre-compilato comporta un costo a carico del contribuente, mentre il mero inoltro è gratuito per il cittadino (in entrambi i casi lo Stato versa al Caf 14 euro, 26 per le dichiarazioni congiunte). Sul fatturato di origine privata non esistono dati ufficiali, le stime sono orientate intorno ai 150 milioni di euro.
Nonostante l’ampio giro d’affari e il consistente esborso di risorse a carico dello Stato (ben oltre mezzo miliardo di euro), sia i patronati che i Caf non sono assoggettati a regole che ne incentivino l’efficienza: le contribuzioni pubbliche riconosciute sono stabilite per legge o da convenzioni con enti pubblici, secondo il criterio della quantità e non della qualità. Il che, ad esempio, comporta che, fra gli 11-12 milioni di pratiche lavorate in un anno dai patronati (metà delle quali legate a previdenza e infortuni sul lavoro), molte siano incomplete o sbagliate, senza che esista qualche incentivo/penalizzazione  per impedire la doppia lavorazione della stessa posizione da parte degli enti pubblici destinatari (che quindi subiscono passivamente i maggiori costi d’istruttoria delle pratiche causati da soggetti privati esterni).
LE RISORSE (PUBBLICHE E PRIVATE) GESTITE
Secondo l’Isfol (Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori) le risorse complessive disponibili ogni anno in Italia per la formazione professionale ammontano a 1,6 miliardi di euro l’anno: ai finanziamenti europei del Fse si aggiungono quelli ministeriali (Welfare e Istruzione), regionali e dei fondi bilaterali alimentati dal prelievo obbligatorio in busta paga.
La formazione basata su fondi pubblici è estremamente parcellizzata in una moltitudine di soggetti eroganti (molte competenze sono regionali) e di soggetti gestori: non esistono dati nazionali che riepiloghino chi siano (a chi facciano riferimento) i soggetti privati gestori delle risorse, o che mostrino l’efficacia in termini di risultati (assunzioni al termine della formazione) o l’efficienza (ad esempio il peso dei costi di struttura sul totale finanziato) delle politiche di formazione: se è certo che una fetta di tale business è in mano ad organismi di derivazione sindacale, non è assolutamente possibile quantificarne fatturato o utili. Certo è che la torta è grande, sia in termini di fatturato complessivo che di risorse da spendere discrezionalmente: sebbene la trasparenza contabile, in questo ambito, dovrebbe favorire le strutture più organizzate e ramificate sul territorio come i sindacati, tuttavia queste (nonostante i tanti casi di malaffare emersi in tutta Italia nel corso degli anni) non sembrano muoversi in tale direzione.
Più tipico del mondo del lavoro è il caso degli enti bilaterali (istituiti nati in base ad una legge del 2003, regolamentati dai contratti collettivi nazionali e/o territoriali e governati pariteticamente da sindacati e imprese), che servono a offrire ai lavoratori servizi di formazione professionale e/o prestazioni di sostegno al reddito: nel solo settore del commercio e dei servizi, sono presenti 20 enti nazionali e 194 tra provinciali e regionali (http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/01/18/quote-di-assistenza-contrattuale-quella-tassa-occulta-pagata-ai-sindacati/844665/). Tali enti, che pur svolgono un ruolo di supporto all’attività pubblicistica e ricevono un contributo da tutti i lavoratori (generalmente inferiore allo 0,50% della retribuzione, ma non sempre) in base a norme previste dai vari contratti collettivi, sono di diritto privato: pertanto non sono sottoposti ad alcun controllo approfondito su entrate e uscite (di solito rendicontate in modo sommario), né a limiti  retributivi per i consiglieri d’amministrazione. In questo caso, comunque, non sono in ballo fondi pubblici, ma “solo” le trattenute in busta paga dei lavoratori (tutti, non solo di quelli sindacalizzati).
IL PATRIMONIO IMMOBILIARE
Altro versante su cui insiste un assoluto riserbo è quello del patrimonio immobiliare: i numeri che circolano sono frutto di stime grossolane e mai confermate. Il meccanismo grazie al quale le organizzazioni dei lavoratori sono riuscite nel corso dei decenni a schermare le consistenze immobiliari è l’intestazione a società nelle quali non apparivano a libro soci (fino a pochi anni fa i sindacati non potevano possedere direttamente gli immobili e li intestavano a entità giuridiche controllate di fatto). Quando la legge ha consentito l’intestazione diretta, i sindacati sono stati esentati dal pagamento delle imposte per il passaggio di proprietà e dell’Ici/Imu; la riforma dell’Imu del 2012 ha limitato l’esenzione ai soli immobili utilizzati per l’esercizio dell’attività associativa (secondo lo schema adottato per la Chiesa, i cui immobili sono stati suddivisi, ai fini fiscali, fra quelli destinati all’attività di culto e quelli destinati ad altri usi).
Il patrimonio immobiliare dei sindacati si è accresciuto in vari decenni, come forma di investimento dei proventi da tesseramento, ma anche grazie ad una legge dello Stato: nel 1977 il Parlamento decise, infatti, che il patrimonio dei disciolti sindacati fascisti venisse assegnato alle principali sigle all’epoca esistenti (Cgil, Cisl Uil, Cisnal, Cida), esentasse.
Le uniche cifre disponibili sul patrimonio immobiliare sindacale riguardano le tre principali sigle e sono basate su dichiarazioni pubbliche (non verificabili) rese in passato: la Cgil ha vantato la proprietà delle sue 3mila sedi, tutte in mano alle singole strutture territoriali o di categoria; la Cisl ha quantificato le sue sedi in 5mila, quasi tutte di proprietà (della confederazione, delle federazioni nazionali, delle organizzazioni territoriali); la Uil, in parziale controtendenza, ha creato una società in cui sono confluiti immobili per un valore storico di circa 35 milioni (ma il cui valore commerciale è di molto superiore), peraltro non conferendovi tutto il patrimonio immobiliare.
In sostanza non esiste possibilità di stimare il valore di mercato del patrimonio immobiliare dei sindacati, né di conoscere come venga utilizzato (oltre ad ospitare le sedi sindacali) e se in parte sia stato messo a reddito.
I BILANCI UFFICIALI
Per meglio puntualizzare l’assenza di trasparenza contabile che accomuna la quasi totalità delle sigle sindacali, si riportano i rendiconti riferiti al 2012 pubblicati dalle tre maggiori confederazioni. La Cgil ha presentato un bilancio in utile per poco più di 38 mila euro, a fronte di un fatturato di 24,7 milioni (23,4 milioni da tesseramento); il precedente esercizio si era chiuso con un passivo di oltre 800 mila euroLa Cisldal 2008 al 2012 ha chiuso sempre in perdita (in totale per quasi cinque milioni di euro): nell’ultimo esercizio noto ha dichiarato una perdita di 1,13 milioni, riuscendo a fatturare con il tesseramento solo 19,7 milioni. Nonostante sia più piccola, la Uil ha dichiarato nel 2012 i maggiori proventi da tesseramento, per circa 26 milioni  (è il caso di ricordare che il costo d’iscrizione è uguale per tutti i sindacati), il che ha consentito di registrare un utile superiore ai 500mila euro.
Come si vede i rendiconti pubblicati dai sindacati sono incompatibili con la realtà delle cifre sopra esposte, poiché riferiti alle sole strutture di vertice nazionali. Le associazioni sindacali, infatti, funzionano come delle holding, con la confederazione che fa da capogruppo e a cui vanno aggiunte le singole federazioni (come la Fiom per la Cgil), le strutture regionali e provinciali, le società che prestano servizi specifici all’interno del gruppo. Tale intreccio diviene inestricabile perchè manca l’obbligo di redigere bilanci consolidati che forniscano un riepilogo significativo dell’attività di tutte le strutture sindacali di categoria e/o territoriali (fatturato,  entrate, uscite, utili, cespiti patrimoniali, …). Dai bilanci consolidati emergerebbe il peso dei patronati, dei Caf, delle società immobiliari e degli enti di formazione oggi gestiti da società formalmente autonome.
Va detto che la reticenza contabile è caratteristica anche per le sigle non confederali, che, nonostante le dimensioni ridotte, non brillano certo per trasparenza: a volte i sindacati minori non pubblicano neanche dei rendiconti di massima.
CONCLUSIONI
Secondo noi di Economy2050 l’assenza di trasparenza contabile non implica necessariamente che i sindacati italiani destinino fondi in impieghi poco confessabili, ma semplicemente che l’eventualità del cattivo utilizzo delle risorse può essere più concreta (come alcuni casi di recente cronaca giudiziaria mostrano) e, soprattutto, che gli iscritti non hanno le informazioni necessarie per valutare quali siano effettivamente le priorità e le scelte compiute dalla loro organizzazione. A nostro giudizio la scarsa trasparenza appare come un grave segnale di arretratezza culturale e di insensibilità sociale da parte dei vertici sindacali, che li espone peraltro ad un ingeneroso accostamento con la casta politica (le cui ruberie sono state favorite proprio dall’assenza di trasparenza sui fiumi di contributi pubblici che confluivano e in parte ancora confluiscono nelle loro mani).
Ben lungi dal voler esprimere un giudizio complessivo sull’attività sindacale in Italia (che storicamente ha molti meriti, ma anche ingombranti demeriti), noi di Economy2050 riteniamo comunque che l’opacità contabile comporta una serie di rilevanti incoerenze che affliggono il movimento sindacale, soprattutto in termini di conflitto d’interessi.
In linea generale l’istituzionalizzazione del movimento sindacale nell’espletare rilevanti attività para-pubbliche (ovvero i cospicui introiti che da esse derivano) cambia la natura stessa del sindacato: se le entrate da tesseramento dei lavoratori fatturano meno degli altri incassi, è naturale che nel medio termine le organizzazioni tendano a difendere gli interessi delle loro società di servizi in settori protetti con almeno eguale energia di quanta profusa a tutela dei lavoratori. Ma questi differenti interessi potrebbero, in alcuni casi, essere in conflitto fra loro… Ad esempio è evidente che il sindacato non ha alcun interesse a semplificare/snellire tutto ciò che attiene le dichiarazioni dei redditi e le pratiche previdenziali: l’adeguamento della burocrazia italiana agli standard europei implicherebbe un crollo dei contributi pubblici a Caf e patronati (ovvero di oltre 600 milioni annui di origine pubblica e di altre centinaia di milioni a carico dei privati), oltre a una minore possibilità di proselitismo fra i cittadini. Stesso discorso vale nel settore della formazione professionale, che difficilmente potrà diventare più efficiente ed efficace se non verranno inseriti elementi di valutazione dei risultati e quindi di maggior trasparenza nella gestione dei fiumi di denaro pubblico che vi scorrono. Purtroppo da tempo appare chiaro che la formazione è forse il principale strumento a disposizione per contrastare la disoccupazione e la precarizzazione del lavoro: l’efficientamento del sistema formativo (anche scolastico) in raccordo con il mercato del lavoro dovrebbe essere una priorità strategica di chi ha il compito di assistere i lavoratori, ma non si ha notizia di azioni forti del sindacato in tale direzione.
Si segnala, infine, un ulteriore fenomeno, che emergerebbe con chiarezza se i bilanci aggregati sindacali fossero pubblicati: i sindacati hanno un numero equivalente (e in alcuni casi superiore) di iscritti pensionati rispetto ai lavoratori attivi e ricavano centinaia di milioni dai servizi para-previdenziali (resi per la maggior parte a pensionati o pensionandi). Una situazione che  modifica radicalmente gli interessi da tutelare: l’attenzione riservata al tema delle riforme previdenziali è divenuta equivalente (se non prioritaria) rispetto alla tutela in senso stretto dei lavoratori. Ma, essendo il settore previdenziale disciplinato da leggi (come visto nel post “La logica del sistema previdenziale italiano: perchè lo Stato ha salvato l’Inps”) al contrario dei contratti collettivi (che sono accordi fra privati), di fatto un sindacato che sia al contempo dei lavoratori e dei pensionati agisce in conflitto di interessi con se stesso, dovendo agire in Parlamento come gruppo di pressione lobbistico a difesa dei vantaggi di una parte dei cittadini (i pensionati/pensionandi attuali) nei confronti di altri cittadini (in particolare i giovani e i lavoratori attuali). Secondo noi di Economy2050 tale conflitto interno di identità è evidente da anni e va risolto in tempi rapidi, in modo che il sindacato possa recuperare la sua missione di tutela equilibrata dei lavoratori (che non sconfini nella tutela di tutti i cittadini o principalmente dei pensionati). Non a caso fra i lavoratori giovani la percentuale di adesione al movimento sindacale è bassissima: i giovani (in gran parte precari), infatti, vedono i sindacati come difensori dei pensionati e non più di chi lavora. Visti temi di intervento e di lotta scelti negli ultimi anni dalle maggiori sigle, come dare loro torto?

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